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Fascicolo 3, Novembre 2022


Coloro che arrivano qui / sulle nostre sponde

già tormentate dal freddo / già malate e già sole

non sanno che in noi / le finestre di grande speranza

sono ormai chiuse.

(Alda Merini)

Rassegna di giurisprudenza europea: Corte europea dei diritti umani

Art. 2: Diritto alla vita
Nel caso Safi e altri c. Grecia (Corte Edu, sentenza del 7.07.2022) la Corte Edu è chiamata a esaminare il ricorso presentato da tredici cittadini afghani, due siriani e un palestinese per lamentare varie violazioni della Cedu in seguito al naufragio che aveva causato la morte dei loro familiari 

nel mare Egeo, nei pressi dell’isola di Farmakonisi. Secondo la versione dei ricorrenti, la sera del 19 gennaio 2014 si erano imbarcati con i propri familiari su un peschereccio per raggiungere la Grecia dalle coste turche. La notte seguente, quando si trovavano già in prossimità della costa ellenica, in acque territoriali greche, il motore cessava di funzionare. Interveniva una navetta della guardia costiera, operante nel quadro dell’operazione Poséidon 2014 dell’Agenzia UE Frontex, che intimava ai passeggeri di tornare in Turchia. Due agenti della guardia costiera salivano a bordo della nave ordinando loro, con armi alla mano, di radunarsi sul ponte. Veniva deciso di rimorchiare il peschereccio ma, sempre secondo i ricorrenti, a velocità elevata e verso la Turchia. A causa di manovre ritenute pericolose, la barca iniziava a prendere acqua. La guardia costiera decideva quindi di rompere la fune che legava le due imbarcazioni causando, di conseguenza, il capovolgimento del peschereccio. Se chi si trovava sul ponte finiva in mare, coloro che erano ancora all’interno della cabina rimanevano bloccati e annegavano. Il centro nazionale di coordinamento di ricerca e soccorso veniva avvertito solo dopo il naufragio e, una volta lanciato l’allarme, le imbarcazioni che si trovavano in prossimità dello stesso si avvicinavano per mettere al sicuro i superstiti. Sempre secondo i ricorrenti, una volta trasferiti nell’isola di Farmakonisi, oltre a non avere contatti con l’esterno, alcuni tra loro venivano presi a calci mentre la maggior parte dei superstiti venivano sottoposti a una perquisizione corporale senza vestiti. Seguivano una serie di indagini sull’accaduto che portavano all’archiviazione delle accuse mosse nei confronti della guardia costiera. Ritenendo opportuno valutare il caso innanzitutto sotto il profilo procedurale del diritto alla vita (art. 2 Cedu) (cfr. tra le altre Corte Edu, 14.09.2021, M.D. e altri c. Russia, in questa Rivista, XXIV, 1, 2022; 19.09.2017, Ranđelović e altri c. Montenegro, in questa Rivista, XX, 1, 2018), la Corte Edu ricorda che tale disposizione impone alle Parti di rispondere in modo efficace a ogni possibile violazione che comporti la perdita di vite umane. A tal fine, occorre avviare, anche d’ufficio se necessario, indagini che siano quantomeno rapide e indipendenti, che raccolgano tutte le prove utili e che coinvolgano i possibili testimoni e i necessari esperti in modo da chiarire le circostanze del caso. Pur trattandosi di obblighi di condotta e non di risultato, le Parti devono fare quanto ragionevolmente possibile per identificare i responsabili e sanzionarli. Nel caso dei ricorrenti, se è vero che una procedura penale fosse stata avviata contro gli agenti della guardia costiera implicati nel naufragio, la Corte Edu ritiene che le azioni a tal fine intraprese dallo Stato convenuto sono problematiche sotto diversi profili. In primo luogo, molti tra i ricorrenti avevano lamentato grossi problemi di interpretazione ed evidenziavano, tra l’altro, di non aver mai detto che il naufragio fosse stato causato da un movimento brusco dei passeggeri come riportato nelle indagini e nella successiva decisione di archiviazione del caso. In secondo luogo, la richiesta dei ricorrenti di aver accesso alle registrazioni delle rilevanti comunicazioni della guardia costiera non era stata accolta, impedendo loro di partecipare in modo adeguato alle procedure avviate per chiarire l’accaduto. In terzo luogo, l’autorità competente aveva rifiutato di considerare o approfondire aspetti sollevati dai ricorrenti che avrebbero potuto chiarire le circostanze del naufragio, ad esempio il fatto che il centro di coordinamento di ricerca e soccorso non fosse stato prontamente informato. Tutto ciò fa ritenere alla Corte Edu che, nel caso dei ricorrenti, vi è stata violazione dell’art. 2 Cedu letto sotto il profilo procedurale. Quanto al profilo sostanziale dello stesso diritto alla vita, la Corte afferma che il nocciolo della questione è comprendere se lo Stato convenuto abbia adottato tutte le misure ragionevolmente possibili per proteggere la vita delle persone poste sotto la sua giurisdizione. Nonostante nel caso di specie, anche a causa delle lacune riscontrate nelle indagini, la Corte Edu evidenzia di non disporre di elementi in grado di stabilire i fatti al di là di ogni ragionevole dubbio, i giudici si concentrano su talune circostanze intorno al naufragio su cui vi era convergenza tra le parti. Su tali basi, la Corte nota come la guardia costiera, pur essendo consapevole delle precarie condizioni della barca dei ricorrenti e dell’elevato numero di persone a bordo, avesse deciso di condurre il salvataggio con la propria navetta, pur non essendo questa adatta allo scopo. Alcun supporto o richiesta di navi esperte in tali operazioni erano stati richiesti. Non si spiegano poi le ragioni per cui la stessa guardia costiera abbia effettuato un secondo tentativo di rimorchiaggio nonostante le difficoltà inizialmente riscontrate e nemmeno i motivi dei significativi ritardi sia nelle comunicazioni al centro di coordinamento sia nell’arrivo dei mezzi di salvataggio dopo il lancio dell’allarme. Appare dunque evidente per la Corte Edu che il modo in cui sono state organizzate e condotte le operazioni sollevano serie perplessità sul fatto che la tutela della vita delle persone interessate fosse realmente al centro delle preoccupazioni delle autorità interne. Ciò è sufficiente per ritenere che vi è stata anche una violazione del diritto alla vita letto sotto il profilo sostanziale. Infine, in relazione ai soli dodici ricorrenti il cui ricorso nella parte relativa all’art. 3 Cedu, per i presunti maltrattamenti subiti dopo il trasferimento sulla terraferma, è stato dichiarato ammissibile, la Corte Edu ritiene che le perquisizioni corporali condotte subito dopo il naufragio non erano motivate da alcuna ragione di sicurezza o di ordine pubblico. Anzi, tenuto conto della estrema vulnerabilità in cui si trovavano i ricorrenti interessati, tali perquisizioni hanno potuto provocare in loro un sentimento di angoscia e di inferiorità tale da umiliarli, dando così vita a un trattamento degradante in violazione dell’art. 3 Cedu.

Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti

a) divieto di refoulement

Il caso Akkad c. Turchia (Corte Edu, sentenza del 21.06.2022) riguarda un cittadino siriano che, dopo essere fuggito dalla guerra civile con la sua famiglia, otteneva una forma di protezione provvisoria in Turchia. Poco dopo, il padre otteneva lo status di rifugiato in Germania e avviava una procedura di ricongiungimento familiare di cui beneficiava la famiglia del ricorrente. Durante un tentativo di attraversamento irregolare della frontiera tra Turchia e Grecia per raggiungere la Germania, il sig. Akkad veniva fermato e, insieme ad altri dodici cittadini siriani, veniva condotto immediatamente in un centro di trattenimento al confine con la Siria. Al termine di un viaggio in bus durato venti ore, in cui il ricorrente veniva ammanettato, gli veniva consegnato un documento di cui non conosceva il contenuto e, senza garantirgli alcun servizio di interpretariato o assistenza di un avvocato, veniva costretto a firmare. Successivamente, questo documento si rivelava essere un formulario per il rimpatrio volontario. Rimpatriato immediatamente in Siria, qui veniva interrogato e maltrattato dai ribelli prima di riuscire a raggiungere, nuovamente attraverso la Turchia, la Germania. Dopo aver ritenuto implausibile la versione degli eventi avanzata dallo Stato convenuto, la Corte Edu ritiene appropriato esaminare le varie violazioni lamentate dal ricorrente relativamente al suo rinvio in Siria sotto il profilo del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3), letto isolatamente o in combinato con il diritto a un ricorso effettivo (art. 13 Cedu). A tal proposito, per la Corte le autorità turche dovevano essere consapevoli che l’allontanamento forzato del ricorrente verso la Siria potesse comportare il rischio di esporlo a trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu. Infatti, non solo le Nazioni Unite avevano pubblicato una serie di rapporti sulla situazione di violenza in Siria raccomandando di non procedere a rinvii forzati verso quel Paese (su cui Corte Edu, 14.09.2021, M.D. e altri c. Russia, cit.) ma le stesse autorità avevano già riconosciuto una forma di protezione al ricorrente proprio in ragione dei rischi cui poteva essere esposto in Siria. Ciononostante, prima del repentino allontanamento, lo Stato convenuto non ha proceduto a un esame individualizzato della sua situazione, come dimostra peraltro l’assenza di elementi specifici nel documento fatto firmare allo stesso, né ha accertato come mai i rischi su cui era stata fondata la protezione inizialmente accordata non fossero più attuali. Non si può nemmeno affermare che, attraverso la firma del formulario di rimpatrio volontario, il sig. Akkad avesse rinunciato in modo manifesto e non equivoco alla protezione accordata dall’art. 3 Cedu. Pertanto, il suo precipitoso allontanamento ha dato origine a una violazione del divieto di refoulement. A ciò si aggiungono: una violazione dell’art. 13 Cedu, letto in combinato con l’art. 3, perché alcune garanzie procedurali previste dalla legge interna in caso di rimpatri volontari, come la controfirma del formulario da parte di un rappresentante dell’UNHCR o di una ong o l’accesso a un ricorso con effetto sospensivo, non sono state applicate al sig. Akkad; una violazione dell’art. 5, par. 1, Cedu (diritto alla libertà e sicurezza personale) per essere stato trattenuto dal momento del suo arresto fino all’allontanamento in Siria senza intraprendere la procedura prevista dalla legge per i titolari di un permesso di soggiorno regolare in Turchia, comportante tra l’altro un atto motivato delle autorità competenti e la sua validazione da parte di un giudice; una violazione dell’art. 5, par. 2, Cedu, per non essere stato informato dei motivi del suo trattenimento; una violazione dell’art. 5, par. 4, Cedu, per non avere beneficiato di un ricorso attraverso il quale contestare la regolarità della sua detenzione, considerata anche l’impossibilità di aver contatti con soggetti esterni fino al rinvio in Siria quali un interprete, un avvocato o un rappresentante dell’UNHCR o di una ong; una violazione dell’art. 5, par. 5 Cedu, per non aver ottenuto alcuna riparazione per il trattenimento irregolarmente subito e le altre violazioni dell’art. 5 già accertate, tenuto peraltro conto che per il sig. Akkad era di fatto impossibile ricorrere dinanzi i giudici interni in assenza di una qualsiasi decisione sul suo trattenimento; e, infine, una violazione dell’art. 3 Cedu poiché, nonostante si trattasse di un trattenimento irregolare, l’ammanettamento durante il trasferimento in bus aveva dato origine a un trattamento degradante.

