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Fascicolo 2, Luglio 2022


Vivere una sola vita /in una sola città / in un solo Paese / in un solo universo/ vivere in un solo mondo / è prigione.
Amare un solo amico, /un solo padre, / una sola madre, / una sola famiglia / amare una sola persona / è prigione.
Conoscere una sola lingua, /un solo lavoro, / un solo costume, / una sola civiltà / conoscere una sola logica / è prigione.
Avere un solo corpo, / un solo pensiero, / una sola conoscenza, / una sola essenza / avere un solo essere / è prigione.

(Ndjock Ngana, Prigione, in Nhindo nero, Edizioni Anterem, 1994)

Corte di giustizia dell'Unione europea

Direttiva 2004/83 e ruolo dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente: cessazione della protezione e possibili mutamenti successivi
Nel caso NB, AB (CGUE, C-349/20, sentenza del 3.3.2022), la Corte di giustizia ha chiarito alcuni aspetti della clausola ex art. 12, par. 1, lett. a), della direttiva 2004/83, sostituita dalla direttiva 2011/95 ma applicabile al Regno Unito all’epoca dei fatti di causa.
La disposizione rinvia all’art. 1D della Convenzione di Ginevra del 1951 e si applica alle persone che beneficiavano della protezione o assistenza di un organo o di agenzia delle Nazioni unite diversi dall’Alto Commissario delle Nazioni unite per i rifugiati. Se tale protezione o assistenza dovesse cessare per qualsiasi motivo, l’interessato sarebbe ammesso ipso facto ai benefici della direttiva. Ebbene, nel giudizio interno dal quale promana il rinvio pregiudiziale che dà vita alla causa NB, AB, si poneva il problema dello status di alcuni apolidi di origine palestinese, fuggiti da un campo libanese per cercare protezione nel Regno Unito. I richiedenti asserivano che in quel campo venivano discriminati e sottoposti a condizioni di vita fortemente precarie, senza che l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) potesse proteggerli. Il giudice inoltrava alla CGUE una serie di quesiti per comprendere come applicare il diritto UE nel caso di specie. Passando in rassegna le questioni ad essa indirizzate, la Corte raggiunge le seguenti conclusioni. In primo luogo, l’art. 12, par. 1, lett. a), della direttiva 2004/83 deve essere interpretato nel senso che l’estensione automatica della protezione nello Stato membro di riferimento potrebbe non verificarsi se nel frattempo sono cambiate le condizioni nella zona dalla quale i richiedenti sono fuggiti. In altre parole, il giudice a quo dovrà compiere un esame individuale di tutti gli elementi o fattori pertinenti della situazione di cui trattasi; e più precisamente, occorre prendere in considerazione anche le circostanze esistenti al momento in cui le autorità amministrative competenti esaminano una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o in cui le autorità giudiziarie interessate si pronunciano sul ricorso proposto contro una decisione di diniego di riconoscimento di tale status. In questo scenario, il richiedente è tenuto a produrre quanto prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale, senza che però si debba dimostrare che l’organo o agenzia delle Nazioni unite chiamata a fornire protezione sia venuta meno alla propria missione in maniera volontaria e con l’intenzione di danneggiare l’interessato. D’altra parte, spetta allo Stato membro coinvolto nella vertenza provare che il richiedente adesso sarebbe in grado di ricevere, nella zona di provenienza, la protezione prevista dall’art. 12, par. 1, lett. a), della direttiva 2004/83. A tale proposito, la Corte aggiunge che per appurare se sia verosimile attendersi che la protezione richiesta sia effettivamente fornita all’interessato una volta tornato nel territorio da cui era fuggito può essere considerata l’assistenza personale offerta in loco da attori della società civile; ciò a patto che queste forme di supporto privato siano manifestazioni di un rapporto di cooperazione formale di natura stabile con l’organo o agenzia delle Nazioni unite (nel caso in esame, l’UNRWA).
 
