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Fascicolo 2, Luglio 2017


  «Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quella esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce».

(Hanna Arendt, Tra passato e futuro)

Asilo e protezione internazionale

LO STATUS DI RIFUGIATO

Appartenenza ad un determinato gruppo sociale
Il Tribunale di Milano (4.5.2017) ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un giovane ragazzo senegalese, in ragione della sua omosessualità. In particolare il giudice ha accolto la domanda, sia in ragione della credibilità del ricorrente sia alla luce della documentazione prodotta dalla difesa.
Con riferimento al primo aspetto, il Tribunale ha sottolineato la coerenza e plausibilità delle dichiarazioni rese, sia nella parte relativa alla «progressiva presa di coscienza del proprio orientamento sessuale» attraverso la riferita relazione con un amico, sia nel racconto della violenta reazione da parte del padre (venuto a conoscenza delle inclinazioni del figlio) che nella «progressiva diffusione delle notizie riguardanti quelle inclinazioni in una società omofoba e nella quale le relazioni gay, oltre che un atto contro natura, sono considerate reato».
In merito ai documenti prodotti, il giudice meneghino ha dato atto della «copiosa documentazione dalla quale emerge l’orientamento sessuale del ricorrente» (relativa ad una valutazione di un membro del direttivo di un’associazione di tutela dei diritti degli omosessuali e ad una relazione del presidente di un’associazione di tutela dei diritti LGBT, frequentata dal ricorrente).
Così ritenuta provata l’omosessualità del ricorrente, nell’ordinanza in esame il giudice ha riconosciuto lo status di rifugiato, in quanto «le persone di orientamento omosessuale sono costrette a violare la legge penale del Senegal e ad esporsi a gravi sanzioni, oltre che a discriminazioni e persecuzioni sociali, per poter vivere liberamente la propria sessualità».

 

Il Tribunale di Torino (20.3.2017 ), ritenuto di non dover procedere a nuova audizione (in ragione delle difficoltà legate alla balbuzie del ricorrente ed alla sua condizione di disagio psicologico), ha esaminato le dichiarazioni rese dal ricorrente dinanzi alla Commissione (relative agli abusi omosessuali subiti, sin da giovane, alla scoperta da parte della comunità ed alla carcerazione di 3 mesi subita) e la relazione psicologica (che dà conto di un quadro di «evidente malessere» e di continue violenze). Il giudice ha riconosciuto lo status di rifugiato, evidenziando che «l’attribuzione, nella sua comunità di origine, della “qualità” di omosessuale costituisce elemento sufficiente a far ritenere che il ricorrente, in caso di rimpatrio, rischi di subire atti persecutori, proprio a causa di tale condizione». Il Tribunale ha poi aggiunto che «non è necessario, nel presente caso, valutare se poi il ricorrente possa effettivamente essere ritenuto omosessuale». Nella valutazione del Tribunale torinese, infatti, essere riconoscibili come omosessuali in un Paese, come il Gambia (ove l’omosessualità è un reato grave), in cui vengono criminalizzati gli orientamenti che si discostano dall’eterosessualità (con azioni giudiziarie e applicazione di pesanti misure detentive), costituisce condizione che espone l’interessato a subire atti persecutori.

Il Tribunale di Salerno (14.3.2017) ha riconosciuto lo status di rifugiato ad una donna, fuggita dalla Nigeria, perché riconosciuta vittima di tratta. Il Tribunale, ritenuta la coerenza e plausibilità delle dichiarazioni della ricorrente (la quale aveva indicato tutti gli elementi in suo possesso ed aveva presentato domanda di protezione internazionale poco dopo il suo sbarco in Italia) ha affermato che nel racconto della ricorrente erano riscontrati una «serie di elementi tipici di questo tipo di reclutamento». In particolare ha affermato che corrispondono al modus operandi utilizzato dalle organizzazioni criminali dedite al reclutamento e allo sfruttamento della prostituzione delle donne nigeriane le seguenti circostanze riferite dalla ricorrente: 1) primo contatto dell’organizzazione tramite una persona di cui la donna si fida; 2) presenza di una figura femminile chiamata «madame» che effettua l’investimento di danaro per «acquistare» le ragazze; 3) rivelazione alle ragazze dell’occupazione che dovranno svolgere, una volta arrivate a destinazione, e, comunque, solo dopo che le donne si sono allontanate dal paese natio (nel caso di specie una volta giunte in Libia). Le dichiarazioni della ricorrente, ad avviso del Tribunale, sono state poi ulteriormente confermate dall’inserimento della giovane donna nel programma gestito dal progetto “Fuori Tratta” finanziato dal Consiglio dei Ministri-Dipartimento pari opportunità. In ossequio al dovere di cooperazione, il giudice ha poi esaminato la relazione dell’EASO-COI-Nigeria, la tratta di donne a fini sessuali, datata ottobre 2015 (nella parte relativa all’individuazioni delle zone nelle quali avviene il reclutamento della maggior parte delle vittime di tratta). Con riferimento al tipo di protezione, il Tribunale, sulla base delle Linee guida elaborate dall’UNHCR per l’applicazione dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati alle vittime di tratta alle persone a rischio di tratta, ha ritenuto che, nel caso di specie, la ricorrente avesse già subito atti persecutori e che, in quanto donna, appartenesse ad un «particolare gruppo sociale» più vulnerabile rispetto ai predetti atti persecutori (vulnerabilità ulteriormente accresciuta dalla condizione di abbandono in cui la ricorrente si era trovata nel Paese d’origine).

Religione
La conversione di un cittadino iraniano, dalla religione islamica, a quella cristiana, la sua particolare esposizione individuale e le reazioni delle autorità statuali rappresentano le ragioni che hanno portato il Tribunale di Bari (15.3.2017) al riconoscimento dello status di rifugiato. In particolare, il giudice ha ritenuto credibili le dichiarazioni del giovane – figlio di un militare, appartenente ad una famiglia di religione musulmana –, con particolare riferimento alle modalità della sua conversione (avvenuta grazie all’incontro con un amico che lo ha invitato a partecipare ad alcune letture della Bibbia) ed ha ritenuto autentico il mandato di arresto prodotto (nel quale era prevista la pena della reclusione e di 50 frustate). Il Tribunale ha poi sottolineato come la sua conversione fosse ormai nota alle autorità statuali, sia in ragione della denuncia del padre, un hezbollah (militare appartenente al partito di Dio, nato subito dopo la rivoluzione), sia in seguito al ritrovamento di uno scatolone contenente alcune copie della Bibbia (custodite, su richiesta di un amico, dal ricorrente nel suo negozio di computer) ed alla perquisizione effettuata dalla polizia nell’abitazione della famiglia del ricorrente. Il giudice ha esaminato la condizione dei cristiani in Iran anche attraverso la consultazione di un saggio sull’essere cristiani in Iran oggi (reperibile sul primo numero di Vita e Pensiero del 2017), di passi del Corano (ove il reato di apostasia risulta non avere alcun fondamento) e l’esame relativo al numero di impiccagioni in seguito all’ascesa al potere di Rouhani.
 
