Nel corso del primo quadrimestre del 2025 sono intervenute due pronunce della Corte costituzionale: la sentenza n. 31 pubblicata il 20 marzo 2025 in materia di reddito di cittadinanza e la sentenza pubblicata il 20 aprile 2025 sull’assegno temporaneo di natalità per i richiedenti asilo. La Corte di cassazione si è pronunciata sulle discriminazioni collettive determinate dall’appartenenza nazionale e dalla cittadinanza. Avanti ai giudici di merito sono state segnalate varie questioni relative alla violazione della parità di trattamento fra cittadini italiani e stranieri sia nella consueta materia delle prestazioni di assistenza sociale, sia per il reddito di cittadinanza, sia per l’accesso degli stranieri ai posti di lavoro pubblici.
Reddito di cittadinanza
La Corte d’appello di Milano sezione lavoro con ordinanza del 31 maggio 2022 (reg. ord. n. 100 del 2022), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in riferimento agli artt. 3, 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 CDFUE, 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE.
Ad avviso della Corte d’appello il requisito della residenza in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo viola l’art. 3 Cost., non essendo ragionevolmente correlabile alla ratio della prestazione in esame e determinando, inoltre, una discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea. Tale previsione si pone altresì in contrasto con la parità di trattamento e con il divieto di discriminazione previsti dalle richiamate disposizioni del diritto dell’Unione.
La Corte costituzionale, dopo aver chiarito che l’intervenuta abrogazione della disciplina del reddito di cittadinanza a decorrere dal 1 gennaio 2024 non rendeva irrilevante la questione come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato e dall’INPS, ha richiamato le precedenti pronunce emesse nella materia ed ha ricordato come «la disciplina del reddito di cittadinanza definisce un percorso di reinserimento nel mondo lavorativo che va al di là della pura assistenza economica: mentre le prestazioni di assistenza sociale vere e proprie si “fonda[no] essenzialmente sul solo stato di bisogno, il Rdc prevede un sistema di rigorosi obblighi e condizionalità, che strutturano un percorso formativo e d’inclusione, il cui mancato rispetto determina, in varie forme, l’espulsione dal percorso medesimo” (sentenza n. 126 del 2021 e, in termini simili, sentenza n. 122 del 2020)». Conclude la Corte che «gli strumenti apprestati non consistono in meri sussidi per rispondere alla situazione di povertà, dal momento che il beneficio economico erogato è inscindibile da una più complessa e qualificante componente di inclusione attiva, diretta a incentivare la persona nell’assunzione di una responsabilità sociale, che si realizza attraverso la risposta positiva agli impegni contenuti in un percorso appositamente predisposto e che dovrebbe condurre, per questa via, all’uscita dalla condizione di povertà.». Afferma la Corte che «A differenza di altre misure, come l’assegno sociale, che questa Corte ha ritenuto correlate allo stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo (sentenza n. 50 del 2019 e ordinanza n. 29 del 2024), il progetto di inclusione previsto dal Rdc non guarda, come invece le suddette misure, al concorso realizzato nel passato, ma alle chances dell’integrazione futura, mirando alla prospettiva dello stabile inserimento lavorativo e sociale della persona coinvolta. In quest’ottica il gravoso termine del pregresso periodo decennale non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità precipua del Rdc e si pone in violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost. Tali principi, infatti, si oppongono alla discriminazione, anche indiretta (come di recente ribadito con la sentenza n. 25 del 2025), prodotta da una barriera temporale, effetto del requisito censurato, che, sebbene applicato a ogni richiedente, appare artificialmente finalizzata al solo tentativo di limitare l’accesso alla prestazione, favorendo i cittadini italiani già residenti (più facilitati – come peraltro dimostrano i dati segnalati dal giudice rimettente – a integrare tale requisito), a scapito sia di quelli di altri Stati membri dell’Unione, sia di quelli di Paesi terzi.». La Corte costituzionale ha quindi individuato il termine di cinque anni. «Questo dato temporale, infatti, non solo è quello assunto, come detto, dal legislatore nazionale all’interno dell’assegno di inclusione, “erede” del Rdc, ma è anche quello che, in sostanza, è stato giudicato non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la relativa stabilità della presenza sul territorio; non è poi di certo irrilevante che esso sia anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che testimoni[a] il radicamento del richiedente nel paese in questione». Si tratta di una grandezza «utilizzabile al fine di ricomporre la ragionevole correlazione con il requisito di radicamento territoriale.».
