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Fascicolo 2, Luglio 2022


Vivere una sola vita /in una sola città / in un solo Paese / in un solo universo/ vivere in un solo mondo / è prigione.
Amare un solo amico, /un solo padre, / una sola madre, / una sola famiglia / amare una sola persona / è prigione.
Conoscere una sola lingua, /un solo lavoro, / un solo costume, / una sola civiltà / conoscere una sola logica / è prigione.
Avere un solo corpo, / un solo pensiero, / una sola conoscenza, / una sola essenza / avere un solo essere / è prigione.

(Ndjock Ngana, Prigione, in Nhindo nero, Edizioni Anterem, 1994)

Rassegna di giurisprudenza europea: Corte europea dei diritti umani

Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti

Il caso M.A.M. c. Svizzera (Corte Edu, sentenza del 26.04.2022) riguarda un cittadino pachistano che, al suo arrivo in Svizzera, richiedeva protezione internazionale in ragione del timore di essere ucciso per via di conflitti tra famiglie nel suo villaggio. Mentre la sua domanda veniva valutata, il ricorrente si avvicinava a una chiesa cristiana fino a decidere di battezzarsi.
Nonostante il capo spirituale della chiesa frequentata dal ricorrente avesse informato le autorità competenti della sua nuova vita spirituale, nell’intervista per accertare lo status di rifugiato le attività religiose del ricorrente in Svizzera non venivano menzionate né venivano chiesto domande in merito. Poco dopo, la sua richiesta veniva rigettata. Nel ricorso contro tale decisione, il sig. M.A.M. avanzava come nuovo motivo per il riconoscimento dello status di rifugiato la sua conversione al cristianesimo che lo avrebbe esposto a un serio rischio per la sua vita nel caso di allontanamento in Pakistan. Nell’ambito dei ricorsi interni, il Tribunale amministrativo federale riteneva credibile l’avvenuta conversione del ricorrente ma negava che lo stesso corresse particolari rischi in Pakistan alla luce del basso numero di attacchi a minoranze cristiane, della possibilità di praticare la fede cristiana e dell’assenza di un divieto espresso di conversione dall’Islam ad altre religioni. Nonostante la diffusa intolleranza sociale verso coloro che si erano convertiti al cristianesimo comunque riscontrabile in quel Paese, secondo il medesimo Tribunale la riservatezza del ricorrente nel professare la nuova fede e il fatto che il suo ambiente familiare ignorasse l’avvenuta conversione non lo esponeva ai rischi da lui temuti. Il rigetto della domanda di protezione internazionale veniva quindi confermato. Ritenendo necessario valutare le lamentate violazioni degli artt. 2 e 3 Cedu congiuntamente, la Corte Edu ricorda come debbano essere valutate le domande di asilo, anche sur place, per accertare in conformità alla Cedu l’inesistenza di rischi per la vita o di subire tortura o trattamenti inumani e degradanti in caso di allontanamento (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 23.03.2016, F.G. c. Svizzera, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). A tal fine, la Corte si sofferma sulla consapevolezza delle autorità amministrative, già al momento dell’intervista, in merito alle attività religiose del ricorrente in Svizzera e ai pericoli cui sono esposte le persone convertite al cristianesimo in Pakistan (ad es., UNHCR, Eligibility Guidelines for Assessing the International Protection Needs of Members of Religious Minorities from Pakistan, 2017). Ciononostante, le stesse autorità non avevano proceduto a un esame dettagliato di questo aspetto della vita del ricorrente ponendogli, ad esempio, domande appropriate. Quanto all’esame condotto dal Tribunale amministrativo federale, per la Corte Edu tutta la sua attenzione era stata posta sulle informazioni disponibili in merito al generale trattamento dei cristiani in Pakistan e non anche sulla situazione specifica di coloro che, in quel Paese, si convertono al cristianesimo. Per tutte queste ragioni, lo Stato convenuto non ha proceduto a un esame approfondito e rigoroso della situazione nel Paese di destinazione e delle circostanze individuali del ricorrente, ad esempio indagando come, una volta ritenuto credibile, quest’ultimo manifestasse la sua fede in Svizzera e come l’avrebbe manifestata se allontanato in Pakistan, e a quali rischi sarebbe realmente esposto nel suo ambito familiare dopo l’avvenuta conversione. Pertanto, in assenza di una siffatta valutazione, per la Corte Edu l’allontanamento del sig. M.A.M. in Pakistan darebbe origine a una violazione degli artt. 2 e 3 Cedu.