Opinioni politiche
La «persecuzione giudiziaria» perpetrata mediante abuso dei poteri riservati all’autorità giudiziaria, per motivi politici, costituisce la ragione del riconoscimento dello status di rifugiato da parte del Tribunale di Trento (18.11.2016) ad un ragazzo fuggito dal Gambia. In particolare il giudice, dopo aver richiamato i principi relativi all’onere della prova ed al principio dispositivo affermati dalla Suprema Corte nelle pronunce n. 18353/2006 e 19197/2015, ha ritenuto credibili le circostanziate dichiarazioni del ricorrente – ricche di numerosi particolari – secondo le quali il giovane, appartenente alle Forze di polizia, si era rifiutato di malmenare un oppositore politico, così come allo stesso comandato dai suoi superiori ed era stato, per questo, accusato di insubordinazione e comportamento contrario al Governo e trattenuto in carcere per due mesi. Ulteriore elemento di prova è stato tratto dalla copiosa documentazione prodotta dalla difesa, dalla quale risulta che il ricorrente è membro delle Forze di polizia del Gambia, ha superato il Basic Program Training Course ed è ricercato dalle Forze di polizia per disobbedienza ad ordini militari.

 

La Corte d’appello di Napoli (8.2.2017 n. 583) , in riforma della decisione del giudice di primo grado (che aveva ritenuto non verosimile il racconto ed aveva evidenziato come il ruolo svolto dal ricorrente – di semplice militante – e il clima politico in Bangladesh (migliorato dopo le elezioni del 5.1.2014) fossero tali da escludere la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale) ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Bangladesh, militante nel partito di opposizione Jamaat-e-Islami. Il ricorrente appellante aveva censurato la decisione del giudice di prime cure, evidenziando come lo stesso non avesse attivato il potere-dovere di cooperazione, omettendo di acquisire informazioni sul Paese d’origine, di ascoltare il ricorrente con l’assistenza di un interprete, di valutare i documenti prodotti e di disporre una CTU per verificare la compatibilità delle ferite con la versione resa dall’istante. Nella decisione in rassegna, il giudice d’appello ha ritenuto assolto l’onere probatorio da parte del ricorrente, in quanto egli aveva presentato tutta la documentazione in suo possesso, aveva compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda (chiedendo, altresì, una CTU per verificare la compatibilità delle cicatrici con il racconto riferito), aveva reso dichiarazioni plausibili ed attendibili (in merito alle violenze subite a causa della sua appartenenza al partito di opposizione, alle ferite riportate alla testa e alle gambe), non in contraddizione con le informazioni sul Paese d’origine (dalle quali risultavano frequenti gli scontri tra Forze di polizia, sostenitori del Governo e rappresentati del partito di opposizione) ed aveva presentato domanda di protezione internazionale tempestivamente.

LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA

Nigeria
La Corte d’appello di Bologna (30.3.2017, n. 834) ha rigettato l’appello proposto dal Ministero dell’interno avverso la decisione che aveva riconosciuto la protezione sussidiaria ad un uomo, fuggito dal Sud della Nigeria, per timore delle violenze subite dai componenti di una banda armata, capeggiata dal ragazzo che la di lui figlia stava frequentando, e dell’incapacità delle autorità statuali di fronteggiare tali violenze. Il giudice di secondo grado ha ravvisato la sussistenza di una «relazione tra il fattore esterno di pericolo e la condizione soggettiva del richiedente, legittimante il riconoscimento, ritenendo, sulla scorta di informazioni attendibili tratte da fonti internazionali, la persistenza di condizioni di violenza indiscriminata e di conflitti interni generalizzati in Nigeria e dell’incapacità delle autorità nigeriane di arginare il fenomeno». In particolare, la Corte – dopo aver richiamato la Corte di giustizia (sentenza 17.2.2009, C-465/07) e la Suprema Corte (Cass., sez. VI-I, ord. 16202 del 30.7.2015) – ha chiarito che, nel caso del ricorrente fuggito perché esposto al pericolo di subire violenze dai componenti della banda armata al quale apparteneva il compagno della figlia, può ritenersi fornita la prova della «relazione causale ipotetica» tra la specifica situazione soggettiva connessa alla vicenda narrata (che rende possibile la reiterazione di atti di violenza del genere di quelli già subiti) ed il «fattore esterno di pericolo, rappresentato dalla pressoché certa impunità di cui fruirebbero i suoi aggressori», qualora, rientrato in Nigeria, fosse da loro nuovamente sottoposto ad analoghi atti di sopraffazione.

Anche il Tribunale di Perugia (27.4.2017) , dopo aver succintamente fatto riferimento alla condizione soggettiva del ricorrente, fuggito dall’Edo State, a causa della «situazioni invivibile» presente in detta parte del Paese, ha ritenuto che il «quadro complessivo di minacce specifiche» così come confermato dalle fonti internazionali, sia tale da giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14 lett. c) del d.lgs. 251/2007.

Anche il Tribunale di Milano (14.3.2017) ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino nigeriano, proveniente dall’Edo State. Il giudice di primo grado, dopo aver escluso la riconducibilità del racconto del ricorrente ai presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ha esaminato le condizioni generali della Nigeria – sulla base di numerose ed accreditate fonti internazionali – e, in particolare dell’Edo State – il terzo Stato più violento su base pro capite nell’area del Niger Delta, con 78 incidenti che hanno visto la morte di quasi 200 persone. A fronte della situazione caratterizzata da violenti scontri che, direttamente o meno, coinvolgono anche i civili, il giudice, sulla base del fatto che «le forze di sicurezza interna (quali militari, forze di polizia e magistratura) non risultano in grado di spiegare alcuna tutela nei confronti dei cittadini», ha ritenuto sussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria.

Pakistan
Il Tribunale di Milano (10.3.2017) ha riconosciuto la protezione sussidiaria, ex art. 14 lett. c) d.lgs. 251/2007, ad un giovane sciita, accusato dalla famiglia della moglie, sunnita, di essere responsabile della di lei morte. Il Tribunale, dopo aver accertato la forte discriminazione tra le minoranze religiose con persecuzione degli sciiti (come il ricorrente) ad opera dei sunniti talebani, alla luce della grave situazione presente in Pakistan, ha concluso come il ricorrente non avrebbe alcuna speranza di ottenere la necessaria protezione dalla polizia o dalle autorità.

