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Fascicolo 3, Novembre 2021


«Dal disincanto del mondo e nell’instabilità di tutte le parole che prima lo definivano, nacque un paesaggio insolito, simile allo spaesamento, in cui si annuncia una libertà diversa, non più quella del sovrano che domina il suo regno, ma quella del viandante che al limite non domina neppure la sua via. Consegnato al nomadismo, l’uomo spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Anche queste parole si sono fatte nomadi, non più mete dell’intenzione o dell’azione umana, ma doni del paesaggio che ha reso l’uomo viandante senza una meta, perché è il paesaggio stesso la meta».

(Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 2009)

Editoriale

La crisi afghana come spunto per risolvere i nodi strutturali del diritto di asilo

La repentina riconquista armata dell’Afghanistan da parte del movimento talebano che nell’agosto 2021 ha fatto fuggire decine di migliaia di afghani, agevolati anche con una imponente operazione di evacuazione umanitaria delle forze armate straniere che vi operavano, e le successive misure oppressive e discriminatorie adottate dal nuovo regime, che gravemente limitano elementari diritti fondamentali delle persone, soprattutto donne e appartenenti a minoranze etniche, religiose e politiche, ripropongono alcuni nodi strutturali irrisolti del diritto di asilo e ne rendono più evidenti i rimedi efficaci.
 
Il primo nodo attiene ai fondamenti stessi del diritto di asilo che la crisi afghana conferma.
Proprio perché la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo garantisce ad ogni persona ovunque la stessa dignità e gli stessi diritti fondamentali e prevede che «ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni», l’asilo è uno strumento indispensabile per assicurare quei diritti allorché non siano effettivamente garantiti in patria.
Le violazioni flagranti e massicce di tali diritti che inducono le persone alla fuga si prevengono e contrastano con misure di carattere diplomatico, economico, sociale, politico e magari pure militare nell’ambito del sistema ONU, misure che possono però avere effetti irrilevanti o controproducenti nel lungo periodo se non è assicurata trasparenza nelle scelte e senza un effettivo coinvolgimento di tutta la popolazione, come dimostra peraltro il fallimentare intervento delle potenze occidentali nel conflitto afghano. A tali violazioni si deve dunque rispondere con sanzioni e con i giudizi (peraltro futuri e incerti) della Corte penale internazionale contro i crimini internazionali, nonché con una politica estera tipica di organizzazioni internazionali che mirano a quella pace e giustizia tra le nazioni che sono prescritte dall’art. 11 Cost. e che quindi non mostri ambiguità verso soggetti antidemocratici e potenzialmente oppressori dei diritti. Ciò avrebbe impedito ogni accordo con tali oppressori, come invece è stato fatto con l’accordo concluso dagli USA coi talebani e con gli accordi dei governi italiani con i fragili governi della Libia stipulati in forma semplificata prima e durante il conflitto in violazione dell’art. 80 Cost.
Tuttavia, a tali violazioni dei diritti umani deve corrispondere sempre l’effettività del diritto di asilo, che riafferma la bontà per tutti i popoli di una forma di Stato democratico-sociale che, come fa la Costituzione italiana, si basa sui principi personalista, pluralista, democratico, lavorista e supernazionale. Tale modello mira a tutelare i diritti fondamentali di ogni persona e ad estendere tale tutela in tutto il mondo. Proprio perciò queste forme di Stato non dovrebbero mai trattare con chi vuole perseguitare le persone o servirsi dell’esistenza dell’opportunità “liberale” del diritto d’asilo per completare politiche oppressive. In ogni caso il diritto d’asilo, garantito a livello costituzionale, internazionale ed europeo, comporta che le vittime potenziali di quell’oppressione o di disastri ambientali (come afferma la recente giurisprudenza della Corte di cassazione e ricorda il saggio di Villani pubblicato in questo numero della Rivista) devono essere effettivamente accolte e protette e non già trattenute in modo disumano negli Stati di transito o lasciate naufraghe in mare o trattate in modo sospettoso o respinte illegalmente, magari pure per motivi sanitari, o trattenute nelle zone di frontiera fingendo che esse siano fuori dal territorio dello Stato e dalle connesse tutele dei diritti fondamentali. Purtroppo tutte queste prassi illegalmente abnormi che impediscono agli stranieri l’accesso al territorio dello Stato sono praticate nei confronti dei potenziali richiedenti asilo da almeno 30 anni in Italia e in Europa (ne trattano in questo numero della Rivista il saggio di Marchegiani sul principio del non refoulement durante la pandemia da COVID-19, quello di Ammirati, Capezio, Crescini e Massimi sulle prassi nelle zone di transito aeroportuali e i commenti di Vassallo Paleologo sui piani di soccorso in mare e di Ricci e Vallini sul respingimento della Shalabayeva).
 