In T.K. e altri c. Lituania (Corte Edu, sentenza del 22.03.2022) la protezione internazionale richiesta da un cittadino del Tagikistan per la sua affiliazione a un partito di opposizione (IRPT), messo fuori legge in Tagikistan, veniva rigettata due volte in quanto il suo resoconto e quello della moglie veniva ritenuto, sostanzialmente, poco credibile. Tutta la famiglia temeva quindi di subire una violazione dell’art. 3 Cedu nel caso in cui la Lituania avesse deciso di dare esecuzione all’ordine di allontanamento verso il loro Paese di origine. Poiché i ricorrenti non erano stati ancora allontanati per via delle misure indicate allo Stato convenuto ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento interno, la Corte Edu valuta il rischio di violazione dell’art. 3 Cedu alla luce delle informazioni più recenti disponibili sul Tagikistan. A tal fine, se è vero che la situazione generale del Paese non desta alcuna preoccupazione sotto il profilo del divieto di refoulement, per la Corte occorre concentrare l’attenzione sulle circostanze personali dei ricorrenti tenuto conto della presunta appartenenza del sig. T.K. a un gruppo sistematicamente esposto in Tagikistan a maltrattamenti vietati dall’art. 3 Cedu. A tal proposito, dopo aver ricordato che le stesse autorità lituane non avevano sollevato dubbi sulla sua effettiva membership al partito di opposizione, la Corte Edu nota come le richieste di asilo fossero state rigettate sulla base di contraddizioni interne al racconto del sig. T.K. e della moglie in merito alla persecuzione subita in Tagikistan e dell’assunto per cui solo i membri di alto profilo del partito di opposizione IRPT fossero sistematicamente perseguitati. Rispetto al primo punto, la Corte ricorda innanzitutto che, ai fini della valutazione del rischio di subire maltrattamenti vietati dall’art. 3 Cedu in caso di allontanamento, eventuali maltrattamenti subiti in passato nel Paese di destinazione non costituiscono un elemento determinante specie se la credibilità delle persone interessate, valutata nel suo complesso, non è in discussione (cfr. Corte Edu, 25.02.2020, A.S.N. e altri c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XXII, 2, 2020; 17.11.2020, B e C c. Svizzera, in questa Rivista, XXIII, 1, 2021; UNHCR, Note on Burden and Standard of Proof in Refugee Claims, 1998). Quanto al secondo aspetto, prendendo in esame «rispettabili» rapporti internazionali, la Corte Edu afferma che la persecuzione e la detenzione arbitraria degli oppositori politici e delle loro famiglie sono tuttora pratiche diffuse in Tagikistan, mentre non è trascurabile il numero di sparizioni forzate degli oppositori che vivono in esilio all’estero (Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, Concluding observations on the third periodic report of Tajikistan, 2019; Human Rights Watch, Annual World Report, 2021; Freedom House, Nations in Transit, 2021; US Department of State, Country report on human rights practices in Tajikistan, 2020). Se è vero che le stesse fonti fanno riferimento a oppositori di alto profilo, per la Corte non è possibile escludere che i membri «ordinari» corrano gli stessi rischi. Del resto, pur accettando che il sig. T.K. fosse un membro attivo dell’opposizione quando si trovava in Tagikistan, le autorità lituane non avevano spiegato la ragione per cui il suo livello di partecipazione alla vita del partito non poteva esporlo al rischio di persecuzione. Il fatto di non aver esaminato tutti gli elementi avanzati dai ricorrenti, comprese le informazioni riguardanti quanto accaduto ad altri oppositori «ordinari» una volta rientrati in Tagikistan, conferma ulteriormente una valutazione lacunosa della situazione dei ricorrenti. Vista anche l’eccessiva attenzione su aspetti minori del loro resoconto, come l’esistenza di maltrattamenti precedenti l’arrivo in Lituania, in assenza di un nuovo e adeguato esame dei rischi cui sarebbero esposti il sig. T.K. e la sua famiglia in Tagikistan, per la Corte Edu il loro allontanamento darebbe luogo a una violazione dell’art. 3 Cedu.

