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Fascicolo 2, Luglio 2018


«Riflettere sull’immigrazione, in fondo, significa interrogare lo Stato, i suoi fondamenti, i suoi meccanismi interni di strutturazione e di funzionamento. Interrogare lo Stato in questo modo, mediante l’immigrazione, significa in ultima analisi “denaturalizzare”, per così dire, ciò che viene considerato “naturale” e “ristoricizzare” lo Stato o ciò che nello Stato sembra colpito da amnesia, cioè significa ricordare le condizioni sociali e storiche della sua genesi. La “naturalizzazione” dello Stato, come la percepiamo in noi stessi, opera come se lo Stato fosse un dato immediato, come se fosse un oggetto dato di per sé, per natura, cioè eterno, affrancato da ogni determinazione esterna, indipendente da ogni considerazione storica, indipendente dalla storia e dalla propria storia, da cui si preferisce separarlo per sempre, anche se non si smette di elaborare e di raccontare questa storia. L’immigrazione – ed è questo il motivo per cui essa disturba – costringe a smascherare lo Stato, a smascherare il modo in cui lo pensiamo e in cui pensa se stesso».

(A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, prefazione di P. Bourdieu, ed. it. a cura di S. Palidda, Milano, Raffaello Cortina, 2002).

Penale

Negli ultimi mesi sono state pronunciate alcune importanti decisioni di merito riguardanti in particolare le condizioni dei centri di detenzione per migranti in Libia, e i limiti di liceità degli interventi di soccorso in mare fornito dalle ONG operanti nelle acque prospicienti la Libia.
 
Per quanto riguarda la situazione dei campi di detenzione in Libia, è di estremo interesse la pronuncia della Corte d’assise di Milano del 10 ottobre 2017 , le cui motivazioni sono state depositate il 2 dicembre (per un commento alla decisione, cfr. la scheda pubblicata su Quest. giust., 3.4.2018, dal titolo Campi libici, l'inferno nel deserto. La sentenza della Corte di assise di Milano, e le note di G. Battarino, I campi di raccolta libici: un’istituzione concentrazionaria – Nota a Corte d’assise di Milano, sentenza 10 ottobre-1 dicembre 2017, in Quest. giust.,  n. 2/2018, p. 239 ss., e di S. Bernardi, Una condanna della Corte d'assise di Milano svela gli orrori dei "centri di raccolta e transito" dei migranti in Libia, in Dir. pen. cont., 16.4.2018).
La corte milanese ha condannato all’ergastolo – per i reati di omicidio doloso plurimo ed aggravato, sequestro di persona e violenza sessuale – un cittadino somalo individuato da numerosi suoi connazionali come autore di atroci violenze nella sua veste di co-gestore di uno dei molti campi di detenzione presenti ancora oggi in Libia (i fatti oggetto della sentenza si riferiscono ad un periodo comprendente la seconda metà del 2015 ed i primi mesi del 2016). La descrizione che emerge dal racconto delle 17 persone offese (sentite in sede dibattimentale o di incidente probatorio) lascia senza fiato. In un capannone nei dintorni della città libica di Bani Walid vivevano detenute più di 500 persone, in condizioni igienico-sanitarie raccapriccianti, esposte quotidianamente a violenze fisiche e ad abusi sessuali. L’imputato aveva il compito di indurre, mediante le torture più atroci, i reclusi ad ottenere dalle proprie famiglie il denaro necessario per essere liberati e proseguire il viaggio verso l’Italia (intorno ai 7000 dollari); all’interno di una vera e propria “stanza delle torture” l’imputato procedeva quotidianamente a stuprare e seviziare le proprie vittime, diverse delle quali morivano poi in ragione delle violenze subite. La coerenza intrinseca ed estrinseca delle numerose testimonianze raccolte consente alla Corte d’assise di ritenere provata la personale responsabilità dell’imputato, che nel corso del dibattimento ha sempre proclamato la propria innocenza, o negando gli addebiti, o sostenendo di essere stato costretto a tenere le condotte attribuitegli dall’organizzazione criminale che gestiva il campo.
 