Regolamento 604/2013 e presa in carico del richiedente asilo: nozione di detenzione
Nel caso IA (CGUE, C-231/21, sentenza del 31.3.2022) la Corte ha precisato il significato di «detenzione» ai fini dell’art. 29, par. 2, del regolamento 604/2013 (Dublino III). La disposizione, relativa al trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato membro competente, fissa un termine massimo di sei mesi, entro il quale il trasferimento deve avvenire onde evitare che lo Stato competente non sia più obbligato alla presa in carico; tuttavia, il termine può essere prorogato di un anno se non è stato possibile effettuare il trasferimento a causa della detenzione dell’interessato. Nello specifico, il Sig. IA era stato trasferito oltre i predetti sei mesi dall’Austria all’Italia causa ricovero presso il reparto psichiatrico di un ospedale di Vienna. Egli aveva quindi deciso di contestare in via giudiziale la legittimità della decisione di trasferimento, ritenuta non conforme a quanto previsto dall’art. 29, par. 2, del regolamento Dublino III. La Corte amministrativa austriaca si rivolgeva allora alla Corte di giustizia per sapere se, nel quadro di tale disposizione, il concetto di detenzione potesse assorbire anche l’ipotesi del ricovero psichiatrico cui era stato sottoposto IA. La CGUE ricorda che, in mancanza di apposite definizioni e di rinvii alla normativa degli Stati membri, un concetto espresso dal legislatore dell’Unione deve essere interpretato di modo da avere un significato autonomo di diritto UE. In relazione all’art. 29, par. 2, del regolamento Dublino III, la nozione di detenzione comprende soltanto la privazione della libertà imposta con decisione giudiziaria nell’ambito di un procedimento penale a causa di un reato di cui il richiedente asilo è ritenuto responsabile o per il quale quest’ultimo è sospettato di essere responsabile. Non riguarda, invece, una situazione come quella di IA, poiché il ricovero dell’interessato non aveva alcuna attinenza con indagini o condanne penali. Va poi sottolineato che ai sensi dell’art. 29, par. 2, del regolamento 604/2013 la detenzione rileva come elemento chiave di una eventualità eccezionale rispetto alla regola costruita dal legislatore dell’Unione, vale a dire un termine massimo di sei mesi per eseguire il trasferimento del richiedente verso lo Stato membro competente. Pertanto, l’equiparazione tra il concetto di detenzione e il ricovero psichiatrico scollegato da ragioni di natura penale comporterebbe un indebito ampliamento del campo di azione di una eccezione che, al contrario, dovrebbe essere interpretata restrittivamente.
 
Direttiva 2013/32 e inammissibilità della domanda di protezione internazionale esperita da chi sia rifugiato in uno Stato membro: possibili deroghe giustificabili per tutelare unità familiare e interesse superiore del minore
Il caso XXXX (CGUE, C-483/20, sentenza del 22.2.2022) ha indotto la Corte di giustizia a pronunciarsi sulla portata della facoltà contenuta all’art. 33, par. 2, lett. a), della direttiva 2013/32 (direttiva procedure), che permette agli Stati membri di giudicare inammissibile una domanda di protezione internazionale se un altro Stato membro ha già concesso la protezione internazionale all’interessato. La questione era stata sollevata dal Consiglio di Stato belga perché il ricorrente, al quale era stato riconosciuto lo status di rifugiato in Austria, si era trasferito in Belgio in quanto unico genitore di un minore non accompagnato che viveva proprio questo secondo Stato membro, dove aveva ottenuto protezione. Il ricorrente aveva proposto invano una domanda di protezione internazionale in Belgio, nonostante le autorità nazionali competenti gli avessero riconosciuto la potestà genitoriale sul figlio minore. Dal momento che la richiesta di protezione internazionale era stata respinta in forza della normativa belga di attuazione dell’art. 33, par. 2, lett. a), della direttiva 2013/32, il giudice nazionale chiedeva alla Corte se fosse possibile paralizzare questa facoltà alla luce degli artt. 7 e 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali, così da tutelare l’unità familiare e l’interesse superiore del minore. La Corte risponde che quanto previsto dell’art. 33, par. 2, lett. a), della direttiva 2013/32 a favore degli Stati membri non può essere limitato, neanche per queste ragioni. Fermo restando che i diritti protetti dagli artt. 7 e 24, par. 2, della Carta non sono assoluti, deve essere data la precedenza al rispetto del principio di mutua fiducia. Deroghe a questo principio sarebbero consentite in casi estremi, cioè se esistono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti, nell’accezione dell’articolo 4 della Carta, nello Stato membro che gli ha riconosciuto la protezione internazionale. Ciò si concretizza laddove la persona finisca per trovarsi in una situazione di estrema deprivazione materiale, che non gli consenta di far fronte ai suoi bisogni più elementari. Il tutto ricordando che tale rischio deve essere rilevato sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati; e che occorre altresì dimostrare che esso dipende da carenze del sistema nazionale di tutela che colpiscano per lo meno determinati gruppi di persone. Viceversa, la Corte ritiene che il ricorrente nel procedimento principale possa rimanere in Belgio grazie all’art. 23, par. 2, della direttiva 2011/95, che, allo scopo di garantire il mantenimento dell’unità del nucleo familiare, impone agli Stati membri la concessione del diritto di soggiorno ai familiari del beneficiario di protezione internazionale che individualmente non hanno diritto a tale protezione. Per la Corte il padre assumerebbe questa posizione solo con riguardo all’Austria, ma non anche rispetto al Belgio.
 