Con il caso Khasanov e Rakhmanov c. Russia (Corte Edu, Grande Camera, sentenza del 29.04.2022) la Grande Camera è chiamata a valutare la presunta violazione dell’art. 3 Cedu nel caso in cui i due ricorrenti, kirghisi appartenenti alla minoranza etnica uzbeca già condannati, venissero allontanati nel loro Paese di origine. Nel consueto riepilogo dei principi applicabili in materia, due aspetti ricordati dalla Grande Camera appaiono centrali per la valutazione del ricorso in esame. Da un lato, in un caso come quello dei ricorrenti, la persona che lamenta il rischio di refoulement deve avanzare elementi sufficienti da cui si possa dedurre sia l’esistenza di abusi sistematici contro un particolare gruppo etnico sia la loro appartenenza a quel gruppo specifico. Dall’altro, anche in presenza di una valutazione consolidata nella giurisprudenza circa la situazione in un Paese terzo, nulla preclude a una Sezione della Corte di riesaminare, sulla base di elementi fattuali, la tutela dei diritti umani in quel Paese per tenere conto di eventuali cambiamenti significativi. Tutto ciò supporta la Grande Camera nel confermare la conclusione cui era già giunta la Terza Sezione della Corte rispetto al medesimo caso (Corte Edu, 19.11.2019, T.K. e S.R. c. Russia, in questa Rivista, XXII, 1, 2020). Infatti, innovando rispetto all’approccio seguito fino a quel momento (v. Corte Edu, 22.10.2015, Turgunov c. Russia, in questa Rivista, XVII, n. 3-4, 2015), la Terza Sezione aveva ritenuto che le fonti disponibili più recenti sul Kirghizistan non identificano più la minoranza uzbeca come un gruppo vulnerabile esposto ad abusi o maltrattamenti sistematici. Come reiterato dalla Grande Camera, nonostante persistano alcune preoccupazioni in merito alle torture e ai trattamenti inumani e degradanti finalizzati a estorcere confessioni, non sono oggi rintracciabili torture etnicamente motivate ma unicamente situazioni di discriminazione ed esclusione, specie in termini economici e politici, a danno di alcuni gruppi in ragione della loro etnia (cfr., ad esempio, UN Special Rapporteur sulle minoranze, Statement on 6-17 December 2019 visit to Kyrgyzstan, 2019; Unione europea, 2019 Annual Report on Human Rights and Democracy – Country update on Kyrgyzstan, 2019; Amnesty International, 2019 Report on Human Rights in Eastern Europe and Central Asia, 2019; Coalition Against Torture in Kyrgyzstan, Submission to the 35th Session of the UN Universal Periodic Review Working Group, 2019). Quanto alle circostanze personali dei ricorrenti, anche per la Grande Camera le autorità russe avevano condotto un esame accurato della loro situazione. Tenendo conto che i ricorrenti non sono ricercati in Kirghizistan per reati motivati da ragioni politiche o religiose e che non hanno prodotto elementi dettagliati a supporto delle lamentate violazioni, esse hanno correttamente escluso il pericolo di esporli a trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu. Per queste ragioni, la Grande Camera ritiene che l’allontanamento dei ricorrenti nel loro Paese di origine non darebbe luogo a una violazione del divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti.

In N.B., N.G. e K.G. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 31.03.2022), una coppia di cittadini georgiani e il loro figlio di otto anni lamentavano una violazione dell’art. 3 Cedu per essere stati trattenuti, in attesa del loro allontanamento, in condizioni materiali non adatte a un minore e una violazione del diritto a ricorrere dinanzi la Corte Edu (art. 34 Cedu) per non essere stati liberati come aveva indicato la stessa Corte al Governo francese ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento interno. Si ricorda che, nel caso di trattenimento di minori, tre fattori devono essere valutati per stabilire se il livello di gravità previsto dall’art. 3 Cedu sia stato effettivamente raggiunto: l’età dei minori interessati, le condizioni materiali del centro di trattenimento rispetto ai loro bisogni specifici e la durata del periodo di privazione della libertà (ad es. Corte Edu, 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, 1, 2018). Considerando tali elementi rispetto al caso in esame, per la Corte Edu il fatto che il minore interessato abbia otto anni non fa venire meno la sua condizione di vulnerabilità in caso di trattenimento, né questa risulta attenuata dalla presenza dei genitori (Corte Edu, 12.07.2016, A.B. e altri c. Francia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Quanto alle condizioni materiali, la Corte ritiene che, pur essendo abilitato a ospitare famiglie, il centro di Metz in cui erano stati detenuti i ricorrenti resta un luogo particolarmente securizzato in cui gli effetti, sia sul punto fisico che psicologico, della privazione della libertà possono essere nefasti su un minore, specie se prolungata. A tal proposito, la Corte nota come il giudice chiamato a estendere il trattenimento iniziale per un periodo di 28 giorni non aveva nemmeno tenuto conto della presenza del minore. Tutto ciò fa affermare alla Corte Edu che, nei confronti del ricorrente minore, vi è stata violazione dell’art. 3 Cedu. La soglia di gravità prevista dallo stesso articolo 3 Cedu, invece, non è stata raggiunta nel caso dei ricorrenti adulti. Per quanto il trattenimento loro e del minore abbia generato sicuramente un sentimento di impotenza e angoscia, nei confronti dei genitori non vi è stata violazione del divieto di tortura o trattamenti inumani o degradanti. Infine, rispetto a tutti i ricorrenti, vi è stata una violazione dell’art. 34 Cedu perché il Governo convenuto non ha avanzato alcuna circostanza eccezionale che giustificasse il fatto di non aver dato immediatamente esecuzione alle misure provvisorie indicate dalla Corte Edu rimettendo in libertà l’intera famiglia.

Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza

In Nikoghosyan e altri c. Polonia (Corte Edu, sentenza del 3.03.2022) una coppia di cittadini armeni e i loro tre figli, dopo aver provato ad attraversare il confine polacco più volte ed essere stati sempre respinti, riuscivano a presentare domanda di asilo in ragione del timore di persecuzione per motivi politici. Rigettata tale richiesta, ne veniva ordinato il trattenimento per sessanta giorni al fine di verificare le informazioni fornite alle autorità e di evitare il rischio di fuga in mancanza di alternative alla detenzione. Le corti interne chiamate a valutare la legittimità del trattenimento notavano, in particolare, come i minori avessero accesso a cure mediche e psicologiche nel centro in cui erano ospitati e che il fatto di non separarli dai genitori assicurava il loro preminente interesse. Trascorso il periodo massimo di trattenimento previsto dalla legge, venivano infine liberati. Dopo aver rigettato tutte le obiezioni sollevate dal Governo convenuto, la Corte Edu ricorda come, nei casi di trattenimento che coinvolgono minori, le autorità nazionali agiscono in conformità al diritto alla libertà e alla sicurezza, sotto il profilo dell’art. 5, par. 1, lett. f) Cedu, solo se dimostrano che non ci siano misure meno restrittive del trattenimento per ottenere il risultato perseguito (tra gli altri casi, Corte Edu, 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, 1, 2018; 12.07.2016, R.M. e altri c. Francia, A.B. e altri c. Francia, A.M. e altri c. Francia, R.K. e altri c. Francia e R.C. e V.C. c. Francia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Nel caso in esame, per la Corte Edu lo Stato convenuto non ha avanzato sufficienti elementi per ritenere che il trattenimento fosse veramente necessario. Infatti, se è vero che la detenzione poteva essere inizialmente giustificata per verificare le informazioni fornite dai ricorrenti, una volta ottenuti i necessari chiarimenti le corti interne hanno egualmente esteso il loro trattenimento anziché porvi fine. Ciò sarebbe avvenuto in assenza di una valutazione individualizzata delle loro circostanze personali come dimostra l’utilizzo, nelle decisioni controverse, di pronomi sbagliati per far riferimento ai due ricorrenti adulti, nonché il non aver considerato la presenza dei minori, compresa la nascita di un quarto figlio durante il trattenimento. Peraltro, la Corte Edu fa anche notare che, quando il benessere dei minori è stato finalmente preso in considerazione, le autorità competenti hanno comunque deciso di trattenere i ricorrenti sulla base dell’erroneo presupposto per cui il loro interesse corrispondesse unicamente nel mantenimento dell’unità familiare durante il trattenimento e non anche la limitazione del periodo di detenzione attraverso l’accurata ricerca di alternative. Ritenendo pertanto non giustificata la privazione della libertà subita dal sig. Nikoghosyan e la sua famiglia, per la Corte Edu vi è stata violazione dell’art. 5, par. 1, lett. f) Cedu.

Il caso Kommissarov c. Repubblica Ceca (Corte Edu, sentenza del 3.02.2022) riguarda un cittadino russo che, dopo essere stato indagato per frode nel suo Paese, giungeva nello Stato convenuto dove costruiva una propria famiglia. Anche se il suo permesso di soggiorno veniva inizialmente rinnovato, pochi anni dopo le autorità ceche accoglievano la richiesta di estradizione avanzata dalla Russia. Il ricorrente veniva così trattenuto in attesa dell’esecuzione dell’allontanamento che, a causa della valutazione della richiesta di asilo nel frattempo presentate e dei ricorsi a essa collegati, si prolungava per oltre un anno. Dinanzi la Corte Edu, il sig. Kommissarov lamentava una violazione dell’art. 5, par. 1, lett. f) Cedu per l’eccessiva durata del suo trattenimento e la mancata valutazione di misure a esso alternative. Dopo aver ricordato come il diritto alla libertà e alla sicurezza non impone limiti di tempo prefissati per il trattenimento di coloro che devono essere allontanati, la Corte Edu ribadisce come occorra sempre procedere a una valutazione caso per caso per stabilire la legittimità di una siffatta privazione della libertà personale. Nel caso del sig. Kommissarov, la Corte nota come il suo arresto e trattenimento fossero stati convalidati dalle autorità competenti e non fosse stato possibile eseguire il suo allontanamento in Russia per consentire la valutazione della contestuale richiesta di protezione internazionale. In una situazione simile, la Corte Edu ritiene che le autorità competenti debbano pronunciarsi su tale richiesta con particolare rapidità in modo da non ritardare, oltre quanto necessario, il trattenimento. Nel caso del ricorrente, però, lo Stato convenuto ha negato ogni forma di protezione internazionale dopo otto mesi dalla presentazione della relativa domanda. Se si tiene conto anche il periodo relativo ai ricorsi presentati contro tale diniego, si raggiungono oltre 17 mesi durante i quali il ricorrente ha continuato a essere trattenuto nonostante le denunce volte a porre fine alla sua detenzione. Un siffatto periodo va molto oltre il limite massimo, pari a sei mesi, fissato per questi casi nell’ordinamento interno dello Stato convenuto. Pertanto, per la Corte Edu il trattenimento subito dal sig. Kommissarov ha dato luogo a una violazione del suo diritto alla libertà e alla sicurezza.

