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Fascicolo 2, Luglio 2022


Vivere una sola vita /in una sola città / in un solo Paese / in un solo universo/ vivere in un solo mondo / è prigione.
Amare un solo amico, /un solo padre, / una sola madre, / una sola famiglia / amare una sola persona / è prigione.
Conoscere una sola lingua, /un solo lavoro, / un solo costume, / una sola civiltà / conoscere una sola logica / è prigione.
Avere un solo corpo, / un solo pensiero, / una sola conoscenza, / una sola essenza / avere un solo essere / è prigione.

(Ndjock Ngana, Prigione, in Nhindo nero, Edizioni Anterem, 1994)

Ammissione e soggiorno

LA REGOLARIZZAZIONE 2020 
Art. 103, co. 1, d.l. 34/2020
Il termine di conclusione del procedimento
La normativa in materia di emersione/regolarizzazione di cui all’art. 103, d.l. 34/2020 non stabilisce alcun termine per la conclusione del procedimento. Ad oggi moltissimi procedimenti in questa materia, pur iniziati circa due anni fa, non sono ancora terminati.
Una parte della giurisprudenza amministrativa di merito (cfr. le sentenze del Tar Lombardia, Milano, sez. III, n. 1785 del 22 luglio 2021, n. 2145 del 6.10.2021 e n. 2554 18 novembre 2021 di cui avevamo dato menzione nel precedente numero) si era discostata da precedenti pronunce del Consiglio di Stato affermando che il termine per la conclusione del procedimento amministrativo in questa specifica materia era di trenta giorni. Su impugnazione del Ministero dell’interno il Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 3578/2022 del 9.5.2022 ha invece specificato che la materia dell’immigrazione e della cittadinanza è estranea alla disciplina generale di cui all’art. 2, l. 241/90. Cionondimeno, la PA è vincolata al rispetto del termine di 180 giorni dall’invio dell’istanza di parte per concludere il procedimento.
Con questa pronuncia, pur differente dell’orientamento di merito su segnalato, il Consiglio di Stato modifica radicalmente la propria pregressa impostazione che, invece, era nel senso della mancanza di ogni termine nella conclusione dei procedimenti di emersione/regolarizzazione.
 
Rigetto della domanda amministrativa per responsabilità del datore di lavoro e permesso di soggiorno per attesa occupazione
L’incompletezza o erroneità della domanda di emersione imputabile in via esclusiva al datore di lavoro (il quale, in particolare, non aveva assunto tre lavoratori extracomunitari autorizzati a fare ingresso in Italia per lavoro stagionale con i flussi del 2017, né aveva fornito gli elementi attinenti al corretto inquadramento del ricorrente sotto il profilo mansionistico e retributivo) non può ricadere sull’interesse del lavoratore a concludere comunque positivamente il proprio percorso di inserimento in Italia.
Considerate le finalità della normativa sulla regolarizzazione, è quindi illegittimo il rigetto della domanda di emersione dal lavoro irregolare in caso di presentazione incompleta della stessa da imputare in via esclusiva al datore di lavoro, a pena di introdurre nell’ordinamento ipotesi di responsabilità per fatto altrui da circoscrivere ai casi tassativamente previsti dalla legge, tanto più se il provvedimento non è preceduto dal preavviso di diniego notificato anche al cittadino della cui regolarizzazione lavorativa si tratta. Al lavoratore può essere rilasciato, in base a quanto stabilito dal Tar Puglia, Bari, sez. III, sentenza n. 270/2022 del 18.2.2022, un permesso di soggiorno per attesa occupazione. Il giudice pugliese conferma, dunque, la propria giurisprudenza sul punto.
 