La Corte costituzionale, con sentenza n. 31/2025 ha pertanto dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni» (in G.U. 26.3.2025 n. 13).
Si tratta di una decisione che non solo spiegherà i suoi effetti favorevoli sui giudizi pendenti avanti ai giudici di merito, ma consentirà a tutti coloro che al momento della domanda di reddito di cittadinanza erano residenti in Italia da almeno cinque anni ed erano in possesso di tutti gli altri requisiti previsti dalla norma di ottenere la prestazione.
Assegno temporaneo per i figli minori di richiedenti asilo
Con ordinanza del 2 aprile 2024, iscritta al n. 99 reg. ord. 2024, il Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 31 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto-legge 8 giugno 2021, n. 79 (Misure urgenti in materia di assegno temporaneo per figli minori), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2021, n. 112, nella parte in cui «irragionevolmente esclude dal godimento dell’assegno temporaneo una categoria di soggetti», ossia i cittadini di Paesi terzi titolari di permesso di soggiorno per “richiesta asilo”, «che si trovano nello stato di bisogno che la prestazione in esame si prefigge di fronteggiare», con vulnus al principio di eguaglianza e ai valori della maternità e dell’infanzia.
La Corte costituzionale con la sentenza n. 40 depositata il 10 aprile 2025 ha dichiarato non fondate le questioni sollevate evidenziando che: a) la Costituzione impone di preservare l’eguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extra UE dall’altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni dirette a soddisfare un bisogno primario ed essenziale dell’individuo e a garantire i diritti inviolabili della persona; b) è necessario individuare «la natura del bisogno cui sopperisce l’assegno temporaneo, verificando se esso appartenga al nucleo di quelli essenziali nella cui tutela trovano realizzazione, attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, i principi di libertà ed eguaglianza tra individui nel pieno sviluppo della loro personalità.»; c) si deve identificare la ratio della norma di riferimento in quanto «Dove la ratio dell’intervento è quella di alleviare un bisogno primario della persona, la scelta legislativa di limitazione o di esclusione va sottoposta a uno scrutinio particolarmente stretto, mentre nel caso in cui non venga direttamente in evidenza la finalità di alleviare uno stato di bisogno, l’esclusione o il limite può rinvenire una sua diversa e ragionevole giustificazione (tra le molte, sentenze n. 31 del 2025, n. 42 del 2024, n. 34 del 2022, n. 44 del 2020 e n. 222 del 2013).». Ebbene ad avviso della Corte la provvidenza in questione «non vale a sostenere specifici bisogni primari dell’individuo, apparendo, piuttosto, misura premiale della genitorialità, che non è, quindi, volta a tutelare una situazione di indigenza assoluta.».
Ritiene conclusivamente la Corte che la situazione di bisogno dei richiedenti asilo, per i quali è previsto un insieme di provvidenze richiamate nella sentenza, non si connota in termini di impellenza e afferenza alle primarie necessità della persona «rende pertanto non irragionevole la scelta legislativa di non includere i titolari di permesso per asilo nella platea dei beneficiari dell’assegno temporaneo per i figli minori.» (in G.U. 16.4.2025 n. 16).