Il caso Shenturk e altri c. Azerbaijan (Corte Edu, sentenza del 10.03.2022) ha origine da quattro diversi ricorsi presentati da altrettanti cittadini turchi per lamentare la violazione degli artt. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e 3 (divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti, letto sotto il profilo procedurale) Cedu come conseguenza del loro trattenimento e del successivo allontanamento, ordinati su richiesta delle autorità turche nonostante il dichiarato timore di persecuzione e, in alcuni casi, dell’intervento diretto dell’UNHCR. Dopo aver rigettato le obiezioni sollevate dal Governo azero, la Corte Edu afferma che, non essendo – in tutto o in parte – basate su decisioni formali delle autorità competenti, le detenzioni subite dai ricorrenti non sono conformi a quanto impone l’art. 5, par. 1 Cedu. Considerato peraltro che il loro allontanamento non era stato deciso seguendo un formale procedimento di estradizione o, in taluni casi, i ricorrenti erano stati comunque privati delle garanzie procedurali da esso previste, per la Corte Edu i trattenimenti subiti sono parte di un sistema di trasferimenti posto al di fuori della legge. In queste condizioni, non vi è dubbio che i ricorrenti abbiano subito una violazione del loro diritto alla libertà e alla sicurezza personale. Per le stesse ragioni, specie per l’impossibilità di ricorrere contro il loro «informale» allontanamento e per l’assenza di ogni valutazione individualizzata dei timori lamentati dai ricorrenti prima di essere trasferiti in Turchia (cfr. Corte Edu, 20.7.2021, D c. Bulgaria, in questa Rivista, XXIII, 3, 2021), vi è stata anche una violazione dell’art. 3 Cedu, letto sotto il profilo procedurale.

Art. 6: Diritto a un equo processo

Nel caso Al Alo c. Slovacchia (Corte Edu, sentenza del 10.02.2022) un cittadino siriano, arrestato e condannato per traffico di migranti, lamentava una violazione del diritto a un equo processo poiché la sua condanna si basava essenzialmente sulle testimonianze fornite, nel corso delle indagini preliminari, da due migranti che, venendo poi allontanati dallo Stato convenuto, non venivano riascoltati durante il processo. Nei ricorsi interni, i giudici avevano attribuito particolare importanza al fatto che il ricorrente, pur informato della possibilità di assistere all’interrogatorio dei migranti e porre loro domande anche in assenza di un avvocato, vi avesse volontariamente rinunciato. Valutando il ricorso sotto il profilo dell’art. 6, par. 1 e 3, lett. d), relativo al diritto di ogni accusato di esaminare o far esaminare ogni testimone a carico, la Corte Edu ricorda che, per stabilire se la lamentata violazione sia effettivamente occorsa, occorre analizzare diversi elementi. Tra questi, rientrano certamente le ragioni per cui sono state ammesse dichiarazioni di testimoni assenti al processo, i motivi dell’assenza dei testimoni durante il processo, la possibilità dell’accusato di verificare l’attendibilità di tali testimonianze e l’esistenza di adeguate garanzie procedurali a tutela dell’accusato (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 15.12.2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito). Dopo aver verificato che la misura controversa fosse prevista dalla legge, la Corte Edu osserva come le autorità interne non abbiano profuso ogni sforzo ragionevole per convocare i testimoni durante il processo nonostante le richieste avanzate in tal senso dal ricorrente, il quale aveva peraltro fornito informazioni precise sul luogo in cui si trovavano i migranti interessati. Poiché le stesse autorità avevano dato per certa l’impossibilità dei due migranti di rientrare in Slovacchia ai fini del processo, esse avrebbero comunque potuto richiedere la loro partecipazione attraverso strumenti elettronici in virtù degli accordi di mutua assistenza in materia penale vincolanti tutti gli Stati interessati dal caso. Nonostante tali lacune procedurali, per la Corte Edu le testimonianze dei migranti hanno assunto un ruolo assolutamente centrale ai fini della condanna del ricorrente. A tal fine, la giustificazione basata sulla decisione di quest’ultimo di non assistere all’interrogatorio e interrogare i migranti che lo accusavano, pur avanzata dal Governo convenuto, deve essere adeguatamente valutata. Infatti, per stabilire se il ricorrente è stato trattato in conformità all’art. 6 Cedu, occorre esaminare se quella decisione sia stata presa dal sig. Alo in modo consapevole. Per la Corte Edu, non è chiaro né quali informazioni siano state realmente fornite al ricorrente al momento dell’interrogatorio alla luce del suo livello di istruzione, né se quest’ultimo fosse consapevole che quelle testimonianze potessero essere poi utilizzate durante il processo anche nel caso in cui i migranti fossero stati allontanati. Tale chiarimento era, del resto, dovuto al ricorrente, tenuto conto che alle autorità competenti era già chiaro che i migranti sarebbero stati espulsi. Per tutte queste ragioni, la Corte Edu ha ritenuto che, in assenza di adeguate garanzie che potessero controbilanciare la negazione del diritto del sig. Alo di esaminare o far esaminare durante il processo i migranti che avevano testimoniato inizialmente contro di lui, vi è stata una violazione dell’art. 6 Cedu.

Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare

In Hashemi e altri c. Azerbaijan (Corte Edu, sentenza del 13.01.2022) otto ricorrenti provenienti dall’Afghanistan o dal Pakistan lamentavano una violazione dell’art. 8 Cedu in ragione del rifiuto dell’Azerbaijan di rilasciare ai loro figli una carta di identità. Nonostante i minori fossero nati nello Stato convenuto e disponessero di un atto di nascita rilasciato dalle sue autorità, le carte di identità venivano negate perché i minori non erano ritenuti cittadini azeri. Secondo le corti interne chiamate a valutare i ricorsi contro tale diniego, il fatto di nascere in Azerbaijan non garantiva automaticamente ai minori interessati la cittadinanza azera se i rispettivi genitori, come nel caso dei ricorrenti, possedevano una diversa cittadinanza. Riuniti i ricorsi ritenuti ammissibili e constatata l’assenza di conflitti di interessi tra i minori e i ricorrenti per stabilire il titolo di questi ultimi a lamentare una violazione della Cedu per conto loro, la Corte Edu ricorda come la Convenzione non garantisca un diritto alla cittadinanza. Tuttavia, poiché la nozione di vita privata di cui all’art. 8 Cedu comprende molteplici aspetti dell’identità sociale di una persona (ad es., Corte Edu, 13.10.2016, B.A.C. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), una decisione relativa alla cittadinanza può porre un problema ai sensi di quella disposizione se produce un impatto sulla vita privata delle persone interessate. Nel caso dei ricorrenti, per le conseguenze che ne erano derivate anche in termini di accesso a benefici economici e sociali, per la Corte Edu la negazione delle carta d’identità e, contestualmente, della cittadinanza azera rappresenta senz’altro un’ingerenza nella vita privata dei figli dei ricorrenti. Nell’analizzare l’eventuale arbitrarietà di tale ingerenza ai sensi del par. 2 dell’art. 8 Cedu, la Corte nota come fino al 2012, cioè fino alla nascita dei ricorrenti minorenni, la legge azera in materia di cittadinanza risultava vaga rispetto alla situazione di figli di stranieri nati in Azerbaijan. Tuttavia, proprio in virtù di quella legge, i ricorrenti minorenni avevano ottenuto un atto di nascita che ne attestava chiaramente la cittadinanza azera. Per la Corte Edu, una volta attribuita, quest’ultima non può essere rimessa in discussione sulla base di una nuova legge più restrittiva in materia, così come hanno erroneamente fatto le corti interne. Venendo quindi meno il requisito della conformità alla legge dell’ingerenza subita dai ricorrenti, per la Corte Edu ciò è sufficiente per concludere che la misura contestata dai ricorrenti risulta arbitraria. Nel loro caso, vi è stata quindi una violazione dell’art. 8 Cedu.