Il secondo nodo riguarda le condizioni essenziali per accedere al diritto di asilo che dovrebbero consentire allo straniero di uscire in condizioni di sicurezza dal territorio dello Stato in cui è impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, o di altro Stato in cui abbia trovato un precario riparo, e di giungere nel territorio dello Stato italiano. La vicenda afghana conferma, infatti, che è indispensabile dare alle persone una protezione non teorica, ma effettiva e tempestiva al loro diritto di asilo, per accedere al quale, come ricorda la dottrina, non è necessario che la persona si trovi già sul territorio dello Stato che la accoglierà, ma essa deve essere anzitutto agevolata nella sua uscita sicura e tempestiva dallo Stato oppressore.
Ignorare questi aspetti (come hanno fatto finora le norme della UE e le norme italiane) significa rassegnarsi al fatto che il solo modo per lo straniero in fuga di accedere al diritto di asilo, allorché non abbia i requisiti per un ingresso regolare ad altro titolo, è un ingresso irregolare nel territorio dello Stato dopo viaggi affidati spesso ad organizzazioni criminali che comportano gravi pericoli per la vita e per i patrimoni delle persone.
La crisi afghana conferma che per dare effettività al diritto di asilo in un sistema costituzionale in cui la condizione dello straniero e il diritto d’asilo sono coperti dall’art. 10 Cost. e da riserve di legge, non è legittimo, né sufficiente che il Governo, in mancanza di norme legislative che prevedano chiari presupposti e garanzie effettive anche giurisdizionali, si sia limitato a consentire l’accesso al territorio italiano a cinquemila afghani mediante l’evacuazione urgente attuata di fatto coi mezzi militari, né che esso lo consenta ad altre poche migliaia di persone vulnerabili mediante opachi protocolli per «corridoi umanitari» stipulati con enti o soggetti del terzo settore, magari nell’ambito di vaghi programmi di reinsediamento finanziati dalla UE (che forse saranno pure estesi agli afghani).
Si tratta infatti di percorsi di ingresso i cui criteri non sono né pubblici, né previsti dalla legge (i corridoi umanitari) o ad oggi inapplicati o inesistenti (il programma di reinsediamento) o del tutto indeterminati (il programma di evacuazione) e che comunque escludono un numero ampio di persone.
Neppure è sufficiente invocare (anche con ricorsi giurisdizionali) il rilascio da parte del Governo italiano di visti umanitari, finché mancano norme legislative italiane che ne prevedano i presupposti e le garanzie, anche perché non bastano né il richiamo diretto al diritto di asilo costituzionalmente garantito, che prevede una riserva di legge sulle condizioni di accesso al diritto che per ora è stata esercitata in modo da non consentire la presentazione di domande dall’estero, né il richiamo ai regolamenti UE sui visti e sulle frontiere, nei quali il rilascio di visti in deroga anche per motivi umanitari è una mera facoltà data ad ogni Stato, che poi può decidere se esercitare o no e come farlo.
La crisi afghana ha inoltre reso evidente che non sono praticabili alcune ipotesi formulate nell’ambito della UE: sia la proposta di regolamento della Commissione concernente le situazioni di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo che consentirebbe deroghe alla disciplina della protezione internazionale in caso di esodi di massa (che nei casi in cui è incontrovertibile che i diritti fondamentali di fasce amplissime di cittadini di un determinato Stato sono violati in modo grave appaiono una beffa per i richiedenti asilo, salvo che esse servano a dare solidarietà effettiva tra i vari Stati dell’UE per gli oneri di accoglienza), sia l’ipotesi di obbligare i richiedenti asilo a presentare domanda soltanto dall’estero, fermandosi per anni nel territorio di altri Stati, confinanti o di transito, in cui magari già sono ospitati da decenni centinaia di migliaia o milioni di rifugiati di quel Paese (come accade ai milioni di afghani già da decenni fuggiti e ospitati in Pakistan e in Iran o anche in Turchia e in Tagikistan).