Assegno unico universale
I giudici di merito sono nuovamente dovuti intervenire per stigmatizzare il comportamento tenuto dall’INPS che nega l’assegno unico universale ai titolari di permesso in attesa occupazione. Si segnala, fra le tante, la pronuncia del Tribunale di Torino n. 291/2025 pubblicata il 20 febbraio 2025 che ha accolto la domanda diretta a far accertare la sussistenza di una discriminazione diretta per nazionalità in relazione ad una richiedente cittadina ivoriana in possesso di un permesso per attesa occupazione alla quale era stata negato l’assegno unico universale. Nell’analitica motivazione è stato ancora una volta sottolineato che «la titolarità di permesso di soggiorno “per motivi di lavoro” non può essere intesa nel senso di titolarità dei soli permessi di lavoro perché, in tale accezione, essa si porrebbe in contrasto sia con la normativa euro-unitaria sia con le norme interne, lette e interpretate secondo il principio di primazia che caratterizza il diritto dell’Unione europea.». Il Tribunale di Torino ha ricordato che il legislatore, nel decreto attuativo della legge delega (d.lgs. 21.12.2021, n. 230), nel delimitare, all’art. 3 co. 1 a), i cittadini extracomunitari destinatari del beneficio, ha abbandonato la precedente dicitura scegliendo di utilizzare quella di «permesso unico di lavoro. Si tratta di una locuzione che, per conformarsi alla Costituzione e alla direttiva 2011/98/UE, non può che voler fare riferimento ai titolari di permesso unico di lavoro indicati dalla direttiva medesima e, quindi, ai titolari di un permesso che consente di lavorare».
Analogamente ha concluso la Corte d’appello di Trento con la sentenza n. 9 del 2025 pubblicata il 6 marzo 2025 che, nel confermare la sentenza di primo grado, ha evidenziato che il comma 11 dell’art. 22 del d.lgs. n. 268/1998 «recita: La perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario ed ai suoi familiari legalmente soggiornanti. Il lavoratore straniero in possesso del permesso di soggiorno per lavoro subordinato che perde il posto di lavoro, anche per dimissioni, può rendere dichiarazione di immediata disponibilità al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, e beneficiare degli effetti ad essa correlati per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno». La Corte ha sottolineato «D’altronde in nessuna parte dei propri scritti INPS ha chiarito in che cosa dovrebbe consistere questo permesso unico, cioè in che cosa esso si debba concretamente differenziare dal permesso per attesa occupazione di chi sia uscito temporaneamente (per il periodo massimo indicato) dal mondo del lavoro, e sia anche iscritto nelle liste appositamente predisposte. Non è un caso, altresì, che un altro organo primario dello Stato, vale a dire il Ministero interni, inserisca nei permessi elettronici di soggiorno, e lo abbia fatto anche per la ricorrente, sotto la dicitura “tipo permesso” quella: “att. occupazione”; e, sotto la dicitura “annotazioni”, quella: “perm. unico lavoro”. Sarebbe troppo semplicistico ipotizzare una “svista”, o un mancato coordinamento tra Ministeri, in un documento che è destinato a certificare l’identità del titolare al pari di un qualsiasi altro documento equipollente. A completamento appare utile riportare la definizione di permesso unico di lavoro di cui alla dir. 2011/98, art. 2 “permesso di soggiorno rilasciato dalle autorità di uno Stato membro che consente a un cittadino di un Paese terzo di soggiornare regolarmente nel territorio di quello Stato membro a fini lavorativi”, con una dizione di carattere generale che non lascia spazio a dubbi sulla finalità del documento: soggiorno con finalità di lavoro, che si tratti quindi di occupazione in essere o attesa occupazione, o perdita di un lavoro precedentemente svolto, o di soggetto che, per usare l’espressione di cui a p. 38 appello, “è uscito dal mondo del lavoro” temporaneamente. Quindi nulla di diverso dal permesso “in attesa di occupazione” come originariamente definito dal noto art. 22 co. 11.» (in Banca dati Asgi).