Il caso Sabani c. Serbia (Corte Edu, sentenza dell’8.03.2022) riguarda una cittadina serba giunta con la figlia in Belgio, per raggiungere il marito, nel 2009. Tutte le sue richieste di asilo o di visti per ragioni umanitarie o mediche volte a regolarizzare il soggiorno venivano rigettate. Nel 2015, dopo l’adozione dell’ennesimo ordine di lasciare il Belgio, la polizia locale veniva incaricata di recarsi al domicilio della ricorrente per controllare se avesse rispettato l’ordine impostole e, in caso negativo, di procedere al suo arresto. Secondo la ricorrente, la polizia era entrata nel suo appartamento senza il suo consenso e l’aveva ammanettata, in presenza della figlia, per poi condurla in un centro di trattenimento e, infine, allontanata nel suo Paese di origine. Valutando il caso sotto il profilo del diritto al rispetto del domicilio, così come protetto dall’art. 8 Cedu nei confronti di tutti coloro che si trovano sotto la giurisdizione delle Parti indipendentemente dalla regolarità del loro soggiorno, per la Corte Edu la ricorrente ha certamente subito un’ingerenza che, per essere legittima, deve essere giustificata ai sensi dell’art. 8, par. 2. A tal fine, la Corte concentra l’esame dell’ingerenza prodotta dall’entrata della polizia nel domicilio della ricorrente senza il suo consenso rispetto alla conformità alla legge. Se è vero che la stessa Costituzione belga sancisce l’inviolabilità del domicilio salvo i casi previsti tassativamente dalla legge, la Corte Edu afferma che il Governo convenuto non ha fornito alcuna base giuridica appropriata su cui si sarebbe basato l’intervento della polizia ai danni della ricorrente. Questo intervento non poteva, del resto, essere basato sulla irregolarità del soggiorno della stessa o sulle disposizioni di legge che affidano alla polizia il compito di controllare gli stranieri che non hanno con sé documenti di identità, come avevano erroneamente considerato le corti interne. Pertanto, per la Corte Edu nei confronti della sig.ra Sabani vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu. Inoltre, poiché il Governo convenuto non ha avanzato alcuna ragione per giustificare la necessità di ammanettare la ricorrente, anche rispetto a questa parte del ricorso vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu.

Con il caso Johansen c. Danimarca (Corte Edu, decisione dell’1.02.2022), la Corte Edu è chiamata a valutare la presunta violazione del diritto al rispetto per la vita privata e familiare generata dalla revoca della cittadinanza danese, con contestuale ordine di allontanamento e divieto di re-ingresso, subita da una persona condannata per attività legate al terrorismo internazionale. Dopo aver vissuto sin dalla nascita in Danimarca, dove si era sposato e aveva avuto un figlio, il sig. Johansen veniva arrestato per essere stato reclutato dall’Isis e aver operato, per conto di quella organizzazione terroristica, in Siria. Nella valutazione che aveva portato alla condanna del ricorrente, le corti interne avevano specificamente considerato gli obblighi derivanti dall’art. 8 Cedu, esaminando le conseguenze che si sarebbero prodotte sulla sua vita privata e familiare anche alla luce della giurisprudenza della Corte Edu in materia. Per accertare la violazione lamentata dal ricorrente, la Corte Edu ricorda come la revoca della cittadinanza generi un impatto sulla vita privata di un individuo che, per essere conforme all’art. 8 Cedu, non deve risultare arbitraria. Nel caso del ricorrente, la Corte osserva come la misura adottata dallo Stato convenuto fosse conforme alla legge e fosse principalmente il risultato delle sue scelte e azioni nel creare un legame con il terrorismo internazionale. Inoltre, nel corso dei procedimenti interni gli erano state assicurate sufficienti garanzie procedurali, incluso l’accesso a tre diversi gradi di giudizio. Se la revoca della cittadinanza danese non può quindi qualificarsi come arbitraria, per la Corte Edu la Corte Suprema danese aveva anche valutato adeguatamente le conseguenze della misura controversa sulla vita del ricorrente. In particolare, avendo appurato che la doppia cittadinanza tunisina non esponeva il ricorrente al rischio di diventare apolide, la Corte Suprema notava come il sig. Johansen avesse sviluppato legami significativi con la Tunisia pur essendo nato in Danimarca così potersi facilmente ricollocare in quel Paese. Ritenendosi dunque soddisfatta dell’esame condotto a livello interno e avendo ribadito come la gravità dei reati commessi evidenzi il mancato attaccamento del ricorrente ai valori su cui si basa la società danese, la Corte Edu ha rigettato la presunta violazione dell’art. 8 Cedu come inammissibile. Per le stesse ragioni, dopo aver accertato l’esistenza di ragioni particolarmente serie per aver imposto al ricorrente anche l’allontanamento e un divieto permanente di re-ingresso (v. Corte Edu, Grande Camera, 18.10.2006, Üner c. Paesi Bassi; 14.09.2017, Ndidi c. Regno Unito, in questa Rivista, XX, 1, 2018), la Corte Edu ha rigettato anche il resto del ricorso ritenendolo egualmente inammissibile.