La Corte d’Appello di Campobasso (11.1.2017 n. 4) , in forza dei principi affermati dalla Corte di giustizia, nella nota sentenza Diakitè e alla luce delle fonti nazionali ed internazionali consultate, ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino proveniente dalla regione del Punjab, caratterizzata da un grado di violenza indiscriminata tale da far sussistere fondati motivi per far ritenere che, un civile, rinviato in Pakistan, correrebbe, «per la sola presenza sul territorio dello stesso» un «rischio effettivo di subire una grave minaccia alla propria persona».

Mali
Il Tribunale di Trento ( 2.12.2016 , 8.11.2016 , 29.8.2016 ) – in forza delle informazioni tratte dai rapporti Amnesty international, dalle informazioni diffuse dal Ministero degli affari esteri e dal Dipartimento federale degli Stati esteri – ha ritenuto che il livello di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso in Mali – a prescindere dalla specifica zona di provenienza del ricorrente (peraltro neanche precisamente individuata) – sia tale da «far ritenere che un civile, rientrato nel Paese in questione […] correrebbe, per la sola presenza nel territorio, un rischio effettivo di subire tale minaccia».

Il Tribunale di Bologna (8.5.2017) , utilizzando i criteri di cui all’art. 3, co. 5, d.lgs. 251/2007, ha ritenuto credibile il racconto del ricorrente – il quale ha riferito di provenire dalla Regione di Gao e di aver suscitato le ire degli islamisti islamici, a causa della violazione della legge della Sharia da lui commessa, attraverso la procreazione di un figlio al di fuori del matrimonio – ed ha ritenuto, alla luce delle aggiornate e differenziate fonti consultate dal giudicante in ossequio al dovere di cooperazione, che la convergenza del fattore oggettivo rappresentato dalla situazione della Regione di provenienza e del fattore soggettivo di peculiare esposizione al pericolo consentono di ritenere integrato il diritto alla protezione sussidiaria.

Art. 14 lett. b) d.lgs. 251/2007
La Suprema Corte, Cass., sez. VI-I, ord. 8.12.2016 - 17.5.2017, n. 12333 – esaminando il ricorso di una donna di origine marocchina, vittima, da anni, di abusi e violenze subite dal marito (punito, dalla giustizia marocchina, con la blanda sanzione di tre mesi di reclusione) – ha affermato che tali fatti di violenze domestiche rientrano nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul 1’11 maggio 2011, ratificata e resa esecutiva in Italia con 1. 27.6.2013, n. 77. In particolare ha ribadito come tale forma di violenza rientri nell’ambito dei trattamenti inumani o degradanti considerati dall’art. 14, lett. b), d.lgs. n. 251 del 2007. Ha, pertanto, concluso affermando la necessità di verificare se, in presenza di minaccia di danno grave ad opera di un «soggetto non statuale», nel caso in esame l’ex marito della ricorrente, lo Stato marocchino sia in grado di offrire a quest’ultima adeguata protezione (aggiungendo, inoltre, che la sola condanna penale ad una pena detentiva, peraltro sospesa, e l’ottenimento del divorzio, non costituiscono circostanze indicative di un’«adeguata protezione».

La Corte d’appello di Brescia (27.3.2017 n. 458) ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un giovane sunnita, proveniente dalla regione di Gujranwala, che aveva deciso di sposarsi con una ragazza, con la quale aveva intrattenuto una relazione sentimentale negli anni della scuola, proveniente da un villaggio a prevalenza sciita. Nel racconto del ricorrente si dava, inoltre, atto del fatto che, i due giovani, inizialmente fuggiti, erano stati convinti a tornare con la promessa dell’approvazione delle nozze ed al loro ritorno avevano dovuto affrontare le ira della famiglia, che aveva ucciso la futura sposa. La Corte, riformando la decisione del giudice di prime cure, dopo aver ricordato come in Pakistan siano molto diffuse le pratiche del matrimonio imposto e del delitto d’onore (che, solo nel 2016, avevano fatto oltre 1000 vittime), ha richiamato la recente abolizione del delitto d’onore (decisa dal Parlamento nell’ottobre del 2016), ed ha poi concluso come vi sia fondato timore, in caso di ritorno nel Paese d’origine, di correre un serio pericolo di vita, «essendovi ragionevole timore che sarebbe perseguitato dai familiari della ragazza».

Il Tribunale di Milano (25.4.2017) ha ritenuto che le minacce e le aggressioni subite da un minore proveniente da Gujrat (Punjab, Pakistan) da parte di un gruppo di malavitosi locali – familiari di una ragazza fuggita, per una fuga d’amore, con il fratello del ricorrente – a fronte dell’incapacità delle autorità statali di offrire protezione al ricorrente (testimoniata dal rifiuto della polizia di ricevere la denuncia che la famiglia del ricorrente aveva provato a presentare e della gravissima situazione di conflitto presente nel Punjab), giustifichino il riconoscimento della protezione sussidiaria.

Le violenze subite da un giovane fuggito dalla regione di Kayes, in Mali, a causa del rifiuto di sottoporsi ai sacrifici tribali impostigli dal padre e dagli anziani del villaggio, il timore di essere sottoposto a nuove aggressioni e la diffusione di riti tribali che comportino sacrifici umani (diffusione confermata dalle COI consultate dai giudici di secondo grado, in ossequio al dovere di cooperazione del giudice), hanno portato la Corte d’appello di Trieste (5.4.2017 n. 234) a riconoscere al richiedente la protezione sussidiaria.

Il Tribunale di Bologna (8.5.2017) ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino proveniente dal Ghana il quale, ricercato dalla polizia per aver trasportato una cassa di armi senza documenti identificativi (a sua insaputa), è ricercato dalle autorità statuali e, in ragione delle condizioni delle carceri ghanesi, in caso di rientro nel Paese d’origine, sarebbe esposto ad un rischio effettivo di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti.

Il Tribunale di Torino (29.3.2017) , contrariamente rispetto a quanto argomentato dalla Commissione territoriale nel provvedimento di diniego, ha ritenuto credibili le dichiarazioni del ricorrente – il quale ha riferito di essere di etnia Igbo, di provenire dall’Abia State, di svolgere la professione di sarto in una sartoria, di essere stato fermato da militari hausa che avevano richiesto il pagamento di una tangente di 500 naira e di essere stato arrestato per non aver pagato – ed ha ritenuto che, anche alla luce dei riscontri forniti dalle fonti internazionali consultate, che danno conto di condotte arbitrarie ed arresti illegittimi subiti dalla popolazione igbo da parte di militari hausa, in caso di rientro in Nigeria correrebbe il rischio di essere esposto ad un trattamento degradante ed alla privazione della libertà personale.