Assegni al nucleo famigliare
Come noto la sussistenza del diritto all’ANF anche per i famigliari residenti all’estero è ormai incontestabile dopo le sentenze della Corte di giustizia del 25 novembre 2020 nelle cause C-302/19 e C-303/19 come chiarito anche nella sentenza della Corte di cassazione n. 5802/2025 dep. il 4 marzo 2025. Le due recenti pronunce emesse in materia dalla Corte di cassazione si sono occupate dell’assolvimento dell’onere probatorio, che grava sul richiedente la prestazione, in merito alla sussistenza del requisito reddituale. Nella sentenza n. 5802/25 la Corte, premesso che nell’ambito giurisdizionale l’autocertificazione può avere solo l’efficacia di un principio di prova valevole ad attivare i poteri officiosi ex art. 437 c.p.c., ha sottolineato che la prova del requisito reddituale può essere data con qualunque mezzo anche con presunzioni e che la Corte territoriale aveva correttamente operato motivando la sussistenza del requisito sulla base di una pluralità di indici che si aggiungevano all’autocertificazione.
La Corte di cassazione è nuovamente intervenuta nella materia con la sentenza n. 12100/2025 ribadendo che « La parte che rivendica l’assegno per il nucleo familiare ha l’onere di allegare e di provare, con ogni mezzo idoneo, gli elementi costitutivi del diritto dedotto in causa e a tale onere l’odierno controricorrente ha ottemperato, secondo la puntuale valutazione formulata dai giudici d’appello anche alla stregua della specificità delle allegazioni e della speculare carenza di rituali contestazioni ad opera dell’Istituto. » A tale riguardo, la Corte d’appello di Firenze ha puntualizzato che il richiedente «[h]a dunque documentato, a mezzo del libretto di famiglia tradotto e dell’attestazione consolare, la composizione della propria famiglia, la misura dei redditi dei familiari, la circostanza che egli provvedesse al loro mantenimento, così essendo essi a suo carico alla data della domanda, ha documentato l’esistenza del rapporto di lavoro e la relativa retribuzione, ha dichiarato al momento della domanda (come allegato specificamente dalla sua difesa e non contestato) di non essere sottoposto né lui né i familiari a imposizione nel Paese di origine, così di necessità affermando anche di non avere altri redditi che quelli prodotti in Italia e quindi risultanti da dichiarazioni certamente accessibili per l’istituto. Dichiarazioni rispetto alle quali nulla ha dedotto l’ente di previdenza (come per vero nulla ha specificamente contestato in relazione all’ulteriore documentazione prodotta), così che non vi è motivo di dubitare che l’ammontare e la composizione dei redditi familiari dell’appellante consenta il riconoscimento del beneficio» (p. 13 della pronuncia d’appello)».
Accesso dei cittadini di Paesi terzi al pubblico impiego e legittimazione attiva delle associazioni
La forte ripresa dei concorsi pubblici dovuta alla disponibilità dei fondi PNRR ha riportato all’attenzione il tema dell’accesso dei cittadini stranieri al pubblico impiego. La materia, come noto, è regolata dall’art. 38 d.lgs. n. 165/01 (TU sul pubblico impiego) che garantisce l’accesso ai cittadini UE, ai loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, ai titolari di protezione internazionale e ai titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornati di lungo periodo; sempreché i posti di lavoro messi a concorso non implichino l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengano alla tutela dell'interesse nazionale.
Il secondo comma della norma prevede che «i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana» siano fissati con d.p.c.m., ma il decreto che regola la materia è ancora oggi il d.p.c.m. n. 174/1994 che introduce la “riserva di cittadinanza” per tutti i posti di lavoro di livello dirigenziale e per tutti i posti di lavoro alle dipendenze di alcuni Ministeri.
Nel frattempo, però, la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, fornendo l’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 45 TFUE (che esclude “gli impieghi nella pubblica amministrazione” dal principio di libera circolazione) aveva notevolmente ristretto il campo di applicazione della eccezione, precisando che la stessa può essere riferita solo a posti di lavoro che comportino l’esercizio effettivo e prevalente di pubblici poteri e escludendo che possano essere riservati ai cittadini interi settori, prescindendo da una disamina caso per caso delle funzioni collegate al posto di lavoro messo a concorso.
