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Fascicolo 1, Marzo 2019


«Rispetto all'irrazionale paura collettiva, nulla ha maggiore capacità di aggregazione (a buon mercato; e con il rischio di un populismo a sua volta aggregante) della minaccia di repressione penale: una risposta esemplare (tolleranza zero e risposte forti); simbolica (le leggi manifesto anche prescindendo dalla verifica dell'esistente normativo, magari mai attuato); emotiva (la repressione proclamata al di là e indipendentemente da ogni effettività di tutela). Fino ad arrivare ad elaborare un "diritto penale del nemico" che sostituisce il suo oggetto; quest'ultimo, in realtà, non è più il nemico, ma è l'emarginato sociale, l'escluso, lo straniero, il non cittadino in quanto tale, secondo categorie antropologiche che eccentriche rispetto alla finalità (il "nemico", appunto) risultano assai utili per esportare il conflitto sociale, individuando un soggetto esterno e così sublimando paura ed insicurezza sociale».

(G.M. Flick, I diritti fondamentali della persona alla prova dell’emergenza, in AA.VV., A tutti i membri della famiglia umana per il 60 anniversario della dichiarazione universale, Milano, Giuffrè, 2008, p. 263).

 

Non discriminazione

Si dà anzitutto conto di alcune sentenze che hanno avuto modo di esaminare e sanzionare i profili di discriminatorietà di norme e bandi regionali, e di delibere comunali aventi come comune denominatore il trattamento differenziato operato nei confronti dei cittadini extra UE. In particolare si segnalano le seguenti pronunce.
 
 
Requisiti di residenza
Il Tribunale di Milano, con ord. 22.1.2019 (in Banca dati Asgi) ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 22, co. 1, lett. b) della l.r. Lombardia 16/2016, per contrasto con l’art. 3, nonché per contrasto con l’art. 117, co. 1 Cost., in relazione alla direttiva 2003/109 e, per i titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria, anche per contrasto con l’art. 10 Cost., nella parte in cui annovera, fra i requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza anagrafica o svolgimento di attività lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda». Tale previsione, secondo il Tribunale, estesa anche alle famiglie in condizioni di indigenza e a quelle in emergenza abitativa, «non ha alcun ragionevole collegamento con la funzione sociale dei servizi abitativi pubblici» e non solo è in contrasto con il principio generale di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., ma risulta discriminatoria anche nei confronti di tutti gli stranieri il cui diritto alla parità di trattamento nell’accesso all’alloggio è garantito da norme sovranazionali (cittadini dell’Unione, stranieri titolari di permesso di lungo periodo, titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria) perché tali cittadini, nonostante il loro diritto alla parità di trattamento, hanno minori possibilità di maturare il requisito di residenza quinquennale rispetto ai cittadini italiani.
 
In conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 166/2018 la Corte di Appello di Milano, con sentenza del 3.12.2018, n. 1966 (in Banca dati Asgi), ha ritenuto discriminatorio il requisito della residenza protratta previsto dal bando «fondo sostegno affitti» della Regione Lombardia che aveva indicato, per gli stranieri, il requisito della residenza di almeno 10 anni nello Stato o 5 nella Regione peraltro introdotto dalla l. n. 133 del 2008 ed ha ritenuto discriminatorio il requisito, previsto sempre dal bando per i soli stranieri, dell’esercizio di «regolare attività lavorativa».
 
Autocertificazione per prestazioni sociali
Il Tribunale di Bergamo, con ordinanza del 20.12.2018 (in Banca dati Asgi), ha dichiarato discriminatorio il comportamento del Comune «per aver ritenuto incompleta la domanda di assegno ai nuclei familiari per il fatto di non aver presentato certificazioni o attestazioni rilasciati dalla competente autorità estera relativi al patrimonio mobiliare e immobiliare», ordinando al Comune di accogliere la domanda dell’interessato. Il Comune di Palazzago aveva preteso di applicare la richiesta di documenti dei paesi di origine non solo alle prestazioni comunali, ma anche a quelle regolate da norme nazionali (assegno di maternità e assegno famiglie numerose) per le quali la legge prevede la presentazione della domanda al Comune sulla base dell’ISEE e il pagamento a carico dell’INPS.
 
Molestia ex art. 2, co. 3 d.lgs. n. 215/2003
La Corte di Appello di Brescia con sentenza del 18.1.2019 (in Banca dati Asgi), nel confermare l’ordinanza emessa in primo grado nei confronti di una militante politica ora consigliere regionale, ha sottolineato che costituisce molestia razziale ex art. 2, co. 3 d.lgs. n. 215/2003 attribuire un fine lucrativo agli enti impegnati nell’accoglienza e definire i richiedenti asilo clandestini, in quanto tali condotte sono idonee a creare un clima intimidatorio e ostile nei confronti delle associazioni, clima che può avere senz’altro ripercussioni dirette sui servizi resi ai richiedenti asilo. Quale rimedio a tale discriminazione le associazioni hanno diritto al risarcimento del danno.
 
Assegno di maternità di base
La Corte di Appello di Torino nella sentenza del 19 dicembre 2018 (in Banca dati Asgi) ha affrontato il tema della prescrizione dell’assegno di maternità di base di cui all’art. 74, d.lgs 151/2001, respingendo l’eccezione dell’INPS (accolta invece dal Tribunale di Alessandria) che aveva invocato l’applicabilità dell’art. 6, l. n. 138/1943 che stabilisce il termine di prescrizione di un anno (decorrente dal giorno di maturazione del diritto) per il conseguimento di varie prestazioni fra le quali l’indennità di malattia, cui la giurisprudenza ha poi equiparato l’indennità di maternità ordinaria, ritenendo le due prestazioni partecipanti della stessa natura. La Corte d’Appello di Torino ha sottolineato la differenza sostanziale tra le prestazioni di maternità impropriamente accomunate, in quanto l’assegno di maternità di base presenta «presupposti del tutto svincolati dallo svolgimento di attività lavorativa (è concesso alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o in possesso di carta di soggiorno e non alle lavoratrici ed è anzi incompatibile con la percezione dell’assegno di maternità “ordinario”) e quindi non può essere considerato come sostitutivo o comprensivo dell’indennità di malattia». Inoltre ha evidenziato la diversità del procedimento di concessione, «posto che l’assegno di maternità di base è concesso dai Comuni di residenza dei richiedenti e l’Inps interviene solo nella fase di erogazione del trattamento».
 