Nel caso R. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 30.08.2022) la Corte Edu è chiamata a valutare la presunta violazione degli artt. 2, 3 e 8 Cedu lamentata da un cittadino russo di origine cecena che, dopo aver ottenuto protezione internazionale insieme ai genitori nel 2004 e successivamente stabilito una vita familiare in Francia, veniva condannato nel 2017 per affiliazione a gruppi intenti a preparare un attentato terroristico. Seguiva l’interdizione permanente dal territorio francese. Ritenendo che il ricorrente costituisse una minaccia grave alla sicurezza statale, veniva anche posto fine al suo status di rifugiato. Ottenuto parere favorevole al suo allontanamento dall’autorità competente in materia, ne veniva ordinata l’espulsione con l’identificazione della Russia come Paese di destinazione. Il giorno dopo l’esame dell’appello presentato contro tali decisioni, il ricorrente veniva allontanato in Russia. Relativamente alla lamentata violazione dell’art. 3 Cedu in ragione dei rischi cui è stato esposto il ricorrente in Russia, la Corte Edu verifica innanzitutto come la situazione generale in Cecenia non sia tale per cui ogni rinvio verso la Russia comporti una violazione dell’art. 3 Cedu (già affermato, sulla base dei rapporti internazionali disponibili, in Corte Edu, 15.04.2021, K.I. c. Francia, in questa Rivista, XIII, 2, 2021). Quanto alla situazione personale del sig. R, è vero che, avendo ricevuto protezione internazionale quando era ancora minore, il ricorrente non ha sollevato elementi particolari da cui si possano presumere rischi di violazione dell’art. 3 Cedu per le attività poste in essere in Cecenia dai genitori quasi venti anni prima. Gli era stato anche rilasciato un passaporto russo poco dopo il suo ingresso in Francia, il che appariva in contraddizione con il manifestato timore di persecuzione da parte delle autorità russe. Inoltre, presumendo che queste ultime fossero a conoscenza delle ragioni alla base dell’allontanamento, non hanno mai richiesto l’estradizione del ricorrente. Ciononostante, nel fissare la Russia come Paese di destinazione, le autorità competenti non hanno tenuto conto che il ricorrente avesse comunque mantenuto la qualità di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 (cfr. Corte Edu, K.I. c. Francia, cit.), mentre il tribunale amministrativo intervenuto prima dell’esecuzione dell’allontanamento non aveva nemmeno esaminato le ragioni sollevate dal ricorrente sul rischio di refoulement (diversamente da Corte Edu, Grande Camera, 29.04.2022, Khasanov e Rakhmanov c. Russia, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022). Per questi motivi, la Corte Edu ritiene che l’allontanamento del ricorrente abbia dato origine a violazione dell’art. 3 Cedu, non essendo opportuno esaminare anche le altre violazioni lamentate dallo stesso.

Anche il caso W. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 30.08.2022) riguarda un cittadino russo di origini cecene cui era stato riconosciuto lo status di rifugiato nel 2007 e che veniva poi revocato, nel 2015, in ragione del suo soggiorno in Russia, dove aveva peraltro ottenuto un passaporto dalle stesse autorità che accusava di persecuzione. Nel 2020, accertati i suoi legami con cellule terroristiche radicali, ne veniva ordinato l’allontanamento con l’identificazione della Russia come Paese di destinazione. Se il ricorrente chiedeva invano alle autorità interne di riconsiderare il suo caso poiché, in seguito ai contatti presi dallo Stato convenuto con le autorità russe per dare esecuzione all’allontanamento, la sua famiglia in Cecenia era già stata minacciata, l’esecuzione dell’allontanamento veniva infine sospesa in virtù delle misure provvisorie indicate dalla Corte Edu ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento interno. Dopo aver ricordato che le Parti devono poter allontanare coloro che costituiscono una minaccia alla sicurezza nazionale nel quadro della lotta al terrorismo internazionale (ad es., Corte Edu, 29.04.2019, A.M. c. Francia, in questa Rivista, XXI, 2, 2019; Corte Edu, 9.01.2018, X c. Svezia, in questa Rivista, XX, 2, 2018) e che il suo compito è solo quello di valutare la compatibilità di tale allontanamento con la protezione offerta dalla Cedu, la Corte Edu si concentra sulla situazione personale del ricorrente avendo già escluso l’esistenza di un contesto di violenza generalizzata in Cecenia (v. sopra, Corte Edu, 30.08.2022, R. c. Francia). I giudici notano che, pur essendosi recato in almeno due occasioni in Russia con la conseguenza di essere stato privato dello status di rifugiato, i timori sollevati dal ricorrente riguardano la successiva rivelazione alla Russia del suo coinvolgimento nel terrorismo internazionale nell’ambito della procedura di allontanamento. Lo stesso ha prodotto due avvisi di comparizione emessi nei suoi confronti dalle autorità cecene a seguito di tale scambio di informazioni. Nonostante lo Stato convenuto abbia avanzato dubbi sulla loro autenticità e ritenga di aver condotto un esame della situazione personale del sig. W., per la Corte Edu le autorità interne non hanno analizzato l’impatto generato dallo scambio di informazioni con le controparti russe tale per cui i rischi lamentati dal ricorrente non sono stati adeguatamente esaminati. In queste circostanze, per la Corte si deve ritenere che, qualora ne venisse data esecuzione, il suo allontanamento comporterebbe una violazione dell’art. 3 Cedu.