Prova della presenza in Italia prima del 8.3.2020
La legge non pretende la continuità del soggiorno prima della data dell’8.3.2020 e, d’altra parte, come ricordato anche nelle Frequently Asked Questions (FAQ) pubblicate sul sito del Ministero dell’interno, l’attivazione di una scheda telefonica e le successive ricariche della stessa (specie se presso ricevitorie Lottomatica e Sisal, dunque luoghi fisicamente localizzabili) costituiscono valida prova della presenza della persona in Italia.
I richiamati chiarimenti ministeriali, infatti, affermano che devono ritenersi «organismi pubblici» idonei a fornire una valida attestazione di presenza «i soggetti pubblici, privati o municipalizzati che istituzionalmente o per delega svolgono una funzione o un’attribuzione pubblica o un servizio pubblico» e che, a titolo esemplificativo, consente di dimostrare la presenza nel territorio nazionale, tra gli altri documenti, quello attestante la «titolarità di schede telefoniche o contratti con operatori italiani».
È quanto emerge dalla sentenza del Tar Umbria, sez. I, n. 53/2022 del 1.2.2022.
Sempre in materia di prova della presenza in Italia precedentemente alla data del 8.3.2020 si è pronunciato anche il Tar Toscana, sentenza n. 582 del 27.4.2022. In questa ipotesi il Tribunale ha censurato la decisione della prefettura di Lucca per non avere adeguatamente considerato tutti gli elementi di prova forniti dalla richiedente (alcuni risalenti nel tempo, come un plico postale recapitatole in Napoli nel 2001 o una ricetta del medico di base del 2006) o fotografie che la ritraggono in Italia in tempo recente. Inoltre, nel caso specifico la richiedente ha esibito un timbro di ingresso in area Schengen del 2019 e risulta madre di persona residente in Italia sino dal 2010. Tutti questi elementi, combinati tra loro, avrebbero dovuto condurre l’Amministrazione a ritenere integrato il requisito voluto dalla norma.
 
Art. 103, co. 2, d.l. n. 34/2020
Istanza di regolarizzazione da parte del richiedente protezione internazionale
Attesa la finalità della normativa in materia, che è innanzitutto quella di dare dignità ai lavoratori e trasparenza ad un mercato particolarmente opaco, il Tar Piemonte, Torino, sentenza 166/2022 del 1.3.2022, ha ribadito che l’art. 103 co. 2, menzionando gli stranieri «con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno», non si indirizza solo e necessariamente alle persone straniere irregolari che non hanno inteso rinnovare o convertire il loro titolo di soggiorno, ma anche a coloro il cui titolo sia in attesa di rinnovo o a coloro il cui titolo di soggiorno sia stato prorogato ex lege nel contesto pandemico. Differentemente, inoltre, si creerebbe una incomprensibile asimmetria nelle soluzioni proposte tra il primo e il secondo comma dell’art. 103 cit. con inevitabile violazione di valori costituzionali (innanzitutto, art. 3, parità di trattamento, ed art. 36, tutela del lavoratore).
Di pari avviso, mutando il proprio precedente orientamento, anche il Tar Veneto, sez. III, sentenza n. 351/2022 del 23.2.2022.
La giurisprudenza di merito in materia, supportata da pronunce cautelari del Consiglio di Stato, pare essere giunta ad una scelta condivisa in questa materia (si vedano, tra gli altri, Tar Marche n. 224/2021, Tar Toscana, n. 676/2021; Tar Marche, n. 224/2021; Tar Piemonte, n. 739/2021; Tar Lombardia, Brescia, n. 262/2021).
Non sussiste neanche la necessità, da parte del richiedente asilo che abbia avanzato istanza di regolarizzazione ai sensi del suddetto articolo 103, co. 2, di rinunciare alla domanda di protezione internazionale al fine di potere ottenere il permesso di soggiorno semestrale.
Tanto si ricava anche dal principio di affidamento del cittadino nella PA e nella impossibilità di tradire lo stesso allorquando, come già affermato dal Consiglio di Stato, sez. I, parere 20.7.2021, n. 1275, la stessa PA abbia pubblicato sul proprio sito istituzionale «Frequently Asked Questions (FAQ)», o chiarimenti in materia. Nel caso di specie, la risposta alla Frequently Asked Questions (FAQ), n. 15 che si ritrova sul sito internet del Ministero dell’interno afferma che «Per richiedere il permesso di soggiorno per lavoro a seguito della procedura di regolarizzazione, il cittadino straniero non è tenuto a rinunciare alla richiesta di protezione internazionale. Nel caso in cui, dopo l’ottenimento del permesso di soggiorno, il lavoratore si veda riconosciuta anche la protezione internazionale dovrà optare per uno dei due titoli». Per questo motivo il Tar Roma, sez. I-ter, sentenza n. 2832/2022 dell’11.3.2022 ha accolto il ricorso del richiedente asilo che si era rifiutato di rinunciare alla domanda di protezione pur di ottenere il permesso di soggiorno semestrale.
 