Direttiva 2008/115 e limiti alla privazione della libertà del cittadino di Stato terzo irregolare da rimpatriare: luoghi di trattenimento
Nella causa K (CGUE, C-519/20, sentenza del 10.3.2022) sono stati esaminati i limiti ai luoghi di trattenimento ai fini della direttiva 2008/115 (direttiva rimpatri). Il caso derivava da un giudizio instaurato in Germania dal sig. K, straniero irregolare e trattenuto in attesa di essere rimpatriato. K era stato collocato in una sezione specifica di un istituto penitenziario. Questa sezione aveva un proprio direttore, ma rimaneva subordinata alla direzione dell’istituto e soggetta all’autorità del Ministro responsabile per gli istituti penitenziari. Inoltre, la sezione ospitava anche persone condannate penalmente, sebbene detenute in edifici diversi da quelli in cui si trovavano i cittadini di Stati terzi. Su impulso del giudice nazionale, la Corte di giustizia era chiamata dapprima a stabilire se nella fattispecie vi fossero elementi per soddisfare quanto richiesto dall’art. 16, par. 1, della direttiva rimpatri, che stabilisce che il trattenimento dello straniero irregolare da rimpatriare avviene di norma in «appositi centri di permanenza temporanea». La Corte afferma che questi luoghi devono contraddistinguersi per una configurazione e un’attrezzatura dei locali nonché da modalità organizzative e operative «tali da costringere il cittadino di un paese terzo il cui soggiorno è irregolare che vi sia collocato a rimanere permanentemente in uno spazio ristretto e chiuso», benché la costrizione debba essere limitata a quanto strettamente necessario per garantire una preparazione efficace dell’allontanamento. Pertanto, le condizioni di trattenimento applicabili in un apposito Centro di permanenza temporanea non devono richiamare quelle di un confinamento in ambiente carcerario, proprio di una detenzione a fini punitivi. Nello specifico, gli elementi concernenti la direzione della struttura sono irrilevanti, mentre occorre che vi sia una chiara separazione tra locali di trattenimento per cittadini di Stati terzi e detenuti condannati penalmente; ciò vale anche in relazione alla maggior parte del personale addetto alle due tipologie di locali. Quindi la Corte risponde a un ulteriore quesito, con cui le era stato domandato se il giudice nazionale deve verificare che siano rispettate le condizioni dell’art. 18 della direttiva rimpatri quando adotta un provvedimento in deroga all’art. 16. Ora, l’art. 18 della direttiva prevede che «nei casi in cui un numero eccezionalmente elevato di cittadini di paesi terzi da rimpatriare comporta un notevole onere imprevisto per la capacità dei centri di permanenza temporanea di uno Stato membro o per il suo personale amministrativo o giudiziario» è possibile derogare la regola dettata dall’art. 16: in questa ipotesi il cittadino straniero irregolare e in procinto di essere rimpatriato può essere trattenuto in un istituto penitenziario. La Corte conferma che il giudice deve assolutamente controllare che siano rispettati i requisiti della disposizione in esame, avendo il potere di statuire su qualsiasi elemento di fatto e di diritto pertinente. Se così non fosse, si rischierebbe di minare il contenuto essenziale dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali. A tale proposito, gli elementi di fatto e le prove da valutare non sono solo quelli prodotti dall’autorità nazionale competente, ma anche quelli fatti valere dall’individuo interessato. Infine, la Corte fa luce su alcuni profili di attuazione degli artt. 16 e 18 della direttiva 2008/115. In particolare, la Corte precisa che se la normativa nazionale non rispetta le condizioni contenute in entrambi gli articoli, il giudice nazionale dovrà disapplicarla. In sintesi, resta valido il principio per cui il trattenimento in istituto penitenziario del cittadino di Stato terzo irregolare deve essere del tutto eccezionale (specie laddove la persona che lo subisce sia affetta da vulnerabilità). È ammissibile solo in situazioni imprevedibili non imputabili allo Stato di riferimento, ma va revocato quanto prima se si liberano posti in Centri di permanenza temporanea o se sono praticabili soluzioni meno coercitive per l’interessato.
 