LA PROTEZIONE UMANITARIA
Con sentenza 4.4.2017, n. 1419, la Corte d’appello di Milano ha confermato la decisione del Tribunale, di rigetto del ricorso proposto da un cittadino del Gambia, ritenendo contraddittorie e non credibili le dichiarazioni sulle ragioni della fuga e comunque insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, sia per la natura privata della vicenda ed in quanto il ricorrente si sarebbe potuto rivolgere alle autorità del suo Paese, «dotato di efficaci strutture» di protezione, sia perché la mutata situazione politica del Gambia – in cui le recenti elezioni di dicembre 206 hanno visto la vittoria del leader dell’opposizione al dittatore Jammeh, con successione priva di conflitti – esclude l’esistenza di una situazione rilevante ex art. 14, lett. c) d.lgs. 251/2007.
Decisione che desta perplessità sotto entrambi i profili, giacché la Corte milanese non indica le fonti dalle quali ha tratto il convincimento dell’esistenza di «efficaci strutture» di protezione in Gambia, ma anche perché il passaggio da un regime dittatoriale ad uno democratico è sempre oggettivamente un momento delicato, in quanto l’apparato istituzionale, sociale, di polizia, giudiziario, non cambia in un giorno e il nuovo assetto può avere bisogno di un lungo periodo per mutare effettivamente.
Ma l’aspetto ancor più significativo della decisione riguarda la parte in cui la Corte d’appello ha escluso anche il riconoscimento della protezione umanitaria, pur muovendo dalla considerazione secondo cui le serie ragioni umanitarie di cui all’art. 5, co. 6 TU 286/98 possono essere diverse da quelle sottese al bisogno di protezione internazionale (Cass. civ., 15466/2014).
Il giudice d’appello, infatti, ha negato la protezione umanitaria, sia per la mutata situazione politica nel Paese, di cui s’è detto, sia perché non ha rinvenuto elementi di integrazione sociale del giovane in Italia, che dopo due anni di soggiorno in Italia non ha ancora reperito una stabile attività lavorativa. Sotto il primo profilo, ragioni di prudenza avrebbero potuto indurre a riconoscere la protezione umanitaria, anche al fine di verificare l’effettivo consolidarsi del nuovo assetto politico. Quanto al secondo profilo, la decisione omette di considerare che l’effettivo inserimento lavorativo non dipende dalla volontà del richiedente asilo bensì dalla capacità della struttura di accoglienza di garantire la misura alloggiativa anche nella fase di appello (che, da quanto risulta dalla lettura della sentenza, non è stata protratta), sia di predisporre percorsi di orientamento professionale e lavorativo.

 

Di diverso avviso la sentenza 3.5.2017, n. 1847 della Corte d’appello di Milano , relativa sempre ad un richiedente asilo del Gambia, che pur confermando la decisione della Commissione territoriale e del Tribunale, di diniego di riconoscimento della protezione internazionale, ha riconosciuto la protezione umanitaria in relazione alla situazione politica del Paese, in quanto «seppure avviato alla normalità, sta ancora oggi attraversando un delicato momento di transizione politica nonostante l’allontanamento del Presidente uscente Jammeh il Paese, le cui condizioni di sicurezza presentano minori criticità rispetto ad altri Paesi del continente, è, comunque, ancora disturbato dal progressivo deterioramento della situazione nell’area del Sahel e dall’attivismo dei gruppi di matrice terroristica in tutta la regione (Viaggiare sicuri)».

 

Con sentenza 7.4.2017, n. 1492 sempre la Corte d’appello di Milano ha riconosciuto la protezione umanitaria ad un richiedente asilo della Nigeria, proveniente dall’Edo State, in ragione dell’inserimento sociale dimostrato. Dopo avere negato il riconoscimento della protezione internazionale (per la non credibilità, contraddittorietà ed incongruenza delle dichiarazioni ed in quanto l’Edo State non è interessato dalla violenza che contraddistingue gli Stati del nord del Paese), il giudice d’appello ha ritenuto che l’inserimento lavorativo del richiedente e il positivo percorso sociale attestato dalla struttura di accoglienza, unitamente al rischio di emarginazione sociale in caso di rientro in Nigeria («dove non ha più affetti o serie aspettative»), rappresentino elementi sufficienti per il riconoscimento delle serie ragioni umanitarie di cui all’art. 5 co. 6 TU 286/98.

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza 16.12.2016, n. 2300 , ha riconosciuto ad un richiedente asilo della Nigeria, proveniente dall’Edo State, la protezione umanitaria, confermando la decisione del Tribunale e rigettando l’appello avverso di essa proposto dal Ministero dell’interno.
La decisione merita di essere segnalata per due profili. Il primo riguarda l’eccezione dell’Avvocatura di Stato relativa all’incerta identità del richiedente, perché privo di documentazione identificativa. Sul punto la Corte felsinea ha ritenuto certa la provenienza dalla Nigeria, sia perché mai contestata neppure dalla Commissione territoriale, sia in relazione alle dichiarazioni fornite in giudizio, corredate da «numerosi particolari, fatti ed elementi caratteristici del suo Paese, chiamandoli con nomi originali che trovano riscontro con la documentazione prodotta in primo grado», nonché tenuto conto del fatto che l’ingresso irregolare in Italia rendeva verosimile l’assenza di documenti.
Sotto il secondo profilo, le serie ragioni umanitarie di cui all’art. 5, co. 6 TU 286/98 vengono individuate sia in collegamento con la personale vulnerabilità del richiedente, connotato anche da handicap fisico, che ha riferito essere stato minacciato da adepti del culto degli Ogboni, accertata l’incapacità delle istituzioni di proteggerlo da dette minacce, sia in ragione della grave instabilità politica della Nigeria, ove egli potrebbe rischiare la violazione di diritti umani.

 

Con sentenza 28.2.2017, n. 873 la Corte d’appello di Milano ha riconosciuto ad un richiedente asilo del Pakistan, proveniente dal Punjab, la protezione umanitaria, riformando la decisione del Tribunale che aveva negato il riconoscimento sia della protezione internazionale, non essendo il Punjab caratterizzato da violenza diffusa ed indiscriminata, sia della protezione umanitaria. Pur condividendo la decisione di 1^ grado con riguardo alla protezione internazionale, il giudice d’appello ha ritenuto invece di riconoscere l’umanitaria a causa della «instabilità nel Paese di origine dell’appellante in un contesto di grave emergenza umanitaria che integra, in caso di rientro, una condizione di specifica estrema vulnerabilità idonea a pregiudicare la possibilità di esercizio dei diritti fondamentali», nonché in considerazione del positivo inserimento sociale, dimostrato dall’esistenza di un rapporto di lavoro.