Con il caso A.B. c. Polonia (Corte Edu, sentenza del 30.06.2022) sei cittadini russi lamentavano varie violazioni della Cedu per essere stati respinti, nel 2017, dalle autorità polacche oltre 30 volte al confine tra Polonia e Bielorussia nonostante avessero espresso l’intenzione di chiedere protezione internazionale. Secondo i ricorrenti, in ogni occasione avevano menzionato di provenire dalla Cecenia, dove temevano persecuzione per motivi politici, e l’impossibilità di ottenere protezione internazionale in Bielorussia. Negli ultimi otto tentativi, avevano anche portato con sé una richiesta di protezione internazionale già compilata. Ogni tentativo si concludeva con l’adozione, da parte delle autorità polacche, di provvedimenti amministrativi che ne negavano l’ingresso in Polonia in ragione della loro identificazione come migranti economici e non come persone bisognose di protezione internazionale. Ciò si ripeteva anche quando la Corte Edu indicava misure provvisorie in loro favore, chiedendo al Governo polacco di non allontanare i ricorrenti. Basandosi sui precedenti casi riguardanti rinvii sistematici al confine polacco (Corte Edu, 23.07.2020, M.K. e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXII, 3, 2020), la Corte Edu ritiene di aver già accertato l’esistenza, all’epoca dei fatti nel caso di specie, di una pratica generalizzata da parte delle autorità polacche volta a giustificare gli allontanamenti con una rappresentazione della realtà diversa da quanto riportato da coloro che si presentavano al confine per chiedere protezione internazionale. Considerato che i ricorrenti avevano sufficientemente informato gli agenti presenti al confine della loro situazione, producendo documenti e indicando i motivi per cui la Bielorussia non poteva essere ritenuta un Paese terzo sicuro, per la Corte Edu lo Stato convenuto avrebbe dovuto accoglierli fino a quando la loro situazione personale fosse stata adeguatamente esaminata dalle autorità competenti. Pertanto, sia per non avere avviato una siffatta procedura sia per aver esposto i ricorrenti a un refoulement indiretto rinviandoli in Bielorussia, vi è stata violazione dell’art. 3 Cedu. Per le stesse ragioni, ossia per non aver tenuto conto delle loro circostanze personali nonostante l’adozione di provvedimenti individuali con cui si negava loro l’ingresso (qualificabili come espulsioni ai sensi dell’art. 4, Prot. 4, su cui Corte Edu, 5.4.2022, A.A. e altri c. Macedonia del Nord, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022; Grande Camera, 13.02.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020; Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XXIV, 1, 2012, p. 104), vi è stata anche una violazione del divieto di espulsioni collettive. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo), letto in combinato con gli articoli 3 Cedu e 4, Prot. 4, poiché i ricorrenti non avevano avuto a disposizione alcun ricorso a carattere sospensivo da attivare contro i provvedimenti delle autorità polacche, e dell’art. 34 Cedu in ragione della non attuazione delle misure provvisorie indicate dalla Corte Edu in favore dei ricorrenti.

Sulla base delle stesse considerazioni, nel ricorso del tutto simile A.I. e altri c. Polonia (Corte Edu, sentenza del 30.06.2022) riguardante sette cittadini russi cui, tra il 2016 e il 2017, era stato negato per sedici volte l’ingresso al confine polacco nonostante avessero espresso agli agenti i motivi per cui temevano persecuzione e il rischio di refoulement indiretto in Bielorussia, la Corte Edu ha ritenuto che, anche nel loro caso, vi è stata una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, del divieto di espulsioni collettive e del diritto a un ricorso effettivo, letto in combinato con gli stessi art. 3 Cedu e art. 4, Prot. 4.

Il caso M.N. e altri c. Turchia (Corte Edu, sentenza del 21.06.2022) riguarda sette cittadini del Tagikistan che temono di subire trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu qualora venissero allontanati nel loro Paese. Arrestati durante un’operazione antiterrorismo, i ricorrenti venivano trasferiti in un centro di trattenimento per stranieri in vista del loro allontanamento, motivato da ragioni di sicurezza nazionale. Tornati liberi, i ricorrenti intentavano, senza successo, un’azione giudiziaria contro l’ordine di allontanamento sostenendo che, in ragione della copertura mediatica che il loro arresto aveva generato, erano stati erroneamente identificati come membri dell’ISIS. Ciò li avrebbe esposti a seri rischi per la loro vita e integrità fisica in caso di rientro in Tagikistan. Ritenendo appropriato esaminare il caso sotto il profilo dell’art. 3 Cedu, preso isolatamente o in combinato con l’art. 13, la Corte Edu riafferma innanzitutto il carattere assoluto del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti nel constatare come certe affermazioni dei giudici interni, per i quali i ricorrenti non avrebbero potuto godere del divieto di refoulement poiché costituivano una minaccia per la sicurezza pubblica della Turchia, non sono compatibili con la giurisprudenza della Corte stessa. Al contempo, essa nota come sia il tribunale amministrativo sia la Corte costituzionale non si fossero pronunciate sul timore che il loro arresto avesse indotto le autorità del Tagikistan a sospettarli di affiliazione al terrorismo. Pertanto, è la stessa Corte Edu a procedere a valutare i rischi cui sarebbero eventualmente esposti i ricorrenti in caso di rientro nel loro Paese di origine con riferimento alla loro situazione personale precedente e successiva agli eventi occorsi con il loro arresto in Turchia. A tal proposito, la Corte evidenzia che i ricorrenti non avevano intrapreso attività politiche ritenute illegali in Tagikistan, né erano ricercati dalle autorità di quel Paese, rispetto al quale peraltro i rapporti internazionali non segnalano persecuzioni nei confronti di persone impegnate, come i ricorrenti, in studi coranici (su altri rinvii in Tagikistan, Corte Edu, 22.03.2022, T.K. e altri c. Lituania, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022; 11.06.2019, S.S. e B.Z. c. Russia, in questa Rivista, XXI, 3, 2019; 7.11.2017, K.I. c. Russia, in questa Rivista, XX, 1, 2018). Quanto all’impatto dell’arresto in Turchia, la Corte Edu nota come, nonostante la copertura mediatica del loro caso, la loro identità non era stata svelata, che le accuse penali nei loro confronti in Turchia erano poi cadute e che era dovere delle autorità consolari del Tagikistan di interessarsi alla loro situazione come nel caso di ogni loro concittadino privato della libertà personale. Non è tra l’altro implausibile per la Corte che i ricorrenti, qualora fossero stati sospettati di legami con il terrorismo dalle autorità tagiche, siano in grado di spiegare la loro estraneità rispetto a tali accuse. Non avendo dunque dimostrato che rischiano di essere esposti a violazioni dell’art. 3 Cedu, per la Corte Edu il loro allontanamento non darebbe origine a una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, preso isolatamente o in combinato con l’art. 13 Cedu.