Ticket sanitario
In merito a questa prestazione è intervenuta la sentenza della Corte di Appello di Milano n. 344 del 22.10.2018 (in Banca dati Asgi) che, condividendo quanto già sostenuto dai Tribunali di Brescia (ord. 31.7.2018) e di Roma (ord. 13.2018) – già commentate in questa Rassegna n. 3/2018 –, ha escluso che in siffatta materia si possa operare alcuna distinzione tra chi abbia già avuto un lavoro e lo abbia perso e chi non lo abbia mai avuto, come, ad esempio, i richiedenti asilo. Anche secondo la Corte milanese si applica l’art. 19 del d.lgs. n. 150/2015, ai sensi del quale «sono considerati disoccupati i lavoratori privi di impiego che dichiarano in forma telematica al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro di cui all’art. 13 la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro dell’impiego». Quindi la mera condizione di non occupato comprende tutti i soggetti che non svolgono attività lavorativa al momento della domanda, siano essi cittadini italiani o stranieri, richiedenti asilo o meno. In particolare la Corte ha ritenuto «che la disposizione, sebbene inserita in un decreto riguardante il riordino della normativa in materia di servizio per il lavoro e di politiche attive», per la sua generale formulazione, investa anche il diritto all’esenzione di cui all’art. 8, co. 16, l. 537/1993, rientrando tale diritto nell’ampio genere delle prestazioni sociali. 
Autocertificazione per assegno sociale
È stata nuovamente vagliata dai giudici di merito la posizione assunta dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale che non riconosce validità all’autocertificazione dei cittadini stranieri per provare il requisito reddituale. Nel periodo in esame è intervenuta la Corte di Appello di Milano (sent. 17.1.2019, n. 1598 in Banca dati Asgi) che ha ribadito quanto affermato da diversi giudici di merito e cioè che per la certificazione dei redditi prodotti nel paese d’origine, necessaria per il riconoscimento dell’assegno sociale di cui all’art. 3, co. 6, l. 335/1995, il cittadino straniero che appartenga a uno Stato non compreso nell’elenco di cui al d.m. 12.5.2003, è abilitato ad autocertificare i redditi diversi da quelli pensionistici. Per quanto concerne invece i redditi pensionistici percepiti all’estero è onere dell’INPS, ai sensi dell’art. 3 del d.m. 12.5.2003, identificare gli organismi che provvedono all’erogazione di prestazioni previdenziali ed assistenziali ed in mancanza di tale identificazione, l’INPS non può subordinare il riconoscimento della pensione di invalidità alla presentazione di documenti diversi dalla autocertificazione resa dall’interessato. In particolare la Corte ha evidenziato che «la disciplina delle autocertificazioni sopra riportata, prevista da una norma regolamentare, nella parte in cui consente ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione regolarmente soggiornanti in Italia, la possibilità di utilizzare le dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 limitatamente agli stati, alle qualità personali e ai fatti non certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici italiani, contrasta con quanto previsto dall’art. 2 comma 5 del TU in materia di immigrazione, norma di rango primario, secondo cui “Allo straniero è riconosciuta parità di trattamento con il cittadino…nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi nei limiti e nei modi previsti dalla legge”». La Corte ha affermato che «la norma di fonte primaria (art. 2, co. 5 TU) stabilisce un regime assolutamente paritario nei rapporti con la PA che non può essere derogato da una norma di fonte secondaria (d.p.r. 445/2000)».
 
Lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione
Il Tribunale di Roma, con sentenza del 28.1.2019 n. 798, resa nel giudizio di merito ha confermato quanto già enunciato in sede cautelare con ord. 13.6.2018 (già commentata in questa Rassegna n. 3/2018) in relazione al bando del Ministero della Giustizia che richiede, per i mediatori culturali professionali, il requisito della cittadinanza italiana affermando che violava il principio di identità di regime introdotto dalla legge n. 97/2013 come interpretata alla luce dei criteri elaborati con riferimento ai cittadini UE dalla Corte di Giustizia, dovendo gli stessi essere applicati in modo uniforme anche ai cittadini di paesi terzi appartenenti alle categorie indicate dalla citata disposizione di legge. In particolare sottolineava nuovamente che la figura di mediatore culturale non comportava l’esercizio diretto e specifico di pubblici poteri, operando sempre sulla base di istruzioni impartite dal dirigente, nell’ambito di attività meramente ausiliarie e preparatorie che lasciano inalterati i poteri di valutazione e di decisione dei responsabili degli uffici. Inoltre ha respinto l’eccezione di difetto di legittimazione attiva sollevata dal Ministero della Giustizia per avere la ricorrente chiesto di partecipare alla selezione con domanda cartacea e non telematica come previsto dal bando. Al riguardo il Tribunale ha sottolineato che la ricorrente aveva correttamente operato perché la domanda telematica l’avrebbe posta nell’alternativa o di dichiarare il falso (barrando la casella indicativa del possesso della cittadinanza) o di vedersi respingere la domanda per il cui perfezionamento risultava requisito indispensabile la attestazione del possesso della cittadinanza italiana.

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