Paradossalmente, lo stesso Governo, difendendo la nomina di un cittadino austriaco a direttore di un museo, aveva assunto la medesima posizione, ottenendone la conferma anche in sede di Consiglio di Stato (ad. plen. 25.6.2018 n. 9).
Ciononostante i concorsi indetti dai Ministeri indicati dal predetto d.p.c.m. continuano ad essere riservati ai soli cittadini italiani e, una volta sottoposti invece ad un esame in concreto delle funzioni assegnate, non superano il vaglio di conformità con il citato art. 38, riletto alla luce della giurisprudenza euro-unitaria. È il caso giunto all’esame del Tribunale di Milano e riguardante un concorso bandito dal Ministero degli interni per 1.248 posti di funzionari con vari profili (amministrativo, tecnico, linguistico, economico-finanziario, statistico, linguistico).
Due associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 d.lgs. n. 215/03 hanno contestato la riserva di nazionalità, chiedendo al giudice di ordinare la modifica del bando e la riapertura delle procedure concorsuali (che nel frattempo il Ministero aveva mandato avanti, giungendo sino ad espletare le prove scritte). Il Tribunale ha accolto integralmente la domanda affermando in primo luogo – e in forza della specialità del giudizio antidiscriminatorio – la giurisdizione del giudice ordinario, in deroga al principio generale di cui all’art. 63, co. 3 d.lgs. n. 165/01 (che assegna le controversie in materia di concorsi pubblici al giudice amministrativo). È poi passato ad esaminare le posizioni messe a concorso alla luce dei criteri enunciati dalla Corte UE per concludere nel senso della inesistenza di quell’esercizio continuativo di poteri autoritativi che giustifica appunto la riserva di cittadinanza. Ha quindi ordinato al Ministero di sospendere la procedura (rafforzando l’ordine con l’astreinte di cui all’art. 614-bis c.p.c.) e di reiterarla aprendola a tutte le categorie di stranieri indicate nell’art. 38 d.lgs. n. 165/01 (Trib. Milano 15.2.2025 in Italian equality network).
Nello stesso senso aveva deciso nel 2020 la Corte d’appello di Firenze con riferimento a un concorso indetto dal Ministero della giustizia per 800 posti di assistente giudiziario. Anche in questo caso era stata prevista la limitazione ai soli cittadini italiani trattandosi di uno dei Ministeri indicati appunto nel d.p.c.m. 174/1994. Ora la questione è giunta in Cassazione che ha rigettato il ricorso del Ministero affrontando preliminarmente il tema della legittimazione attiva, nelle discriminazioni collettive, degli enti e associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 d.lgs. 215/03.
Sul punto, la querelle deriva dal fatto che il predetto decreto legislativo riguarda solo le discriminazione per razza e origine etnica, sicché una interpretazione letterale potrebbe far ritenere che anche la legittimazione attiva ivi prevista sia limitata alle discriminazioni per detti fattori e non possa estendersi a quelle basate sul (diverso) fattore della nazionalità, cioè quelle che riguardano lo straniero.
In realtà la giurisprudenza di Cassazione si era già consolidata (con le sentenze 4.2.2016 n. 2237, 8.5.2017 nn. 11656 e 1166, 7.11.2019 n. 28745, 16.8.2023 n. 24686) nel senso di una lettura della norma coerente con un sistema nel quale la legittimazione attiva di enti collettivi a fronte di discriminazioni che riguardano una pluralità di soggetti, costituisce la regola e non l’eccezione: conseguentemente risulterebbe incoerente se, tra tutti i fattori protetti contemplati dal diritto antidiscriminatorio, solo il fattore nazionalità restasse privo di una norma sulle azioni di contrasto alle discriminazioni collettive (salva la risalente disposizione di cui all’art. 44, co. 5, TU Immigrazione, che legittima le “rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative” alle azioni di contrasto alle discriminazioni dello straniero, ma solo se poste in essere “dal datore di lavoro”).