 

Con ordinanza del 9.5.2017 il Tribunale di Bologna ha riconosciuto ad un richiedente asilo della Guinea la protezione umanitaria, avendo escluso la protezione sussidiaria in relazione al difetto di attualità del rischio di danno grave (essendo mutata la situazione del Paese dal momento dell’esodo). Innanzitutto la pronuncia è interessante per la concreta applicazione dei criteri di verifica della credibilità del richiedente, di cui all’art. 3 d.lgs. 251/2007, con analisi estremamente accurata e riportante le fonti di informazione sul Paese di origine, che nel caso di specie hanno condotto ad un positivo giudizio di credibilità, essendo accertato il conflitto, mai sopito, tra gruppi etnici Guerzè e Koniakè, ed insussistente un sistema di polizia e giudiziario effettivo ed efficace.
Nonostante il giudice abbia ritenuto inattuale il rischio di danno grave, ha tuttavia riconosciuto sussistenti le serie ragioni umanitarie in considerazione della peculiare condizione personale del richiedente (che ha perso sia i genitori, sia l’unica figura adulta di riferimento, con una migrazione in altri Paesi costellata da violenza e miseria), tenuto conto che «Nell’arco della sua breve vita il ricorrente è stato costretto a subire così tante migrazioni e cambiamenti e ad affrontare situazioni così violente e traumatiche che la prospettiva di un ritorno forzato nel Paese di origine, al momento attuale, appare come un ulteriore episodio di sradicamento e di regressione nel difficile percorso di crescita e di integrazione fino ad ora positivamente compiuto».
È stata, dunque, valorizzata l’integrazione sociale in Italia ma non disgiuntamente dalla valutazione delle gravi violazioni dei diritti umani di cui il richiedente è stato vittima, sia nel Paese di appartenenza, che nei Paesi che ha attraverso nel suo percorso di migrazione forzata.

 

Di diverso avviso, sempre con riguardo a richiedente asilo della Guinea, il Tribunale di Bologna, con ordinanza 21.2.2017 (RG. 5196/2016), ha negato sia il riconoscimento della protezione internazionale che di quella umanitaria, con motivazione che, pur nella sua sintesi, merita di essere segnalata criticamente. Il caso riguardava un giovane richiedente guineano, che poneva a fondamento del suo bisogno di protezione l’emigrazione a 11 anni in un Paese limitrofo, determinato dalle condizioni di estrema povertà in cui versava la famiglia, dal lavoro minorile nel quale è sempre stato impiegato, fino alla sua emigrazione in Libia, ancora minorenne, in conseguenza dell’impossibilità di pagare le tasse del piccolo negozio che gestiva, dopo che già il fratello era emigrato per sopravvivere in quanto detta attività non consentiva ad entrambi il sostentamento. Nella sintetica motivazione di rigetto del ricorso, il Tribunale di Bologna nega il riconoscimento della protezione sussidiaria o di quella umanitaria, richieste, in quanto il richiedente «ha intrapreso un percorso di avviamento al lavoro senz’altro precoce se rapportato agli attuali standard di vita occidentali, ma certamente comune alle famiglie di agricoltori di zone del mondo ancora caratterizzate da arretratezza socio economica quale la Guinea. Nella specie, non è dato riconoscere alcun trattamento inumano e degradante nell’esser mandato a servizio nella bottega di famiglia, piuttosto che nel lavorare i campi assieme ai genitori».
Il doppio standard di riconoscimento dei diritti fondamentali – relativamente sia al lavoro minorile, che alle condizioni di estrema povertà, tali da indurre un figlio ad emigrare per sopravvivere – esprime un relativismo culturale preoccupante, che rischia di svuotare di significato l’universalità dei diritti umani riconosciuti dalla comunità internazionale e contenuto in numerosi strumenti di diritto internazionale.

 

Con riguardo al trattamento dei minori, l’ordinanza del 6.3.2017 del Tribunale di Cagliari ha riconosciuto ad un richiedente protezione internazionale del Benin la tutela umanitaria. Dopo avere escluso la forma principale, in quanto il trattamento vessatorio al quale era stato assoggettato da minorenne non rappresenta trattamento inumano e degradante perché il Benin si è dotato, nel 2015, di una legge in materia di protezione dei minori dal lavoro minorile e dalle punizioni ed in quanto quel Paese è risultato avere un efficace sistema istituzionale di protezione.
Tuttavia, il Tribunale di Cagliari ha riconosciuto al richiedente la protezione umanitaria, tenendo conto del suo positivo inserimento sociale, comprovato dalla partecipazione a numerosi progetti di volontariato, dell’inserimento in una squadra di calcio e dell’ottimo apprendimento della lingua italiana. La brusca interruzione di tale inserimento avrebbe comportato, ad avviso del Tribunale, un grave pregiudizio per il giovane ricorrente, così’ ravvisando le serie ragioni umanitarie di cui all’art. 5, co. 6 TU 286/98.

 

Con ordinanza del 10.11.2016 il Tribunale di Catania ha riconosciuto la protezione umanitaria ad un richiedente del Gambia, minorenne, in considerazione sia della minore età allorquando ha lasciato il Paese per sottrarsi al duro lavoro a cui lo costringeva la famiglia, sia della attuale condizione minorile e con prognosi futura di inserimento sociale. Secondo il Tribunale, infatti, il giovane richiedente «probabilmente troverebbe in Italia la possibilità di studiare e di trovare un lavoro consono alla sue capacità».
Con ordinanza del 4.11.2016 il Tribunale di Catania ha riconosciuto ad un richiedente del Gambia, minorenne, la protezione umanitaria in quanto «giunto in Italia ancora minorenne dalla Libia in mancanza di solidi legami familiari nel Paese d’origine». Il Tribunale ha escluso il riconoscimento della protezione internazionale dopo avere delineato il vigente quadro normativo ed anche per difetto di prove, attesa la natura privata della vicenda ed avendo il richiedente collegato il proprio timore in caso di rientro in Gambia alla «assenza di prospettive». Interessante il passaggio motivazione del Tribunale, ove esclude la necessità di comparizione personale del ricorrente, perché «formulata in modo generico, senza l’indicazione delle specifiche circostanze di fatto modificative, emendative o aggiuntive rispetto a quanto rappresentato dinnanzi alla Commissione territoriale».
Affermazione che non solo è una sorta di anticipazione di quella che è divenuta poi la riforma del giudizio di protezione internazionale, di cui alla legge n. 47/2017, ma soprattutto contraddice la parte in cui il Tribunale richiama la natura non impugnatoria del giudizio («il sindacato di questo giudice ha ad oggetto la sussistenza del diritto affermato dal ricorrente e non l’atto impugnato»), nonché i poteri officiosi del giudice di accertare l’esistenza del diritto alla protezione internazionale o a quella umanitaria, in cooperazione con il richiedente. Evidente che, soprattutto in assenza di prove documentali, l’ascolto del richiedente rappresenta uno dei presupposti fondamentali per formare il convincimento dell’autorità giudiziaria, a partire dal quale vanno ricercate le fonti di informazione sul Paese di origine.
Interessante anche il passaggio motivazionale ove si afferma la ammissibilità del ricorso, nonostante il decorso del termine di 15 gg. indicato nel provvedimento per l’impugnazione, in quanto notificato al richiedente minorenne e non al suo tutore, unico legale rappresentante del medesimo.