Di recente le inumane condizioni dei campi di detenzione per stranieri in Libia sono state oggetto di accertamento in una nuova sentenza di merito. In data 12 giugno 2018, la Corte d’assise di Agrigento ha pronunciato condanna a 10 anni di reclusione per il reato di riduzione in schiavitù nei confronti di un soggetto ritenuto responsabile della gestione di un campo di detenzione in territorio libico. Le motivazioni non sono state ancora depositate; il quadro emerso dalle udienze dibattimentali è comunque coerente con i tragici racconti posti a fondamento della sentenza milanese, a conferma delle sistematiche atrocità cui sono sottoposti gli sventurati rinchiusi nei numerosi lager libici (le fonti più prudenti parlano di diverse decine di migliaia di persone al momento ristrette in tali strutture).
È interessante infine ricordare come la giurisdizione delle nostre corti per reati comuni commessi all’estero da cittadino straniero, ai danni di altri cittadini stranieri, sia fondata sul duplice presupposto, ex art. 10 c.p., della presenza in Italia dell’autore del reato, e della richiesta di procedere da parte del Ministro della giustizia.
 
Negli ultimi mesi sono stati aperti due procedimenti cautelari nei confronti di altrettante ONG impegnate nell’attività di ricerca e soccorso nelle acque prospicienti alla Libia, il cui operato come noto è da tempo oggetto di critica e di diffidenza anche a livello istituzionale, come ben testimoniato dal controverso Codice di condotta governativo, cui devono attenersi le ONG che intendano operare all’interno del sistema SAR coordinato dalle autorità marittime italiane (per una ricostruzione di tali vicende, sia consentito il rinvio a L. Masera, L’incriminazione dei soccorsi in mare: dobbiamo rassegnarci al disumano?, in Quest. giust., n. 2/2018, p. 225 ss.).
La prima vicenda è quella relativa al sequestro della nave Juventa, riconducibile alla ONG tedesca Jugend Retter, disposto il 2 agosto 2017 dal GIP presso il Tribunale di Trapani (cfr. la nota di R. Barberini, Il sequestro della Iuventa: ONG e soccorso in mare, in Quest. giust., 18.9.2017). Secondo l’impostazione accusatoria, l’equipaggio avrebbe in diverse occasioni (nelle prime settimane di giugno) concordato direttamente prima della partenza la consegna in mare dei migranti con le bande criminali libiche che gestiscono i campi di detenzione ed i viaggi verso l’Italia; tali condotte, esorbitanti dal dovere di soccorso in mare dei natanti in difficoltà, sarebbero tali da integrare secondo il GIP siciliano gli estremi del concorso nella fattispecie delittuosa di favoreggiamento dell’ingresso irregolare di cui all’art. 12 co. 3 e 3bis TU, che come noto non richiede tra i suoi elementi costitutivi il dolo di profitto (il GIP non mette in discussione l’esclusiva finalità umanitaria degli operatori della ONG). Il sequestro è stato poi confermato dalla Cassazione con provvedimento del 24 aprile 2018, di cui ancora non sono note le motivazioni.
 