b) condizioni materiali

In H.M. e altri c. Ungheria (Corte Edu, sentenza del 2.06.2022) una famiglia di sei richiedenti asilo iracheni, trattenuta nel 2017 per oltre quattro mesi nella zona di transito di Tompa, situata al confine tra Ungheria e Serbia, lamentava una violazione dell’art. 3 Cedu a causa delle condizioni materiali a loro riservate durante il trattenimento, nonché una violazione del diritto alla libertà e sicurezza (art. 5 Cedu). La Corte Edu procede valutando prima la situazione dei figli e della loro madre e poi quella del padre. Quanto ai primi, essa nota come la permanenza per un periodo di oltre quattro mesi in un luogo come una zona di transito che appare simile a una prigione, con la costante presenza di polizia e servizi precari, non sia adatto a minori (tra le altre, Corte Edu, 31.03.2022, N.B., N.G. e K.G. c. Francia, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022; 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, 1, 2018; 12.07.2016, A.B. e altri c. Francia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Allo stesso modo, tenuto conto della gravidanza a rischio della madre e della conseguente condizione di vulnerabilità, il trattenimento in un luogo siffatto deve averle causato uno stato di ansia e sofferenza psicologica tale da raggiungere la soglia minima di gravità per ricadere nell’ambito dell’art. 3 Cedu. Nel loro caso, vi è dunque stata una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti. Quanto al padre, è vero che quest’ultimo – uomo adulto – non era più vulnerabile di qualsiasi altro richiedente asilo trattenuto in zone di confine (Corte Edu, Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c.Ungheria, in questa Rivista, XXII, 1, 2020), le cui condizioni risultavano quindi nel complesso accettabili. Tuttavia, durante il suo trattenimento il ricorrente aveva comunque subito trattamenti degradanti. Infatti, il sig. H.M. era stato ammanettato quando aveva accompagnato la moglie in ospedale, peraltro in presenza dei figli e senza che lui ponesse rischi per la sicurezza altrui, con effetti umilianti e lesivi della sua dignità. Ciò ha comportato, per la Corte Edu, una violazione dell’art. 3 Cedu anche nei suoi confronti. A tali violazioni si aggiunge una violazione dell’art. 5, par. 1 e 4, Cedu, poiché il loro trattenimento costituiva una misura di fatto, non basata su alcuna decisione giudiziaria, e non avevano avuto accesso ad alcun mezzo di ricorso per lamentare l’illegalità della privazione della loro libertà. 

Con il caso Thiam c. Italia (Corte Edu, decisione del 30.08.2022) un cittadino del Senegal, regolarmente soggiornante in Italia dal luglio 2012 al 2014, rientrava in Italia nel 2016 attraverso l’aeroporto di Milano Malpensa. Ai controlli, presentava il precedente permesso di soggiorno, oramai scaduto, e la relativa richiesta di rinnovo. Dopo aver scoperto che tale richiesta era già stata rigettata dalle autorità competenti, la polizia di frontiera notificava al ricorrente il rinvio immediato collocandolo, in attesa del primo volo disponibile per il Senegal, nella zona di transito dell’aeroporto. Cinque giorni dopo veniva allontanato. Il ricorrente intentava ricorso per ottenere l’annullamento dell’ordine di allontanamento e una riparazione per il trattenimento subito, anche sotto il profilo delle condizioni materiali ritenute precarie. Se il giudice di primo grado lo rigettava, per la Corte di appello di Milano la polizia aveva errato nell’impedire al sig. Thiam di fare ingresso in Italia. Infatti, i documenti presentati dallo stesso dovevano ritenersi validi, poiché la verifica sulla richiesta di rinnovo andava effettuata in Italia in modo anche da, nel caso questa avesse dato esito negativo, consentirgli di presentare un eventuale ricorso. Accertata anche l’irregolarità del trattenimento, veniva pertanto riconosciuto al ricorrente un indennizzo. Dopo aver ritenuto inammissibile la parte ricorso relativo alla violazione dell’art. 5 Cedu (diritto alla libertà e sicurezza) per aver già ottenuto una riparazione a livello nazionale, la Corte Edu si concentra sulla lamentata violazione dell’art. 3 Cedu generata, secondo il sig. Thiam, dalle precarie condizioni materiali a lui riservate nella zona di transito durante il trattenimento. La Corte Edu ricorda come un trattamento debba raggiungere una soglia minima di gravità per poter essere qualificato come inumano o degradante ai sensi dell’art. 3 Cedu, circostanza che può essere influenzata da una varietà di fattori come l’età o lo stato di salute della persona interessata o la durata del trattenimento (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Nel caso del sig. Thiam, che non presentava una particolare condizione di vulnerabilità, sono stati garantiti quantomeno tre pasti al giorno e un letto a suo uso esclusivo. Inoltre, nonostante non abbia avuto accesso a locali all’aria aperta, a docce o a contatti esterni, egli non si è trovato in una situazione di sovrappopolamento o di scarsa igiene. Alla luce di tutto ciò e, soprattutto, della breve durata del suo trattenimento, la soglia di gravità necessaria per ritenere che vi sia stata una violazione dell’art. 3 Cedu non è stata superata. Il suo ricorso è dunque stato dichiarato inammissibile.

Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza

Il caso Ali Reza c. Bulgaria (Corte Edu, sentenza del 17.05.2022) riguarda un cittadino iracheno che, giunto in Bulgaria nel 2000, otteneva protezione umanitaria in ragione della guerra in Iraq. Nel 2015, essendo ritenuto dalle autorità competenti una minaccia per la sicurezza nazionale dato il suo coinvolgimento nel traffico irregolare di migranti, veniva ordinato il ritiro del suo permesso di soggiorno, il suo allontanamento e il contestuale divieto di reingresso per cinque anni. Il sig. Reza veniva così trattenuto fino a quando, superato il periodo massimo di sei mesi senza l’ottenimento di un valido titolo di viaggio presso le autorità consolari irachene, il tribunale amministrativo ne ordinava il rilascio. Dinanzi la Corte Edu, lamentava la violazione degli articoli 3, 8 e 13 Cedu con riferimento ai rischi connessi al suo allontanamento in Iraq e dell’art. 5 rispetto al trattenimento a suo avviso irregolarmente subito. Dopo aver ritenuto di non doversi pronunciare sulle presunte violazioni degli articoli 3, 8 e 13 in quanto l’allontanamento del sig. Reza non ha più avuto luogo e necessiterebbe l’adozione di un nuovo ordine da parte delle autorità competenti, dinanzi le quali il ricorrente potrebbe far valere i rischi cui sarebbe esposto in Iraq, la Corte Edu esamina la presunta violazione del diritto alla libertà e sicurezza. Tenuto conto che un trattenimento di una persona soggetta ad allontanamento è regolare ai sensi dell’art. 5, par. 1, Cedu fin quando le autorità competenti adottano tutte le misure necessarie per darvi esecuzione (ad es., Corte Edu, 25.06.2019, Al Husin c. Bosnia e Herzegovina (n. 2), in questa Rivista, XXI, 3, 2019), la Corte Edu nota come le autorità bulgare non si fossero attivate prontamente per ottenere un titolo di viaggio e, nonostante non vi fossero prospettive di allontanare il ricorrente in Iraq, avevano continuato a trattenerlo per sette mesi fino all’intervento del tribunale amministrativo. Tenuto quindi conto che la privazione della sua libertà personale non era più giustificata, nel caso del sig. Reza vi è stata una violazione dell’art. 5, par. 1, Cedu.

Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare

Il caso Alleleh e altri c. Norvegia (Corte Edu, sentenza del 23.06.2022) riguarda una persona che, giunta in Norvegia, si era finta somala per ottenere protezione internazionale. Quando il suo status era ancora precario, essendo già stata respinta la sua domanda di asilo, sposava un cittadino norvegese. Di conseguenza, le veniva rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo che veniva rinnovato fino al momento in cui le autorità competenti accoglievano la sua richiesta di cittadinanza. Molti anni dopo, nel corso di alcune indagini, emergeva la vera identità e provenienza della ricorrente, la quale era nata in Gibuti. Le veniva quindi revocata la cittadinanza e ne veniva ordinato l’allontanamento con un contestuale divieto di re-ingresso per due anni. Per quasi tutti i giudici interni, tali misure non erano sproporzionate perché nel bilanciamento di interessi che avevano operato, nell’ambito del quale erano stati considerati sia l’ingerenza nel diritto al rispetto per la vita familiare della sig.ra Alleleh sia il preminente interesse dei minori coinvolti, doveva essere accordato un peso significativo al suo comportamento grave e ripetuto volto a infrangere la legge sull’immigrazione. Nell’esaminare la violazione dell’art. 8 Cedu lamentata dalla sig.ra Alleleh, dal marito e dai suoi quattro figli, la Corte Edu evidenzia come non vi siano dubbi sull’esistenza di una loro vita familiare in Norvegia e che questa abbia subito un’interferenza, prevista dalla legge, in ragione dei provvedimenti adottati contro la prima ricorrente. Occorreva solo stabilire se tale interferenza possa dirsi anche necessaria. A tal proposito, per la Corte Edu appare significativo che la decisione di allontanare la ricorrente dalla Norvegia sia stata esaminata in tre diversi livelli di giudizio, durante i quali sono stati ascoltati testimoni e nominati anche psicologi al fine di valutare quale fosse in concreto il preminente interesse dei figli della sig.ra Alleleh. In particolare, la Corte Suprema norvegese aveva richiamato tutta la giurisprudenza della Corte Edu rilevante in materia in modo da tenere conto dei fattori emersi nel contesto convenzionale per effettuare il bilanciamento richiesto dalle circostanze del caso. Su tali basi, la Corte Suprema aveva ritenuto appropriato valutare la situazione della prima ricorrente come quella di migranti che avevano stabilito una vita familiare nel Paese ospite nonostante si trovassero in uno stato di soggiorno precario, tale per cui l’allontanamento debba essere escluso solo in presenza di circostanze eccezionali (Corte Edu, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, 3-4, 2014; Corte Edu, 28.06.2011, Nunez c. Norvegia). Per quanto la Corte Edu sostanzialmente concordi con l’impostazione adottata dalla Corte Suprema pur sottolineando la specificità del caso, essa condivide soprattutto il peso attribuito a livello interno alla gravità del comportamento posto in essere dalla sig.ra Alleleh (cfr. Corte Edu, 1.02.2022, Johansen c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022), motivato anche da esigenze di deterrenza generale contro infrazioni della legge sull’immigrazione. È vero che, per la Corte Edu, l’impatto dell’allontanamento sulla vita privata dei minori, essendo tutti cittadini norvegesi che dovrebbero trasferirsi in un Paese a loro sconosciuto per mantenere intatta la loro vita familiare, appare considerevole. Tuttavia, come già evidenziato dalla Corte Suprema, la durata relativamente breve del divieto di re-ingresso (diversamente da Corte Edu, Grande Camera, 7.12.2021, Savran c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, 1, 2022), nonché la possibilità che questo possa essere riconsiderato nel caso di avvenimenti che mettano a rischio il benessere dei figli e di chiedere visti per visite brevi alla propria famiglia durante i due anni in cui vige il divieto, fanno ritenere alla Corte Edu che non via siano circostanze eccezionali che giustifichino la revisione dell’ordine di allontanamento. Pertanto, alla luce dell’attenta valutazione condotta dai giudici interni e del bilanciamento da loro effettuato tra tutti gli interessi in gioco, per la Corte Edu lo Stato convenuto non è andato oltre il margine di apprezzamento di cui gode in materia. Non vi è quindi stata violazione dell’art. 8 Cedu.