Ora la Cassazione (sentenza 1.4.2025 n. 8674) conferma nuovamente questo orientamento prendendo atto che il Ministero ricorrente non aveva apportato nessun argomento nuovo rispetto a quelli già esaminati dalla giurisprudenza precedente.
La Corte ha cosi potuto passare all’esame dei motivi di merito, prendendo atto della completezza della argomentazione della Corte fiorentina, laddove aveva escluso – nella figura dell’assistente giudiziario – un «esercizio diretto di poteri… di coercizione o di imperio nei confronti dei terzi posto che dalle previsioni relative alle sue funzioni sono fissati compiti meramente ausiliari».
Da rilevare la peculiarità della vicenda giudiziaria che era giunta alla decisione di merito quando ormai le prove erano state espletate e i vincitori avevano preso servizio: il Tribunale aveva pertanto ritenuto di non poter ripristinare la situazione pregressa obbligando l’Amministrazione alla indizione di un nuovo concorso e aveva quindi limitato la decisione all’accertamento e alla condanna del Ministero al risarcimento del danno – con funzioni dissuasive – in favore dell’associazione ricorrente. Anche tale statuizione, contestata dal Ministero in Cassazione, è stata confermata, con la precisazione che la Corte territoriale aveva correttamente illustrato i criteri in base ai quali era giunta alla liquidazione equitativa di euro 30.000 (in www.italianequalitynetwork.it).
Molestie discriminatorie e propaganda politica
In occasione della campagna elettorale del 2023 il partito Südtiroler Freiheit aveva diffuso, sul proprio sito e con cartelli affissi in tutta la Provincia di Bolzano, manifesti raffiguranti un uomo di pelle nera con in mano un coltello e una donna bianca accovacciata in posizione di difesa, associando l’immagine allo slogan “espellere gli stranieri criminali”, poi illustrato in un breve testo.
Una associazione iscritta nell’elenco di cui all’art. 5 d.lgs. n. 215/03 ha agito in giudizio unitamente a un residente nella Provincia (di origine africana e di pelle nera, ma naturalizzato italiano) deducendo che immagine e testo costituivano una molestia discriminatoria in ragione della nazionalità e della etnia, come definita dall’art. 2, co. 3 del predetto decreto legislativo.
La causa ha riproposto non solo il tema dei limiti alla libertà di espressione nella propaganda politica, ma prima ancora la questione – già espressamente affrontata da Cass. 26.5.2023 n. 14836 – se l’accostamento di un gruppo protetto (gli stranieri) a un comportamento socialmente riprovevole, o addirittura criminoso, sia idoneo a creare il clima umiliante e offensivo cui fa riferimento il citato art. 2, co.3: o se, al contrario, possa essere semplicemente qualificato come manifestazione di legittima avversione al sottogruppo di quanti, tra gli stranieri, commettono reati.
La risposta del Tribunale è nel primo senso, ma il Giudice riscontra l’illegittimo effetto non nel testo (che ritiene poter essere riferito ai soli stranieri che commettono reati) ma solo nell’immagine «posto che è idonea a raffigurare, con riferimento ai cittadini di Paesi terzi che hanno commesso crimini, la maggiore attitudine di una persona di origine africana o comunque di pelle nera, rispetto alle persone aventi altra origine, a commettere reati connaturati da condotta violenta».
Il Giudice ha sanzionato il comportamento discriminatorio ordinando la rimozione dei manifesti e del messaggio e condannando il partito al risarcimento del danno in favore di ASGI – quale rappresentante dei soggetti discriminati – quantificato in euro 3.000.
Da segnalare anche che le domande della persona fisica ricorrente sono state invece rigettate a causa della sua nazionalità italiana, che lo avrebbe escluso dagli effetti molesti, nonostante che questi siano stati individuati esclusivamente con riferimento alla pelle nera del soggetto violento raffigurato nei manifesti: il che ancora una volta ripropone le complessità dell’intreccio, negli interventi di protezione, tra etnia e nazionalità (in Banca dati Asgi).