Istanza di regolarizzazione e prova del rapporto lavorativo anteriore al 31.10.2019
È ammissibile e va scrutinata positivamente la domanda di regolarizzazione anche allorché la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro precedente al 31.10.2019 (requisito per accedere alla regolarizzazione di cui al comma 2, dell’art. 103, d.l. 34/2020) sia data solo in corso di causa.
Inoltre, costituisce valida prova dell’esistenza del rapporto lavorativo antecedente il 31.10.2019 la denuncia da parte del datore di lavoro all’Inps, anche successiva all’istanza di regolarizzazione ed al suo rigetto da parte della questura, di esistenza del rapporto di lavoro nel suddetto periodo.
È quanto emerge dall’interessante sentenza del Tar Piemonte, Torino n. 427/2022 del 5.5.2022 la quale giunge a tale conclusione sulla base di una interpretazione letterale e teleologica della normativa speciale.
 
DIRITTO ALLA PRESENTAZIONE DELLA DOMANDA DI PERMESSO
Permesso per cure mediche ex art. 19, co. 2 lett. d), d.lgs. 286/98 e passaporto
Ai sensi dell’art. 19, co. 2 lett. d), d.lgs. 286/98, non è espellibile la donna straniera in stato di gravidanza e fino ai 6 mesi successivi la nascita del figlio; tutela estesa anche al coniuge convivente in forza della sentenza n. 376/2000 della Corte costituzionale e che da diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per cure mediche.
A fronte del rifiuto di calendarizzare un appuntamento per la formalizzazione e il rilascio di tale titolo, rifiuto (peraltro non scritto) motivato nel caso specifico dalla questura di Ferrara per la mancanza del passaporto e/o di copertura assicurativa del richiedente a seguito della nascita di un figlio, il  Tribunale di Bologna, con ordinanza cautelare 17.2.2022 RG. 945/2022  ha affermato che i requisiti richiesti dalla questura non sono previsti dalla vigente normativa. Infatti né l’art. 19, co. 2 lett. d), d.lgs. 286/98, nè l’art. 28 d.p.r. n. 394/99 richiedono quegli specifici requisiti.
Il giudice bolognese ha affermato, prioritariamente, la giurisdizione ordinaria nel caso di silenzio serbato dalla questura in relazione a domande di rilascio di permessi afferenti a diritti fondamentali, quali il caso esaminato, inapplicabile l’azione ex art. 117 codice processo amministrativo (d.lgs. 104/2010) che riguarda situazioni nelle quali la PA ha potere discrezionale (Cons. St. n. 4504/2019). Stante la natura vincolata dell’attività della questura a fronte del diritto fondamentale del padre di vivere con il figlio, il Tribunale non ha rilevato preclusione all’ordine giudiziale di un facere alla PA, riconoscendo il diritto dell’interessato di presentare la domanda per il rilascio del permesso di soggiorno.
Quanto ai tempi di ricezione della domanda da parte della P.A. e quelli per la conclusione del procedimento il Tribunale, pur prendendo atto della discrezionalità organizzativa delle questure e qualificando come ordinatorio il termine per la conclusione del procedimento, afferma che «sarà certamente tollerato un accettabile superamento tale da non essere incongruo e valutabile in concreto a seconda delle circostanze rappresentate anche dall’amministrazione sui cui l’obbligo grava». Rapportati detti principi al caso di specie, il giudice felsineo afferma che non è ammissibile «una violazione del termine procedimentale da parte della Questura così rilevante da determinare un annientamento del diritto», che nel caso oggetto di ricorso si sarebbe esaurito allo scadere del termine semestrale di validità del permesso di soggiorno.
 