La seconda vicenda riguarda la nave Open Arms, che per conto della ONG spagnola Proactiva Open Arms svolge attività di soccorso in mare. Il procedimento giudiziario ha ad oggetto uno specifico episodio, verificatosi il 15 marzo 2018, quando la Open Arms riceve una comunicazione da parte della Guardia costiera italiana, che le segnala la presenza di un gommone con diversi migranti a bordo a 40 miglia da Tripoli, e le richiede in quanto nave più vicina di recarsi sul posto per valutare la situazione. Nel frattempo la Guardia costiera libica comunica a quella italiana di essere in grado di intervenire, e le autorità italiane ingiungono alla Open Arms di interrompere l’operazione. L’equipaggio spagnolo decide di recarsi comunque sul posto, e constatate le precarie condizioni del gommone, nonostante le ripetute indicazioni delle autorità italiane di lasciare ai libici in arrivo le attività di soccorso (in ottemperanza alle disposizioni del Codice di condotta sottoscritto dalla ONG spagnola), inizia ad operare il trasbordo dei migranti stipati sul gommone. Nel frattempo le navi della guardia costiera libica arrivano sul posto, e pretendono la consegna dei migranti soccorsi, sino al punto di ostacolare le operazioni di soccorso in atto con manovre pericolose per l’integrità dei migranti e dell’equipaggio spagnolo; l’episodio si conclude con la desistenza dei libici, e l’allontanamento senza danni della Open Arms con i migranti a bordo. La nave spagnola chiede indicazioni alle autorità italiane su come procedere, segnalando una situazione di grave pericolo per un neonato di tre mesi e la madre; gli italiani replicano che l’effettuazione del soccorso al di fuori del loro coordinamento rende responsabile di fornire istruzioni l’autorità della bandiera (e quindi la guardia costiera spagnola), ed indicano comunque alla Open Arms di rivolgersi alle autorità maltesi, visto che la nave era giunta nel frattempo a sole quattro miglia dalle coste maltesi. La nave, dopo avere affidato ai maltesi i due soggetti in imminente pericolo di vita, prosegue la navigazione verso l’Italia, senza dare seguito alle indicazioni delle autorità italiane e spagnole di chiedere ai maltesi di poter sbarcare tutti i migranti. La Open Arms naviga di propria esclusiva iniziativa sino alle acque italiane, sino a quando giunge dal Ministero dell’interno l’autorizzazione ad attraccare nel porto di Pozzallo.
La Procura distrettuale della Repubblica di Catania – competente in quanto ritenuta configurabile la fattispecie associativa di cui all’art. 416 co. 6 c.p., in concorso con gli artt. 12 co. 3 e 3bis TU – ottiene il 27 marzo dal GIP etneo la convalida del sequestro preventivo della Open Arms disposto in via d’urgenza il giorno 18 (cfr. la nota di S. Perelli, Il sequestro della nave Open Arms: è reato soccorrere migranti in pericolo di vita?, in Quest. giust., 31.3.2018). La principale questione controversa è la configurabilità o meno dello stato di necessità, che le difese degli indagati invocavano non tanto per le condizioni del gommone (la situazione non era probabilmente talmente grave da non potersi attendere l’intervento dei libici), quanto per il fatto che «il rientro dei migranti in Libia significava per gli stessi l’andare incontro a gravi ripercussioni, con esposizione a violenze di ogni tipo e, comunque, la ricollocazione in campi profughi dove le condizioni di vita sono intollerabilmente spaventose, e dove i diritti umani non vengono minimamente rispettati».
Il GIP, pur non negando le drammatiche condizioni in cui versano i migranti nei campi libici, ricorda come la tutela della vita dei migranti sia contemperata a livello normativo con le esigenze statali al controllo dei flussi migratori. I soccorsi in mare devono avvenire secondo precise modalità, dettate in particolare dal Codice di condotta, che l’ONG spagnola ha nell’occasione violato. Tale violazione comporta, secondo il giudice, il superamento della soglia entro cui il trasferimento in Italia di stranieri irregolari può considerarsi legittimo, posto che «non può essere consentito alle ONG di creare autonomi corridoi umanitari al di fuori del controllo statuale ed internazionale».
Quanto poi allo stato di necessità invocato dalle difese, il GIP ne esclude la sussistenza, dal momento che la presenza della nave libica pronta a prendere a bordo i migranti esclude quanto meno il requisito dell’inevitabilità del pericolo. Le considerazioni relative al pericolo di torture e trattamenti inumani cui i migranti sarebbero stati esposti qualora riportati in Libia, non assumono secondo il giudice alcuna rilevanza ai fini della valutazione della scriminante perché «si tratta di eventi che la legislazione italiana e quella internazionale non hanno preso in considerazione». Così il GIP conclude la propria ricostruzione sul punto: «va ribadito il concetto che la legislazione di cui al T.U. sull’immigrazione non contempla come scriminante il fine della solidarietà in capo al soggetto agente, risultando – allo stato della legislazione – del tutto irrilevanti le motivazioni personali, che lo hanno spinto all’azione ritenuta penalmente sanzionabile, anche se tali motivazioni sono avvertite da parte dell’opinione pubblica come connotate da condivisibile valore umanitario e non da spinte egoistiche».