Art. 4, Protocollo 4: Divieto di espulsioni collettive

Il caso A.A. e altri c. Macedonia del Nord (Corte Edu, sentenza del 5.4.2022) riguarda otto ricorrenti (cinque cittadini della Siria, due dell’Iraq e uno dell’Afghanistan) che lamentavano una violazione del divieto di espulsioni collettive (Art. 4, Prot. 4) e del diritto a un ricorso effettivo (Art. 13) per essere stati allontanati in Grecia senza alcuna identificazione o esame individuale del loro caso, immediatamente dopo il loro ingresso in Macedonia del Nord avvenuto nel marzo 2016. Secondo i ricorrenti, per ottenere il loro allontanamento, le forze di sicurezza macedoni li avrebbero condotti vicino al confine con la Grecia per poi costringerli, con minacce e anche violenze in taluni casi, ad attraversare irregolarmente il confine. Dopo aver riunito i ricorsi, la Corte Edu rigetta innanzitutto tutte le obiezioni avanzate dal Governo convenuto. In primo luogo, diversamente da quanto sostenuto dalla sua difesa, non vi sono dubbi che il racconto dei ricorrenti sia veritiero tenuto conto delle prove video presentate dinanzi la stessa Corte. In secondo luogo, quanto alla tesi per cui gli eventi lamentati dai ricorrenti non ricadevano nella giurisdizione della Macedonia del Nord, la Corte Edu ricorda come l’esercizio della giurisdizione ai fini dell’applicazione della Cedu sia essenzialmente territoriale (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, 1, 2012, p. 104; Corte Edu, 21.10.2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia, in questa Rivista, XVI, 3-4, 2014, p. 154). Tale principio può essere rimesso in discussione solo in via eccezionale, cioè quando le Parti non sono in grado di esercitare la loro autorità su una parte del loro territorio. Non rientra in questo caso una situazione di temporanea difficoltà di gestire grandi flussi di migranti, né la partecipazione alle attività di controllo dei confini di forze di sicurezza di altri Paesi. Infatti, non risulta che, nel caso di specie, la Macedonia del Nord abbia ceduto in loro favore la propria autorità sulla parte del territorio in cui dovevano operare. Come affermato dalla Corte, le peculiarità del contesto migratorio e della lotta all’immigrazione irregolare non possono giustificare la creazione di aree ove gli individui interessati, venendo esclusi artificialmente dalla giurisdizione di una delle Parti, sarebbero privati di ogni tutela convenzionale (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 13.02.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020). In terzo luogo, nonostante le obiezioni del Governo convenuto, non vi sono dubbi che l’art. 4 del quarto Protocollo addizionale alla Cedu sia applicabile al caso dei ricorrenti tenuto conto che il loro allontanamento forzato e immediato dalla Macedonia del Nord verso la Grecia si configura come «espulsione» ai sensi della stessa disposizione. Quanto al merito del ricorso, per la Corte Edu non vi è tuttavia stata alcuna violazione del divieto di espulsioni collettive. Infatti, nel suo ragionamento assume una centrale importanza il tipo di condotta dei ricorrenti i quali, traendo vantaggio dal grande afflusso di migranti in transito nel territorio della Macedonia del Nord nel marzo 2016, si sono posti essi stessi in una situazione in cui lo Stato convenuto non avrebbe potuto garantire loro un esame individuale delle loro circostanze personali. In effetti, nello stesso periodo in cui avveniva i fatti in esame, il Governo convenuto aveva garantito un accesso «genuino ed effettivo» attraverso canali legali ad altri migranti, compresa la possibilità di richiedere protezione internazionale in punti specifici di attraversamento della frontiera con il conseguente esame individualizzato della situazione personale. Come afferma la Corte, the Convention does not prevent States, in the fulfilment of their obligation to control borders, from requiring applications for such protection to be submitted at the existing border crossing points (par. 115), potendo quindi rifiutare l’ingresso a tutti coloro che non si sono conformati alle procedure a tal fine previste. Tenuto conto dell’effettiva possibilità di richiedere protezione internazionale in alcuni punti specifici al confine con la Grecia, dimostrata anche dai dati sulle richieste di asilo registrate in Macedonia del Nord nel periodo immediatamente precedente ai fatti controversi, per la Corte Edu non vi erano stati motivi cogenti per i quali i ricorrenti non avevano potuto recarsi nei punti di attraversamento previsti o, pur essendosi presentati, erano stati poi respinti senza l’applicazione delle dovute garanzie procedurali. Anzi, ad avviso della Corte, gli stessi ricorrenti non hanno mai sostenuto di aver provato a entrare in modo regolare in Macedonia del Nord per presentare una richiesta di asilo perché il loro unico interesse sarebbe stato quello di transitare nello Stato convenuto per aggiungere altri Stati europei. Per queste ragioni, essendosi posti in una situazione illegale, la mancata identificazione dei ricorrenti e adozione di una decisione individuale di allontanamento per ognuno di essi è da attribuire unicamente a loro stessi. Pertanto, per la Corte Edu non vi è stata violazione né dell’art. 4, Prot. 4, né dell’art. 13 Cedu letto in combinato con esso.

 

 

La rassegna relativa agli artt. 2-3 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 6-4, Prot. 4 è di C. Danisi.

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