SOGGIORNO E ALLOGGIO
Il requisito alloggiativo per il titolo di soggiorno e garanzie partecipative al procedimento amministrativo.
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 836/2022, ha affrontato il caso di un cittadino straniero cui la questura di Napoli aveva negato il rilascio del permesso UE di lungo soggiorno, motivando in ragione del mancato pagamento delle tasse dovute per il lavoro autonomo svolto e per difetto del requisito alloggiativo, in quanto colui che aveva fornito la dichiarazione di ospitalità aveva affermato di non conoscere detto cittadino. Provvedimento che il Tar Napoli aveva confermato in quanto, in particolare, nelle more del procedimento amministrativo la medesima questura non era stata in grado di notificare il preavviso di rigetto dell’istanza amministrativa stante il cambio di abitazione della parte e la dichiarazione fornita dall’originario ospitante del richiedente di non conoscere lo stesso. Tali elementi, a dire anche del Tribunale, avrebbero confermato l’«incertezza alloggiativa» della parte.
L’interesse della sentenza di accoglimento dell’appello, proposto dal cittadino straniero, sta nella censura mossa alla questura per non avere effettivamente applicato l’art. 10-bis legge 241/90, dunque omettendo di preavvisare l’interessato del possibile diniego indicando gli elementi prospettati come mancanti e conseguentemente negando il diritto di partecipazione al procedimento.
Dopo avere richiamato la normativa, primaria e regolamentare, in materia di PSUE, il giudice d’appello ha ricostruito la vicenda alla luce della documentazione prodotta in giudizio, da cui risultava che il ricorrente aveva chiesto da tempo l’iscrizione anagrafica nel Comune di Napoli, mai annullata, e aveva prodotto in giudizio una nuova dichiarazione di ospitalità, mentre era priva di prova l’eventuale dichiarazione di irreperibilità anagrafica. Sulla base di questi presupposti in fatto, il Consiglio di Stato ha deciso di annullare il provvedimento del questore di Napoli per violazione dell’art. 10-bis legge 241/90 che ha concretamente impedito all’interessato di «contribuire all’integrazione documentale che l’Amministrazione riteneva necessaria evidentemente ai fini dell’esito positivo», nel contempo evocando il principio di leale collaborazione tra la PA e l’interessato (art. 1, co. 2-bis legge 241/90).
Sempre in tema di alloggio, la sentenza n. 423/2022 del Consiglio di Stato censura il provvedimento con cui la questura di Roma aveva revocato il permesso di soggiorno rilasciato a un cittadino straniero, ritenendo falsa la documentazione relativa all’alloggio (accertata in sede di comunicazione del rilascio del permesso).
Nel giudizio il ricorrente ha dimostrato di essere stato vittima di raggiro da parte di un terzo (resosi irreperibile), tant’è che è stato costretto a reperire un diverso alloggio. Ha anche dimostrato che la Procura della Repubblica competente aveva chiesto l’archiviazione del procedimento penale iniziato in suo danno sulla base della denuncia per falso. Per queste ragioni il Consiglio di Stato ha annullato il provvedimento del questore e la sentenza di 1^ grado del Tar Lazio, per insussistenza dei presupposti su cui erano fondati essendo il richiedente stato vittima di una truffa e non autore di un falso.
La pretermissione delle garanzie procedimentali di cui al preavviso di rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno di lungo periodo assume, anche secondo il Tar Napoli, sentenza n. 1397 del 2.3.2022, un rilievo sostanziale e non meramente formale, tenuto conto che la violazione dell’obbligo di comunicare alla questura competente per territorio le eventuali variazioni del domicilio abituale non può considerarsi di per se motivo ostativo alla regolarità di permanenza nel territorio dello Stato, né farsi coincidere ex se con la perdita del requisito alloggiativo. Il Collegio napoletano di merito, richiamando la più recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cons. St., sent. n. 2114 del 2021), ha emanato la suddetta decisione nel caso in cui il cittadino straniero aveva eletto domicilio per le comunicazioni e notificazioni presso lo studio del proprio avvocato, il quale aveva ricevuto solo il provvedimento definitivo ma non, appunto, il preavviso di rigetto dell’istanza amministrativa.
La normativa italiana non stabilisce che, ai fini del rilascio e del rinnovo del permesso di soggiorno, la residenza anagrafica della persona straniera costituisca un requisito indispensabile, essendo indispensabile invece l’allegazione e la prova di un’univoca situazione abitativa. La relativa carenza nella fase iniziale del procedimento può essere superata dalla successiva dimostrazione dell’effettiva sussistenza del requisito, assumendo tuttavia carattere impeditivo la condotta falsificatrice (o, comunque, l’utilizzo di un falso documento ai fini del favorevole esito del procedimento amministrativo) posta in essere dalla parte istante ai fini della dimostrazione della situazione di fatto. Tale condotta, secondo Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 6700 del 7.10.2021, integra infatti un quid pluris, rispetto alla mera assenza del requisito, il quale legittima una più severa risposta dell’ordinamento e induce a ritenere precluse alla parte successive integrazioni altrimenti ammissibili. Si verifica, in tali casi, una condotta a carattere impeditivo e irreversibile che, se è idonea a giustificare il rifiuto del rilascio o del rinnovo del titolo di soggiorno, legittima altresì la revoca dello stesso.
 
