RECENSIONE A:
Lea Ypi, Confini di classe. Diseguaglianze, migrazione e cittadinanza nello stato capitalista, Milano, Feltrinelli Editore, 2025.
di Anna Brambilla
Il libro di Lea Ypi “Confini di classe Diseguaglianze, migrazione e cittadinanza nello stato capitalista” edito da Feltrinelli è un libro essenziale. Un libro che richiama ed è richiamato da altri libri. Un libro in cui alcune parole – conflitto, resistenza, giustizia sociale – ritrovano il giusto spessore. Tracciare in modo sintetico le linee attorno a cui si svolge il pensiero di Lea Ypi è difficile proprio perché nessun passaggio è superfluo.
Se il punto di centrale di tutta la riflessione è la classe e se, come già detto, la lettura di questo libro è richiamata da altre letture, un punto di partenza ideale ci viene offerto dalle parole di un’altra donna straordinaria, Françoise Ega, che nel suo libro “Lettere ad una nera”, scritto tra il 1962 e il 1963, descrive una realtà, quella marsigliese, in cui le donne antillane «lasciano le loro isole per un destino migliore. Le vedo ed è sempre la stessa storia, per un certo periodo di tempo sono come comprate. Quelle signore fanno come tutte le loro amiche benestanti, hanno una donna antillana più docile e isolata, rispetto a quella spagnola di un tempo» e in cui «a una manifestazione antillana non vogliono gli antillani che lavorano» ma solo quelli benestanti.
Ben si comprende dunque come il problema non fosse, e non sia, tanto l’essere straniere o stranieri (le protagoniste del libro di Françoise Ega provenivano dai Dipartimenti d’oltremare ed erano dunque cittadine francesi) ma di classe e è per questo che, come afferma Lea Ypi, «ridurre il conflitto tra gli immigrati e i nativi a un conflitto di identità tra tutti gli immigrati e tutti i nativi oscura la dimensione di classe di tali conflitti, nonché il modo in cui la responsabilità di tali conflitti può essere attribuita ai datori di lavoro e alle élite finanziarie».
Nella riflessione sulla cittadinanza e sulle politiche migratorie, la dimensione di classe del conflitto diviene ancora più centrale se si considera non solo che «la capacità dello Stato di agire da piattaforma politica che bilancia e modera i conflitti tra i gruppi sociali in modo equo, per esempio attraverso mezzi democratici, si è progressivamente erosa» ma anche che la cittadinanza si è sempre di più trasformata in una merce che si può acquistare e non un diritto da conquistare insieme ad altri diritti.
In questo contesto «Le politiche di cittadinanza e le attuali restrizioni all’integrazione dei migranti sono un prisma attraverso cui osservare la trasformazione dello Stato democratico in un apparato di élite oligarchica». Non fa sconti Lea Ypi e non si limita ad offrire analisi ma lancia il cuore (e il pensiero) oltre l’ostacolo, proponendo percorsi e delineando possibili, anche se non semplici, soluzioni.
La crisi della solidarietà internazionale non può attribuirsi alla sola malattia, alla decomposizione delle strutture democratiche nello Stato capitalista, ma anche alla diagnosi e alla lettura che di tale patologia abbiamo dato. Riconoscere che la crisi che attraversiamo non è dovuta ai conflitti identitari ma a politiche sociali ed economiche inadeguate a garantire tanto ai migranti quanto ai nativi meno abbienti di accedere ai beni sociali di base significa riconoscere che questa crisi rappresenta anche il tradimento di uno dei principi fondamentali e fondanti della Costituzione repubblicana ovvero che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Immaginare di superare questa crisi significa mettersi nella posizione adatta a costruire «lealtà comuni» in grado di superare il «presunto compromesso fra apertura all’immigrazione e sostegno al welfare state». Perché ciò possa avvenire occorre riconcettualizzare la solidarietà, riconoscere i limiti tanto del modello sovranazionale quanto di quello multiculturale perché «nessuno dei due modelli mette in discussione l’idea di responsabilità politiche che si applichino soltanto ai membri di queste unità cooperative di nuova formazione (o riformate) e a nessun altro» e perché in questi due modelli lavoratori nativi e lavoratori stranieri appartengono a comunità politiche diverse. In altre parole, il sistema è disegnato in modo tale da «assegnare la priorità ai lavoratori nativi, scoraggiando i lavoratori stranieri a far sentire la propria voce».
Occorre quindi dare spazio ad una forma alternativa (anche se non nuova) di solidarietà «che emerge dall’azione comune di coloro che hanno sperimentato (o che si identificano con coloro che hanno sperimentato) una condizione di oppressione e sfruttamento condiviso» e che «corre lungo linee di resistenza di classe».
Assumere uno sguardo di classe nel dibattito sull’immigrazione e riconoscere che «le principali assi di conflitto nella storia non sono né le nazioni né gli Stati ma le diverse classi sociali» consentirebbe non solo di comprendere che l’immigrazione non è un problema di per sé ma anche di superare la contrapposizione tra lavoratori nativi e i lavoratori migranti riconoscendo che «la minaccia per i lavoratori nativi non sono i lavoratori migranti, ma uno Stato capitalista che protegge gli interessi delle élite dominanti attraverso pratiche di gestione dei confini e politiche di integrazione che rendono i lavoratori migranti dipendenti dalla pressione dei datori di lavoro».
La sfida appare essere non solo quella di fare in modo che «le battaglie per la cittadinanza e per l’espansione del diritto di voto» tornino ad essere «parte di una lotta attiva per la progressiva inclusione di gruppi sociali precedentemente emarginati e senza diritti» ma anche di fare in modo che queste battaglie continuino ad esserci.
Il tempo e le condizioni in cui agiamo non sembrano agevolarci nell’impresa e non solo perché la repressione appare essere ogni giorno più brutale. Gli strumenti di cui lo Stato capitalista dispone sembrano aggredire alla base l’esistenza stessa della classe lavoratrice. Lavoro povero e povertà assoluta dominano i due campi ostili di cui parlava Marx nella lettera citata da Lea Ypi, allargando le file del sottoproletariato.
Nonostante questo dal movimento globale “Fridays for Future” alle lotte più locali, come quella degli operai della GKN e dei lavoratori stranieri del distretto tessile pratese, qualche breccia è stata aperta. Citando Rachele Borghi e Bell Hooks – tutte autrici donne ma non lo faccio apposta –resistiamo e usiamo bene i nostri privilegi, resistiamo e lasciamo spazio ai margini.
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