 

Il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 29.5.2017, ha riconosciuto la protezione umanitaria ad un richiedente del Bangladesh, pur avendo per gran parte condiviso il giudizio di non credibilità espresso dalla Commissione territoriale, ma dopo avere verificato, anche attraverso la comparizione personale in giudizio, la condizione di particolare vulnerabilità del richiedente, sia per le lesioni fisiche mostrate («sebbene le stesse non possano essere ricollegate con certezza al suo asserito impegno politico, nondimeno provano che ha subito gravi maltrattamenti»), sia per la terribile esperienza vissuta durante il naufragio del barcone che lo ha trasportato dalla Libia in Italia e nel quale sono morte svariate persone («la descrizione vivida che ha fornito della drammatica esperienza del naufragio e delle ripercussioni di cui tuttora soffre da un lato rende questa parte del racconto assolutamente credibile e dall’altro porta a ritenere che le contraddizioni e gli aspetti confusi e lacunosi del suo racconto siano derivati dal forte disagio psico-fisico patito»).
Il Tribunale ha, infine, valorizzato l’inserimento sociale del ricorrente, «che ha saputo cogliere tutte le opportunità che il nostro sistema di accoglienza ha messo a suo disposizione».

 

Con ordinanza del 3.4.2017 il Tribunale di Venezia ha riconosciuto la protezione umanitaria ad un richiedente asilo della Casamance-Senegal. Dopo avere ricostruito la vigente normativa e descritto i criteri valutativi (sia probatori che di merito) in essa contenuti, il Tribunale ha escluso il riconoscimento della protezione internazionale, in quanto non erano emersi elementi atti a dimostrare il rischio di danno grave secondo l’art. 14 d.lgs. 251/2007. Tuttavia, ha potuto riconoscere la protezione umanitaria sotto un duplice profilo: da un lato facendo ricorso ai Rapporti di Amnesty international sul Senegal (in assenza di fonti di informazione fornite dalla Commissione territoriale o dalla Commissione nazionale asilo), attestanti una situazione di violazione di una serie di diritti umani in Senegal; dall’altra avuta considerazione alla particolare condizione di vulnerabilità del richiedente, «giovane uomo, privo di alcun radicamento nel Paese di origine, dal quale ormai si è allontanato nel 2013, privo di famiglia, con alle spalle una grave situazione di sfruttamento. La sua vicenda personale, che lo ha condotto dal Senegal al Mali al Niger e poi alla Libia, è segnata da gravissimi episodi di violenza che ne hanno minato anche la salute».
Il Tribunale, inoltre, ha tenuto conto del buon percorso di inserimento sociale del ricorrente, attestato da un rapporto di lavoro in corso e dall’impegno mostrato nell’apprendere la lingua italiana.
Interessante è il passaggio dell’ordinanza in cui, relativamente al giudizio sulla credibilità delle dichiarazioni ed in particolare con riguardo all’incertezza sull’età del richiedente (che si è definito maggiorenne ma che appariva, allo stesso difensore, ben più giovane), il Tribunale applica il criterio di cui all’art. 3, co. 3 lett. e) d.lgs. 251/2007, vale a dire tenendo conto del «grado di maturità legato all’età, e di sviluppo personale, legato a molteplici fattori quali, anche, la scolarizzazione – insussistente – e l’incidenza traumatica delle vicende subite».
Altrettanto interessante la parte motiva in cui il Tribunale di Venezia supera lo scoglio delle contraddizioni del racconto, affermando che «le divergenze tra ricorso, interrogatorio libero del Giudice e dichiarazioni rese alla Commissione sono minime – il nucleo centrale dei fatti è rimasto inalterato – e non influiscono sulla attendibilità del ricorrente, atteso che la ripetizione pedissequa di fatti e particolari potrebbe all’opposto essere sintomo di un racconto totalmente inventato e mandato a memoria, per contro alcune divergenze, soprattutto di carattere temporale, sono compatibili con lacune che vengono via via a crearsi nella memoria a causa del passare del tempo e dei traumi subiti durante il lunghissimo viaggio».
 
Con ordinanza del 28.3.2017 il Tribunale di Bologna ha riconosciuto la protezione umanitaria da un richiedente asilo del Mali, proveniente da un’area centrale del paese (Segou), in ragione della situazione di instabilità e violenza che caratterizza anche aree diverse dal nord del Mali. Dopo avere indicato ed in parte riportato testualmente varie fonti di informazione sul Mali, il giudice bolognese ha applicato l’art. 5, co. 6 TU 286/98 ritenendo che «l’obbligo di salvaguardia dei diritti umani contemplati dall’art. 2 della Costituzione imponga di non rimpatriare il ricorrente, in un contesto di pericolo come quello appena descritto. Egli, peraltro, appare ancor più vulnerabile se si pensa che, in una situazione già di per sé tanto critica, dovrebbe anche affrontare un reinserimento, quanto meno lavorativo, dopo svariati anni di assenza».
La decisione è interessante sia per l’esplicito richiamo agli obblighi costituzionali, che in riferimento alla valutazione delle ripercussioni negative di un eventuale reinserimento nella problematica società di provenienza. Ma l’interesse è ancora maggiore in quanto il riconoscimento della protezione umanitaria è stato possibile nonostante il giudice abbia ritenuto non credibili le dichiarazioni del ricorrente, attestando, dunque, che la valutazione per la protezione umanitaria ha presupposti diversi, o può averli, rispetto a quelli che legittimano il riconoscimento della protezione internazionale.
 