Direttiva 2003/109 e limiti al mantenimento dello status di soggiornante di lungo periodo: assenze prolungate dal territorio dello Stato membro ospitante
Decidendo la causa ZK (CGUE, C-432/20, sentenza del 20.1.2022), la Corte di giustizia è stata chiamata a pronunciarsi sul requisito temporale che consente all’interessato di mantenere lo status di soggiornante di lungo periodo ai fini della direttiva 2003/109. In Austria era sorto un giudizio riguardante la validità o meno del provvedimento con cui era stata rigettata la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno di lungo periodo formulata da ZK. La motivazione dell’autorità competente era che ZK, nei cinque anni precedenti, era stato presente in territorio austriaco solo per qualche giorno all’anno. Il giudice adito decideva di chiedere alla CGUE come interpretare l’art. 9, par. 1, lett. c), della direttiva 2003/109, che stabilisce che l’interessato perde lo status di soggiornante di lungo periodo in caso di assenza dal territorio dell’Unione per un periodo di dodici mesi consecutivi. Più precisamente, il giudice del giudizio principale voleva sapere se, per evitare una simile conseguenza, il soggiornante di lungo periodo dovesse soddisfare condizioni supplementari, come quella di avere avuto la sua residenza abituale o il centro dei suoi interessi nel nello Stato membro di riferimento, almeno durante una parte del periodo di dodici mesi consecutivi in questione. La Corte propende per un’interpretazione testuale della disposizione invocata. Essa allude alla «assenza» dell’individuo, nozione autonoma di diritto dell’Unione che deve necessariamente coincidere con la non presenza fisica. Posto che l’art. 9, par. 1, lett. c), della direttiva non fissa ulteriori condizioni, la Corte aggiunge che tale soluzione è in linea con l’esigenza di interpretare restrittivamente l’eccezione di cui trattasi, nonché con l’obiettivo di assicurare l’integrazione di quei cittadini di Stati terzi che nello Stato membro ospitante stanno creando un legame duraturo. Inoltre, il criterio individuato dalla Corte è chiaro, preciso e prevedibile relativo a un mero evento oggettivo, dunque idoneo a garantire una maggiore certezza del diritto a beneficio dell’interessato.
 
Regolamento 2016/399 e ripristino dei controlli alle frontiere interne: durata massima delle misure di introduzione e proroga
Il caso NW (CGUE, cause riunite C-368/20 e C-369/20, sentenza del 26.4.2022) ha portato la Corte di giustizia a determinare alcuni punti fermi sulla durata massima del ripristino temporaneo del controllo di frontiera alle frontiere interne. La Corte era stata attivata da un giudice austriaco, a sua volta adito da NW, il quale aveva intentato due cause per lamentare la contrarietà delle misure austriache adottate per prolungare oltremodo i controlli alle frontiere con Slovenia e Ungheria. Segnatamente, il giudice interno chiedeva alla Corte se fosse imperativo il termine di 6 mesi che l’art. 25, par. 4, del regolamento 2016/399 (Codice frontiere Schengen) indica come durata massima totale del ripristino del controllo di frontiera alle frontiere interne, includendo eventuali proroghe rispetto al limite base di 30 giorni. La Corte accoglie questa tesi. Per decidere in tal senso, i giudici di Lussemburgo rammentano che i controlli alle frontiere interne sono misure eccezionali rispetto all’essenza dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e, di riflesso, alla libera circolazione delle persone. Il diritto UE ammette deroghe a queste regole di importanza primaria, ma occorre interpretarle restrittivamente. Alla luce del dato testuale dell’art. 25, par. 4, del regolamento 2016/399, nonché del contesto in cui la disposizione si situa e del fine da essa perseguito, tale termine massimo non può che essere imperativo. Pertanto, lo Stato che intenda ripristinare i controlli alle frontiere dovrà dimostrare la sussistenza delle condizioni previste dal par. 1 dell’art. 25 (minacce grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna) e rispettare i criteri di adeguatezza e proporzionalità avanzati all’art. 26. Dopodiché, è lo stesso art. 25, specie ai parr. 3 e 4, a specificare i termini da non superare qualora siano consentite proroghe delle misure di ripristino dei controlli alle frontiere, proroghe che comunque dovranno essere fondate su elementi nuovi collegati alla stessa minaccia. La Corte fa presente che detto termine massimo di 6 mesi può essere superato solo se le misure adottate riguardano minacce nuove rispetto a quella che ha legittimato il ripristino iniziale dei controlli alla frontiera. Ma l’elemento della novità deve riguardare le circostanze e gli eventi che mettono a repentaglio l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale. Infine, la Corte annota che gli Stati membri non possono avvalersi dell’articolo 72 TFUE per aggirare le disposizioni del Codice frontiere Schengen. Infatti, richiamando la propria giurisprudenza recente in argomento, la Corte conclude che la deroga – prevista all’articolo 72 TFUE – deve essere interpretata restrittivamente e che tale disposizione non conferisce agli Stati membri il potere di derogare al diritto dell’Unione mediante un mero richiamo a responsabilità da assolvere per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna. Da ciò si ricava che le proroghe disposte dall’Austria per prolungare la validità dei controlli alle frontiere interne oltre il termine dell’art. 25, par. 4, del Codice frontiere Schengen sono illegittime e che non è consentito sanzionare chi non abbia esibito un documento di identità nel periodo in cui i controlli non erano ammissibili.

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