Una soluzione duratura e legittima a queste esigenze di effettività appare invece quella di disciplinare in modo chiaro e stabile – con norme UE, ma anche con norme nazionali flessibili in base alle situazioni di fatto (analoghe a quelle dei sistemi permanenti di regolarizzazione in vigore in alcuni Stati europei approfonditi in questo numero della Rivista dal saggio di Locchi) – tre procedure complementari e alternative di ingresso regolare degli stranieri o apolidi che vogliano lasciare lo Stato in cui si trovano per presentare domanda di asilo in Italia, come in ogni altro Stato della UE, fermo restando che la richiesta di accedere a queste tre vie dovrebbe essere esaminata in modo rapido e sommario dagli organi nazionali preposti alla valutazione delle domande di asilo e dovrebbe essere accolta allorché ritengano che la richiesta di protezione internazionale o speciale sia presentata da determinate categorie di persone, indicate dalla normativa, più evidentemente bisognose di protezione o vulnerabili ovvero allorché la ritengano non manifestamente infondata. A tal fine si dovrebbero istituire in Italia più sezioni della Commissione nazionale per il diritto di asilo, integrata degli esperti specializzati in diritti umani già assunti nel 2018, che svolgerebbero l’esame telematico e preliminare delle domande anche con colloqui riservati e per teleconferenza con gli interessati, con l’assistenza di interpreti e di avvocati o di enti o associazioni. La domanda dovrebbe essere poi confermata dall’interessato dopo il suo ingresso regolare in Italia e nel sistema di accoglienza, e quindi verbalizzata ed esaminata con una procedura semplificata, magari senza colloquio se la competente commissione territoriale riconosca la protezione internazionale. In ogni caso tali tre forme non devono escludere l’accesso al diritto di asilo di chiunque presenti domanda alla frontiera o sul territorio dello Stato, anche dopo un ingresso illegale nel territorio dello Stato.
La prima procedura è l’evacuazione urgente, organizzata e finanziata dai Governi in situazioni eccezionali di conflitti o di rivolgimenti politici o militari in favore di gruppi di persone che lo richiedano perché la loro vita, incolumità o libertà sono in grave pericolo o sono comunque manifestamente bisognose di protezione internazionale, come è accaduto in Afghanistan e come si dovrebbe fare per i migranti detenuti in Libia in condizioni disumane, come peraltro ripete lo stesso segretario generale dell’ONU.
La seconda procedura è l’ingresso regolato nell’ambito di specifici programmi di ricollocazione o di reinsediamento finanziati dalla UE e gestiti dai Governi, anche con la collaborazione di organizzazioni internazionali e di enti del terzo settore, in favore di ben determinati gruppi di persone bisognose di protezione internazionale che chiedano di lasciare un altro Stato in cui hanno trovato una prima protezione che però non è durevole, né effettiva. Ogni programma dovrebbe essere regolato con norme chiare e con garanzie sia per il richiedente, sia per la presa in carico da parte del sistema di accoglienza
La terza procedura è ricavabile anche dalla proposta di regolamento UE sui visti umanitari europei approvata l’11 dicembre 2018 dal Parlamento europeo e dalla raccomandazione della Commissione UE del 23 settembre 2020 relativa ai percorsi legali di protezione nell'UE. Essa consiste nel consentire ad ogni straniero o apolide che abbia il timore di subire persecuzione o danni gravi e che non sia destinatario di evacuazione o di reinsediamento, la facoltà di presentare liberamente in via telematica e riservata alla rappresentanza diplomatico-consolare italiana all’estero competente per lo Stato extraUE in cui egli si trova una domanda di visto per accedere al territorio italiano e presentare la domanda di protezione internazionale o di protezione speciale. L’esame della domanda dovrebbe concludersi entro 15 giorni e ogni eventuale diniego o inammissibilità di queste domande di visti dovrebbe essere impugnabile in modo semplificato di fronte ai tribunali ordinari che dovrebbero decidere entro termini molto brevi. Sarebbero così rilasciati, anche in deroga al possesso di un valido passaporto, appositi visti di ingresso a validità territoriale limitata e per motivi umanitari, oppure – nei casi in cui la persona abbia i requisiti sia per godere della protezione internazionale o della protezione speciale, sia per entrare legalmente per motivi familiari o per lavoro o per studio o per ricerca – visti per motivi familiari (anche in deroga ai requisiti di alloggio e di reddito) o per lavoro o per studio (anche in deroga ai limiti delle quote di ingresso per lavoro o per studio) o per ricerca o per attività sportiva (allorché la persona sia perseguitata proprio per la ricerca scientifica o l’attività sportiva svolta) ovvero anche visti per reingresso in favore dello straniero che non possa rientrare legalmente nello Stato in cui aveva un regolare titolo di soggiorno che è scaduto a causa della persecuzione o del conflitto.
 