LE MISURE DI ACCOGLIENZA

La giurisdizione
Con sentenza 28.4.2017, n. 427, il Tar per il Veneto ha declinato la propria giurisdizione, in favore di quella del giudice ordinario, relativamente all’impugnazione di un provvedimento di revoca delle misure di accoglienza disposto dal prefetto di Vicenza ad un richiedente asilo, a seguito di rigetto del ricorso di 1^ grado avverso il diniego di riconoscimento della protezione internazionale e nelle more del giudizio d’appello proposto.
Secondo il Tar, solo le ipotesi di revoca delle misure di accoglienza tipicizzate dall’art. 23 d.lgs. 142/2015 sono soggette alla giurisdizione amministrativa, sottendendo un’attività discrezionale della PA, ma tra esse non rientra il caso di revoca a seguito di rigetto del ricorso di 1^ grado e nelle more del giudizio di appello. In questa ipotesi, infatti, «l’atto impugnato ha natura meramente dichiarativa», di semplice presa d’atto o dichiarativo di un effetto (ritenuto) previsto dalla legge e dunque di natura diversa dai «provvedimenti ad efficacia costitutiva di revoca della misura di accoglienza, adottati dalla PA nelle more della decisione della Commissione territoriale ex art. 23 del d.lgs. n. 142/2015». In assenza, pertanto, di espressa previsione legislativa, il riparto di giurisdizione segue le ordinarie regole, che assegnano alla giurisdizione amministrativa i provvedimenti che esprimono un’attività discrezionale della PA e dunque un interesse legittimo del destinatario, mentre è devoluta alla giurisdizione ordinaria l’esame dei diritti soggettivi e l’attività vincolata della PA.
Secondo il Tar veneto, pertanto, la revoca o la cessazione delle misure di accoglienza nelle more ed in dipendenza della pendenza di un giudizio avverso la decisione di non riconoscimento della protezione internazionale sono attribuite alla giurisdizione ordinaria, sia per la natura vincolata dell’attività della PA, sia perché la questione «presenta evidenti e importanti ragioni di connessione con quelle in tema di riconoscimento della protezione internazionale, presupponendo risolte a monte una serie di problematiche, tutte interne alla giurisdizione ordinaria, che involgono i rapporti tra l’art. 19 del d.lgs. n. 150/2011 e gli artt. 282 e 283 c.p.c., che sanciscono la regola della provvisoria esecutività delle sentenze di primo grado, salva la possibilità del giudice d’appello di sospenderne l’esecutività a seguito di apposita istanza (cd. inibitoria in appello)».
Con riguardo a quest’ultimo profilo, la sentenza anticipa, di fatto, quanto previsto dalla legge n. 47/2017, che assegna alle istituende sezioni speciali del Tribunale la competenza in determinate materie (soggiorno ed allontanamento dei cittadini comunitari e dei loro familiari trattenimento dei richiedenti asilo diritto all’unità familiare cittadinanza apolidia provvedimenti ex Regolamento Dublino protezione internazionale), tra le quali anche quelle che presentano ragioni di connessione con esse.
È un primo approccio interpretativo delle «ragioni di connessione» e pare prefigurare una distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, collegati alla natura dell’attività espressa dalla PA e non, invece, la natura del diritto in questione.
 
La revoca
Con sentenza 29.3.2017, n. 116, il Tar per il Molise ha annullato il provvedimento con cui il prefetto di Campobasso ha revocato le misure di accoglienza di un richiedente la protezione internazionale accolto in una struttura governativa straordinaria, in conseguenza di una denuncia per atti osceni (art. 527 c.p.) e rifiuto di fornire le generalità (art. 651 c.p.). In particolare, il provvedimento prefettizio richiamava l’ipotesi di cui all’art. 23, co. 1 lett. e), d.lgs. n. 142/2015 («violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti»).
Secondo il Tar molisano, la denuncia per detti reati, e comunque per comportamenti penalmente rilevanti commessi all’esterno della struttura di accoglienza, è presupposto estraneo alle ipotesi delineate dall’art. 23 d.lgs. 142/2015, che indicano le fattispecie di revoca delle misure di accoglienza. Dopo avere ricostruito la normativa di settore (d.lgs. 140/2005 e d.lgs. 142/2015), il giudice regionale distingue le ipotesi nelle quali il prefetto può disporre il trasferimento del richiedente asilo da un centro all’altro per esigenze di natura sanitaria o per motivi di ordine e sicurezza pubblica (art. 2, co. 1, d.lgs. 25/2008 e art. 6, co. 5, d.lgs. 140/2005), da quelle nelle quali può revocare le misure di accoglienza (art. 23 d.lgs. 142/2015). Norma, quest’ultima, che individua 5 ipotesi, nessuna delle quali afferisce a ragioni di ordine e sicurezza pubblica e che riguardano comportamenti soggettivi del richiedente nell’ambito del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale o fatti gravi commessi all’interno della struttura di accoglienza. Nel caso oggetto di giudizio, il fatto di rilievo penale era stato commesso all’esterno della struttura di accoglienza e pertanto del tutto estraneo all’art. 23 d.lgs. 142/2015.
Il Tar Molise evidenzia, peraltro, anche l’estraneità delle ipotesi delineate nell’art. 23 d.lgs. 142 al giudizio sulla pericolosità sociale del richiedente asilo, che potrebbe, tutt’al più, consentire al prefetto il suo trasferimento in un Centro detentivo (CARA), ma non la revoca delle misure di accoglienza.

 

Di diverso avviso e con differente analisi giuridica, il Tar per il Piemonte, con sentenza 11.1.2017, n. 47, ha ritenuto legittimo il provvedimento di revoca delle misure di accoglienza di un richiedente la protezione internazionale, a seguito di arresto in flagranza di reato e successiva condanna per spaccio di sostanze stupefacenti, ai sensi dell’art. 73, co. 5 d.p.r. 309/90 (ipotesi lieve). Secondo il giudice regionale, infatti, «lo straniero, che beneficia delle misure in questione, deve tenere un comportamento non solo pacifico, ma anche rigorosamente rispettoso delle regole di convivenza che, nel caso di specie, non risultano essere state osservate» e il comportamento penalmente rilevante del richiedente «tradisce lo scopo dell’accoglienza rendendone vana la funzione solidaristica».
Il Tar Torino non si sofferma ad analizzare le differenti ipotesi di cui all’art. 23 d.lgs. 142/2015 rispetto a quelle per le quali può essere disposto il trattenimento nei Centri di detenzione amministrativa, ex art. 6 del medesimo d.lgs. 142, né ad interpretare le prime restrittivamente, ma, al contrario, ritiene che la gravità del comportamento sia comunque incompatibile «con le esigenze della ordinata gestione del Centro di accoglienza», così ampliando di fatto le ipotesi di revoca oltre il dato normativo.
 