In Darboe e Camara c. Italia (Corte Edu, sentenza del 21.07.2022) la Corte Edu è chiamata a esaminare i ricorsi presentati da un cittadino del Gambia e un cittadino della Guinea per lamentare la violazione degli articoli 3, 8 e 13 in ragione del trattamento subito, quali minori non accompagnati, al loro arrivo in Italia. Tenuto conto che il ricorso del sig. Camara è stato radiato da ruolo per la perdita di contatti tra lo stesso e il suo avvocato, la sentenza riporta unicamente i fatti accaduti al sig. Darboe. Giunto in Italia nel 2016, quest’ultimo veniva posto prima in una struttura per minori non accompagnati e trasferito poi, per i quattro mesi successivi, nel centro di accoglienza di Cona, riservato a persone adulte. Nonostante avesse manifestato da subito la sua la volontà di richiedere asilo e la sua minore età, non otteneva la registrazione della sua richiesta di protezione internazionale e veniva dichiarato adulto senza alcun margine di errore in seguito a un esame medico, richiesto dalla Prefettura, condotto con il metodo Greulich e Pyle (esame del polso e della mano sinistra). Al sig. Darboe non era tuttavia stato richiesto alcun consenso per sottoporsi a tale esame, né era stato informato della procedura. Quanto alle condizioni di accoglienza nel centro di Cona, il ricorrente lamentava una grave situazione di sovrappopolamento, a cui si aggiungevano l’assenza di riscaldamento e acqua calda nei bagni, una situazione di scarsa igiene, la mancanza di servizi ricreativi, di assistenza medica e psicologica e di un adeguato numero di personale, oltre a episodi di violenza e di prostituzione. In seguito all’indicazione di misure provvisorie da parte della Corte Edu allo Stato convenuto, il sig. Darboe veniva infine trasferito in un centro per minori non accompagnati nella provincia di Bologna. Intanto, un esame medico condotto con un metodo diverso, il TW3 – Tanner-Whitehouse, confermava la minore età inizialmente dichiarata dal ricorrente. Dopo aver rigettato le obiezioni dell’Italia, specie in relazione all’impossibilità del sig. Darboe quale minore di presentare un ricorso dinanzi la Corte Edu, quest’ultima ritiene di dover esaminare il caso sotto il profilo del diritto al rispetto per la vita privata (art. 8 Cedu). Infatti, il concetto di vita privata riguarda anche l’integrità fisica e psichica di una persona e include vari aspetti con cui un individuo si identifica, tra cui proprio l’età. Dichiarato quindi il ricorso ammissibile e considerato che l’auto-identificazione dello stesso ricorrente come minore non poteva apparire infondata o irragionevole, la Corte Edu si concentra sul rispetto da parte dello Stato convenuto degli obblighi positivi derivanti dall’art. 8 Cedu. A tal fine, i giudici evidenziano come l’Italia abbia adottato una nuova legge a tutela di minori non accompagnati che introduce un metodo multidisciplinare per l’accertamento della loro età (cfr. legge n. 47/2017), ma che questa non fosse ancora in vigore al tempo dei fatti lamentati dal ricorrente. Ciononostante, le rilevanti norme sia di diritto internazionale sia delle direttive UE in materia di immigrazione e protezione internazionale stabilivano la necessità di tenere conto del preminente interesse del minore e, in particolare, l’adozione di una serie di garanzie sostanziali e procedurali volte ad assicurare una tutela specifica ai minori non accompagnati, ad esempio richiedendo condizioni di accoglienza adatte alla loro età e il riconoscimento di un inerente margine di errore nelle procedure di accertamento dell’età (per tutti i riferimenti, cfr. C. Danisi, Il principio del preminente interesse del minore in ambito migratorio: verso una convergenza?, in Migration and International Law: Beyond Emergency?, a cura di G. Nesi, Napoli, 2018). Nel caso del sig. Darboe, questa tutela specifica è mancata. Da un lato, non era stato immediatamente nominato alcun rappresentante o tutore legale con conseguenze negative sulla sua richiesta di asilo. Dall’altro, non solo era stato collocato in una struttura per adulti per oltre quattro mesi ma veniva anche sottoposto, senza informarlo sulla procedura e le sue conseguenze, a un esame di accertamento dell’età il cui risultato non indicava alcun margine di errore. Peraltro, la sua maggiore età non veniva confermata a livello giudiziario, rendendo impossibile per il sig. Darboe contestarne i risultati. Pertanto, tenuto conto che il ricorrente non ha goduto delle garanzie procedurali previste a tutela dei minori non accompagnati e che lo Stato convenuto non ha applicato nei suoi confronti il principio di presunzione della minore età, quale elemento centrale del diritto al rispetto per la vita privata dei minori non accompagnati auto-identificatisi come tali, né si è attivato fino alle indicazioni ricevute dalla stessa Corte, vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 3 Cedu per il trattamento inumano e degradante sofferto dal sig. Darboe come conseguenza del lungo collocamento nel centro di Cona, inadatto alla sua età e in condizioni particolarmente precarie (oltre ai casi già richiamati, Corte Edu, Grande Camera, 4.11.2014, Tarakhel c. Svizzera, in questa Rivista, XVII, 2, 2015). Infatti, per la Corte, tali condizioni non sono giustificabili nemmeno in una situazione di grande afflusso di migranti e di minori non accompagnati come avveniva all’epoca dei fatti, in ragione del carattere assoluto del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti. In assenza di un qualsiasi rimedio a disposizione del ricorrente per lamentare tali condizioni di accoglienza, vi è stata infine anche una violazione dell’art. 13, letto in combinato con gli articoli 3 e 8 Cedu.