Il terzo nodo riguarda il sistema di accoglienza.
La crisi afghana ha suscitato in Italia un’ondata emotiva di solidarietà e di mobilitazione lodevole di risorse militari e civili, pubbliche e private, per gli afghani evacuati, le quali però non hanno scalfito i difetti di fondo del sistema italiano, che oggi è differenziato in modo incostituzionale in due circuiti paralleli. Il primo circuito consta di strutture di accoglienza nell’ambito del Sistema di accoglienza e integrazione (SAI) composto di progetti spontaneamente presentati da alcuni Comuni al Ministero dell’interno e da essi pure cofinanziati (sistema i cui posti sono soltanto un terzo del bisogno, anche se l’art. 7 del d.l. n. 139/2021 li aumenta di 3000 ex-post «per far fronte alle eccezionali esigenze di accoglienza dei richiedenti asilo, in conseguenza della crisi politica in atto in Afghanistan»). Il secondo circuito consta di centri governativi di prima accoglienza e di centri di accoglienza straordinaria attivati dalle Prefetture, i cui posti coprono i due terzi del fabbisogno, ma le cui prestazioni sono ridotte, sottostimate e sottofinanziate.
La funzione amministrativa dell’accoglienza degli asilanti deve essere invece disciplinata dalle norme legislative statali in conformità con gli artt. 118, 119 e 120 Cost., e cioè attribuendola ad ogni Comune (e non soltanto ad alcuni che lo desiderino) con criteri e modi concordati nel coordinamento tra Stato e Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà e di adeguatezza per un numero di posti complessivi non inferiore alla media degli ultimi anni di richiedenti asilo giunti in Italia. Tali criteri e modi devono comportare anche la facoltà per ogni Comune di affidare la gestione delle strutture di accoglienza a qualificati enti del terzo settore in un’ottica di sussidiarietà orizzontale, fermo restando che i costi sostenuti da ogni Comune per le prestazioni di accoglienza e integrazione sociale dei migranti devono essere sempre finanziati integralmente (e non solo parzialmente) dallo Stato.

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