I PROVVEDIMENTI DI RINVIO EX REGOLAMENTO N. 604/2013 DUBLINO 
Con sentenza 30.11.2016 n. 5033, il Consiglio di Stato ha annullato un provvedimento con cui una richiedente protezione internazionale dell’Ucraina veniva rinviata in un diverso Stato dell’Unione europea, ritenuto competente per l’esame della domanda ai sensi del regolamento n. 604/2013, cd. Dublino III, ovverosia in base al criterio del Paese che aveva rilasciato un visto di ingresso nell’area Schengen. In 1^ grado il Tar per il Lazio aveva ritenuto legittimo detto provvedimento di rinvio, risultando rispettato il termine semestrale previsto dall’art. 29 del regolamento, decorrente dalla accettazione della presa in carico da parte dello Stato di rinvio.
Tuttavia, il Consiglio di Stato ha annullato detta pronuncia ed il provvedimento impugnato, per violazione degli artt. 10 e 11 del regolamento, che prevedono la cd. clausola familiare, per la quale la competenza dello Stato all’esame domanda di riconoscimento della protezione internazionale si determina tenendo conto delle domande di protezione presentate da altri familiari presenti (come nel caso di specie) ed avuto riguardo alla volontà espressa dall’interessato di mantenere l’unità familiare. Secondo l’Alto Consesso, infine, il provvedimento di rinvio è viziato da illegittimità anche per omessa considerazione della presenza di un minore e dunque del superiore interesse del fanciullo, in violazione dell’art. 6, co. 1 del regolamento.
 

QUESTIONI PROCESSUALI

Giurisdizione
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (ord. 28.2.2017, n. 5059), dopo aver ribadito che «la situazione giuridica soggettiva dello straniero ha natura di diritto soggettivo, che va annoverato tra i diritti umani fondamentali che godono della protezione apprestata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo», hanno riaffermato la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere della richieste, proveniente dal cittadino extracomunitario, di annullamento del diniego, da parte del questore, del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

 

Patrocinio a spese dello Stato
La Corte d’appello di Trieste (23.3.2017 n. 186) – conformemente a quanto affermato dalla Corte di cassazione (Cass., sez. VI-I, ord. 13.4.2016, n. 7191) ha dichiarato inammissibile l’opposizione avverso la revoca del beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Il giudice di secondo grado ha affermato che, trattandosi di una pronuncia resa in ordinanza, doveva essere impugnata con il rimedio ordinario dell’appello, senza che si potesse configurare la proposizione di un separato ricorso TU spese di giustizia n. 115 del 2002, ex art. 99 - 170.

La Corte d’appello di Torino (14.2.2017 n. 321 ), ha disposto la revoca del beneficio del patrocinio a spese dello Stato, ai sensi dell’art. 136 d.p.r. 115/2002, ritenendo che l’infondatezza dell’appello proposto dal difensore di un cittadino proveniente dalla Nigeria, ritenuto dal giudice non credibile e non proveniente da un Paese caratterizzato da una situazione di violenza derivante da conflitto armato – integrasse i presupposti della «colpa grave», prevista per la revoca del beneficio.

Termini per l’impugnazione e rimessione in termini
La Corte d’appello di Ancona (10.5.2017 n. 723) , decidendo su un appello proposto, con atto di citazione, avverso un’ordinanza comunicata nel luglio del 2016, lo ha dichiarato inammissibile perché proposto oltre il termine di 30 giorni. In particolare ha affermato che l’appello – alla luce delle disposizioni previste dal d.lgs. 142/2015, a norma delle quali il legislatore ha chiaramente indicato la forma del ricorso come «più adeguata al conseguimento della definizione accelerata di questo tipo di controversie, incidenti su diritti personalissimi tutelati anche da norme internazionali» debba proporsi con ricorso, nel termine di 30 giorni dalla comunicazione o notificazione dell’ordinanza (ai sensi dell’art. 19, co. 9, d.lgs. 150/2011 nel testo vigente ratione temporis).

A medesime conclusioni è giunta la Corte d’appello dell’Aquila (30.3.2017 n. 536), rilevando come la scelta legislativa per la forma del ricorso in luogo dell’atto di citazione, sia frutto di un’espressa volontà del legislatore (confermata dalla lettera dell’art. 19, co. 9, del d.lgs. 150/2011, come modificato dall’art. 27 del d.lgs. 142/2015) di ribadire il carattere di urgenza del procedimento e di imporre al giudice un obbligo di governo dei tempi del processo, così sottraendolo a possibili scelte dell’appellante.

Sospensiva
La sospensione del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 19, co. 4, del d.lgs. 150/2011 perdura per tutta la durata del procedimento, sino alla decisione definitiva dello stesso e le istanze di sospensiva proposte dall’appellante devono, pertanto, essere dichiarate inammissibili in questo senso, Corte d’appello di Bologna (7.3.2017) e Corte d’appello di Milano (20.3.2017).

Il Tribunale di Torino (15.5.2017) – chiamato a decidere sull’esistenza in capo al questore del potere di revocare il permesso di soggiorno a suo tempo rilasciato «per richiesta asilo» in pendenza di giudizio di appello contro la decisione del Tribunale di rigetto della protezione internazionale ed umanitaria – ha affermato che, sulla base della legislazione vigente «non viene assicurato un effetto sospensivo automatico degli effetti della decisione di diniego emessa dal Tribunale in caso di presentazione di ricorso in appello» (concludendo che la parte interessata ad impedire al questore l’esercizio del potere di revoca, deve fare specifica richiesta di sospensione al giudice d’appello). In particolare il giudice di Torino – richiamando il diritto “minimo” ad un ricorso effettivo nella materia della protezione internazionale – ha affermato che la garanzia minima prevista dall’art. 46, co. 3, della direttiva procedure non è stata ampliata dallo Stato italiano che si è limitato a prevedere l’effetto sospensivo automatico, quale conseguenza diretta (salvo casi particolari) della sola proposizione dell’impugnazione contro il diniego da parte della Commissione territoriale, ma non anche del diniego avverso la decisione del giudice di primo grado.

Ancora il Tribunale di Torino (4.3.2017 ), pronunciandosi in sede di richiesta di sospensione del provvedimento del questore di revoca del permesso di soggiorno, adottata in seguito al rigetto della domanda di protezione internazionale ed umanitaria da parte del Tribunale, ha affermato che l’art. 19 del d.lgs. 150/2011 prevede l’effetto sospensivo automatico degli effetti del diniego solo per l’impugnazione davanti al Tribunale e non per la presentazione dell’appello avverso la decisione del Tribunale.

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