Art. 2, Protocollo 4: Libertà di circolazione

Nel caso L.B. c Lituania (Corte Edu, sentenza del 14.06.2022) un cittadino russo, fuggito dalla Cecenia, otteneva protezione sussidiaria in Lituania nel 2003 con un permesso di soggiorno valido per un anno. Tale permesso veniva rinnovato fino al 2008, quando il ricorrente otteneva un permesso di soggiorno quinquennale rinnovato nel 2013 e nel 2018. Nello stesso tempo, il ricorrente chiedeva e otteneva dalle autorità lituane un passaporto, anch’esso rinnovato a ogni scadenza. Nel 2018, come conseguenza della nuova politica della Russia di rilascio dei passaporti nelle ambasciate a favore dei propri cittadini all’estero, lo Stato convenuto negava al ricorrente il rinnovo del passaporto. Per le autorità interne non sussistevano motivi per i quali il sig. L.B. non avesse potuto rivolgersi all’ambasciata del suo Paese dal momento che non risultava a rischio di persecuzione in Russia, avendo ottenuto protezione sussidiaria solo in ragione del conflitto in atto in Cecenia. Tale decisione veniva confermata a ogni tentativo successivo, nonché confermata dai giudici interni, nonostante il ricorrente facesse notare di non essere cittadino russo perché non aveva mai richiesto la cittadinanza della Federazione russa dopo lo smembramento dell’Unione sovietica. Esaminando il ricorso unicamente sotto il profilo del diritto a lasciare un Paese (art. 2, par. 2, del Prot. 4), la Corte Edu evidenzia come sia chiamata per la prima volta a valutare il caso di un diniego di un documento valido per l’espatrio opposto da una delle Parti a un cittadino straniero. A tal proposito, essa ritiene che, seppur tale diritto sia garantito a «chiunque», non può essere letto come volto a imporre alle Parti un obbligo di rilascio di uno specifico titolo di viaggio agli stranieri soggiornanti nel loro territorio. Se è vero che tale diritto trova applicazione al caso del ricorrente, il quale non potrebbe lasciare la Lituania senza ottenere alcun documento valido a tal fine, il sig. L.B ha subito un’interferenza nel godimento dello stesso. Occorre dunque verificare se tale interferenza sia conforme alla legge e risulti necessaria in una società democratica per perseguire un fine legittimo, ai sensi del par. 3 dell’art. 2, Prot. 4. Quanto al primo requisito, per la Corte Edu le autorità avevano agito in conformità alla legge interna applicabile, nella parte in cui non permette il rilascio di un passaporto agli stranieri che possono ottenerlo nei loro Paesi di origine. Quanto al secondo, se per la Corte Edu non è chiaro come la negazione del passaporto al ricorrente sia funzionale alla tutela dell’ordine pubblico, come pur avanzato dallo Stato convenuto, in ogni caso l’interferenza da lui subita non può essere ritenuta necessaria in una società democratica. Infatti, nel negare il documento richiesto, le autorità competenti non hanno adeguatamente valutato la situazione personale del sig. L.B. e non hanno verificato se, alla luce delle ragioni da quest’ultimo avanzate, la nuova politica russa di rilascio dei passaporti nelle ambasciate fosse realmente accessibile nel suo caso specifico. Per queste ragioni, secondo la Corte Edu il diniego opposto al ricorrente è stato basato su ragioni puramente formalistiche senza un vero bilanciamento tra gli interessi in gioco. Nel suo caso, dunque, vi è stata dunque una violazione dell’art. 2, Prot. 4.

Art. 1, Protocollo 12: Divieto generale di discriminazione

Il caso X e altri c. Albania (Corte Edu, sentenza del 31.05.2022) riunisce i ricorsi presentati da 18 cittadini albanesi di origine Rom e egiziana che lamentavano una violazione del divieto generale di discriminazione, di cui all’art. 1 del dodicesimo Protocollo addizionale alla Cedu (ratificato dall’Albania nel 2004 e poco dopo entrato in vigore), a causa dell’inazione dello Stato convenuto nel porre fine alla accertata segregazione di bambini di origine Rom e egiziani, pari a una media di oltre il 90% del totale degli iscritti nel 2012 al 2019, nella scuola elementare Naim Frashëri a Korça. Se per le autorità competenti l’alta concentrazione di minori appartenenti a tali minoranze non era intenzionale, già nel 2015 il Commissario contro la discriminazione adottava una decisione vincolante in cui si stabiliva che era in atto una discriminazione indiretta nel godimento del diritto all’istruzione dei minori e che le autorità competenti avevano l’obbligo di adottare misure positive per porvi immediatamente fine. Dopo aver radiato dal ruolo i ricorsi presentati da ricorrenti che avevano manifestato la volontà di ritirare le loro doglianze, la Corte Edu respinge l’obiezione dello Stato convenuto circa il mancato esaurimento dei ricorsi interni ritenendo che nell’adire unicamente il Commissario contro la discriminazione, quale autorità indipendente in grado di adottare decisioni vincolanti e non anche le corti interne, quel requisito fosse stato comunque soddisfatto. Il fatto poi che a rivolgersi al Commissario fosse stata un’associazione a tutela dei diritti delle persone di etnia Rom – l’European Roma Research Centre – anziché gli stessi ricorrenti appariva irrilevante. Venendo al merito del caso, la Corte Edu ricorda come abbia già qualificato, in termini di discriminazione, il collocamento sproporzionato di minori di etnia Rom in determinate scuole (Corte Edu, Grande Camera, 13.11.2007, D.H. e altri c. Repubblica Ceca; Grande Camera, 16.03.2010, Oršuš e altri c. Croazia). Dopo aver ribadito che, a tal fine, non è necessario identificare un intento discriminatorio dato che una siffatta discriminazione può anche emergere da una situazione di fatto, la Corte Edu verifica le azioni intraprese dallo Stato convenuto per porre fine alla accertata segregazione. A tal proposito, i giudici notano come le autorità competenti si siano attivate con molto ritardo e con misure inefficaci, ad esempio estendendo il programma di mensa gratuita indipendentemente dall’appartenenza a gruppi minoritari solo nella scuola Naim Frashëri e non negli altri istituti scolastici così da agevolare l’iscrizione di minori di etnia Rom ed egiziani in queste altre strutture. Non essendovi giustificazioni oggettive per tali ritardi, per la Corte Edu vi è stata una violazione del divieto generale di discriminazione cui deve essere posto fine, ai sensi dell’art. 46 Cedu, con la pronta adozione delle misure già indicate nella decisione, adottata a livello interno nel 2015, dal Commissario contro la discriminazione.

 

La rassegna relativa agli artt. 2-3 (non-refoulement) è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 3 (condizioni materiali)-1, Prot. 12 è di C. Danisi.

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