PERMESSO PER LAVORO AUTONOMO E REQUISITO REDDITUALE IN FASE DI RINNOVO
La sentenza n. 3505/2022 del Consiglio di Stato ha affrontato la questione del reddito che deve essere dimostrato dal richiedente in sede di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro autonomo.
Nel caso specifico la questura di Savona aveva ritenuto non provato il reddito prodotto dall’interessato perché alle dichiarazioni dei redditi presentate non era seguito il pagamento di tasse e contributi previdenziali. In 1^ grado il Tar aveva confermato la legittimità del provvedimento, affermando, inoltre, che occorreva dimostrare il possesso di un reddito che pari a € 36.151,98, ovverosia analogo a quello richiesto per il primo rilascio del permesso di soggiorno.
Il Consiglio di Stato censura entrambe le decisioni: innanzitutto, pur riaffermando il consolidato orientamento secondo cui le dichiarazioni dei redditi non hanno valore probatorio assoluto, trattandosi di dichiarazioni provenienti dalla parte sfornite di fede privilegiata, se non confermate dai versamenti contributivi, il giudice d’appello ha accertato che, nel caso oggetto di giudizio, il ricorrente aveva depositato varia documentazione fiscale (fatture elettroniche, versamenti nel conto corrente, pagamenti di fornitori, ecc.) che, dunque, doveva essere anche dal Tar esaminata ai fini di una corretta istruttoria.
Il punto di maggiore interesse della pronuncia risiede, da un lato, nella diversificazione dei parametri per ottenere il rilascio del primo permesso di soggiorno per lavoro autonomo rispetto al rinnovo dello stesso, e, dall’altro nell’indicazione del quantum reddituale che un lavoratore autonomo straniero è tenuto a dimostrare in sede di rinnovo del permesso. punto Quanto al primo aspetto, il Consiglio di Stato precisa che occorre differenziare la posizione di colui che chiede il primo rilascio da quella di chi, invece, ne chiede il rinnovo: mentre nel primo caso l’art. 26, co. 3 TU d.lgs. 286/98 effettivamente «impone di considerare il limite di reddito di € 36.151,98» (Cons. St. 7650/2019), ben superiore a quello preteso per il lavoratore dipendente (e ciò «secondo una ragionevole logica di cautela», cioè per verificare se effettivamente si concretizzerà l’attività soggetta alla libera fluttuazione del mercato), nel caso del rinnovo la disposizione va letta alla luce dell’art. 39 d.p.r. 394/99 «che differenzia, riducendolo, il requisito di reddito».
Riduzione che il giudice amministrativo d’appello giustifica perché la capacità reddituale «non potrà essere differenziata secondo il tipo di lavoro, autonomo ovvero dipendente, che svolgerà in futuro (e che in futuro potrebbe anche variare) senza causare una irragionevole e quindi inammissibile disparità di trattamento».
A conclusione della pronuncia, e relativamente al secondo aspetto di interesse, il Consiglio di Stato non entra nel merito se il tetto del reddito per il rinnovo debba essere l’importo di € 8.263,31 (esenzione dalla spesa sanitaria), ex art. 26, co. 3 TU 286/98, oppure l’importo dell’assegno sociale annuo, ex art. 39, co. 3, d.p.r. n. 394/99, poiché nel caso oggetto di giudizio il ricorrente aveva comunque dimostrato una capacità reddituale superiore a entrambi i parametri.
Un’occasione per fare chiarezza in parte persa, ma rimane il significato di una puntualizzazione del Consiglio di Stato tendente a una uniformità di trattamento tra i lavoratori stranieri, a prescindere dal tipo di lavoro svolto

Sito realizzato con il contributo della Fondazione "Carlo Maria Verardi"

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via delle Pandette 35, 50127 Firenze

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