Il GIP etneo convalida dunque il sequestro, in quanto ritiene sussistente il fumus boni iuris rispetto al delitto di cui all’art. 12 TU, ma non reputa invece sufficienti gli elementi indiziari posti a sostegno della contestazione del reato associativo, l’unico peraltro idoneo a fondare la competenza per materia del tribunale distrettuale. Gli atti vengono allora trasmessi all’ufficio territorialmente competente, il GIP presso il Tribunale di Ragusa, che con una decisione del 16 aprile rigetta la richiesta di conferma del decreto di sequestro avanzata dalla Procura ragusana (cfr. la nota di M. Patarnello, Dissequestrata la nave Open Arms: soccorrere i migranti non è reato, in Quest. giust., 19.4.2018).
Le opposte conclusioni del giudice ragusano rispetto a quello catanese derivano da una diversa interpretazione della norma sullo stato di necessità. Il GIP di Ragusa ricorda che gli obblighi di soccorso in mare, come delineati dalle convenzioni internazionali di cui l’Italia è parte, non si «esauriscono nel mero recupero in mare dei migranti, ma devono completarsi con lo sbarco in un luogo sicuro (POS, place of safety)», e tale non può considerarsi un luogo come la Libia attuale, ove i migranti sono esposti a rischi considerevoli di torture e trattamenti inumani e degradanti. Il pericolo che il giudice deve tenere in considerazione per valutare la sussistenza dello stato di necessità è anche quello cui sarebbero stati esposti i migranti al loro ritorno in Libia, che ovviamente non poteva considerarsi evitabile con l’intervento della guardia costiera libica: la decisione della Open Arms di non consegnare i migranti ai libici può dunque considerarsi giustificata, secondo il giudice ragusano, ai sensi dell’art. 54 c.p. In ordine poi alla decisione del capitano della Open Arms di non chiedere a Malta la possibilità di sbarcare i migranti soccorsi, in aperta violazione delle indicazioni ricevute dalle autorità italiane e di bandiera, il giudice ritiene che essa non valga ad escludere la sussistenza dello stato di necessità, non disponendosi al momento di alcuna prova che le autorità maltesi fossero concretamente disponibili a prestare l’accoglienza eventualmente richiesta. «Entrambe le condotte contestate – conclude il decreto – sia in zona SAR libica, sia in zona SAR Malta, si risolvono in una disobbedienza alle direttive impartite dalle autorità preposte al coordinamento dei soccorsi, che però non vale ad impedire la configurabilità della causa di giustificazione dello stato di necessità».
Le conclusioni del GIP hanno trovato da ultimo conferma da parte del Tribunale del riesame, che con provvedimento dell’11 maggio ha rigettato l’istanza del pubblico ministero, confermando l’ordinanza di dissequestro. Il Tribunale conferma l’impossibilità di individuare in Libia quel porto sicuro, ove la normativa internazionale chiede vengano sbarcati i soggetti soccorsi in mare, e ritiene di conseguenza configurabile come il GIP lo stato di necessità; vengono poi aggiunte alcune considerazioni relative alla difficoltà di ritenere riscontrato l’elemento soggettivo del dolo di favoreggiamento in condotte animate da uno spirito umanitario e caratterizzate comunque dal mantenimento dei contatti con le autorità.
Il tema della possibile rilevanza penale delle condotte di soccorso in mare e di trasferimento in Italia dei migranti soccorsi è dunque al momento quanto mai controverso, e certamente contribuiranno a fare chiarezza i procedimenti di merito che presumibilmente si apriranno nei prossimi mesi sulle vicende oggetto dei provvedimenti cautelari appena analizzati. Decisiva, come visto sopra, è l’interpretazione che la giurisprudenza vorrà fornire dello stato di necessità: se limitato solo al pericolo imminente di naufragio, o tale da prendere in considerazione anche il pericolo di torture e violenze cui vanno incontro i migranti qualora vengano presi in consegna dalla guardia costiera libica e riportati nei campi di detenzione. Considerato come proprio le sentenze citate nella prima parte di questa rassegna attestino l’eccezionale gravità delle atrocità perpetrate in tali luoghi, ci pare auspicabile che la nostra magistratura penale non voglia giungere a sanzionare penalmente le condotte di coloro che, pur con modalità non concordate o financo contrastate dall’autorità italiana, perseguano ed ottengano il solo risultato di salvare degli innocenti da un destino inumano.

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