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Fascicolo 1, Marzo 2023


«Ogni classificazione delle popolazioni è arbitraria. Trovo disgustosa la situazione attuale e ammiro chi si oppone ma soprattutto l’ostinazione e il coraggio straordinario dei migranti»

(Étienne Balibar, in Confini, mobilità e migrazioni. Una cartografia dello spazio europeo, a cura di Lorenzo Navone, Milano, AgenziaX, 2020).

Cittadinanza e apolidia

Rispetto ai quadrimestri precedenti nel periodo qui esaminato (settembre-dicembre 2022) non sono rinvenibili apprezzabili spunti di novità né da parte della autorità giudiziaria ordinaria né da parte dei giudici amministrativi riguardo ai provvedimenti emessi appunto in questo arco di tempo.
In tema di acquisto della cittadinanza per nascita emerge un ulteriore caso di acquisto iure soli per così dire tardivo, sia pure ovviamente con effetti retroattivi.
Altrettanto si può notare riguardo all’acquisto c.d. per elezione, salvo una certa complessità delle fattispecie considerate; e purtuttavia si profila in tutte queste ipotesi un opportuno intervento del giudice ordinario, destinato a salvaguardare il rispetto dei diritti dei ricorrenti.
Meno usuale si presenta forse il contenuto della sentenza concernente l’acquisto della cittadinanza per matrimonio a causa del sovrapporsi, ad opera del soggetto interessato, di una domanda di acquisto per naturalizzazione.
Nessun elemento innovatore traspare infine dalle pronunce del Consiglio di Stato e del Tar Lazio, tutte naturalmente imperniate sulla “concessione” della cittadinanza per naturalizzazione, dalle quali pur traspare, sempre tuttavia in misura piuttosto limitata, qualche censura rispetto alle valutazioni negative del Ministero dell’interno. Occorre semmai sottolineare in linea generale un certo incremento dell’attività consultiva dei Consiglieri di Palazzo Spada a seguito del moltiplicarsi di ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica in questo settore.
Non mancano – come di consueto – alcune pronunce in tema di apolidia.
 
Acquisto della cittadinanza iure soli
Rinvenimento di minori nel territorio italiano. Effetti anche a distanza di tempo. Minore apolide dalla nascita
Com’è noto, l’art. 1, co. 1 della l. 5.2.1992 n. 91 prevede alla lett. b) l’acquisto della cittadinanza italiana nel caso di nascita sul territorio da genitori entrambi ignoti o apolidi, o la cui legge non preveda la c.d. trasmissione del proprio status civitatis. Affiorano negli ultimi tempi diverse decisioni, dirette ad applicare tale norma privilegiandone l’effetto retroattivo: in particolare, si tratta di minori nati in Italia la cui situazione di apolidia, derivante da specifiche norme dell’ordinamento dei genitori sulla cittadinanza, viene accertata in un momento successivo alla nascita stessa.
Ancora una volta è stata così dichiarata la cittadinanza italiana di un minore, nato in Italia da madre paraguaiana e padre ignoto, dopo aver accertato che l’art. 146 della Costituzione di quello Stato richiede ai figli dei cittadini nati all’estero, al fine di ottenere la cittadinanza di quel Paese, la permanenza nel proprio territorio durante almeno un anno ( Trib. Roma, ord. 23.9.2022 ).
Merita di essere altresì segnalato che il ricorso è stato presentato e accolto pur in mancanza di un provvedimento negativo del Comune di Roma (che aveva curiosamente e invano chiesto al Ministero dell’interno un parere); erano infatti scaduti entrambi i termini (di 120 e 20 giorni) dalla richiesta di riconoscimento della cittadinanza italiana, rispettivamente previsti dall’art. 16, co. 7 del d.p.r. 572/1993 e dall’art. 16 della l. 241/1990.
 
Acquisto della cittadinanza per elezione
a) Individuo residente in un campo di rom. Rifiuto del Comune di dichiarare la residenza anagrafica e di fornire la carta di identità; rigetto della domanda di riconoscimento della cittadinanza al raggiungimento della maggiore età. Accertamento della residenza effettiva con ogni mezzo di prova e inefficacia dei limiti temporali. b) Minore dichiarato italiano in quanto figlio di neo-cittadino. Successivo accertamento della falsità dell’acquisto del padre. Divieto al Comune di fornire qualsiasi documento ad entrambi.Impossibilità di presentare la domanda di riconoscimento della cittadinanza al raggiungimento della maggiore età. Accertamento della residenza effettiva con ogni mezzo di prova e inefficacia dei limiti temporali
Non è raro trovare casi di ostacoli burocratici nell’ambito dell’applicazione dell’art. 4, co. 2, così come integrato dall’art. 33 del d.l. n. 69 del 2013, concernente un modo di acquisto volontario ma contemporaneamente automatico della cittadinanza italiana, una volta accertata – al raggiungimento della maggiore età – la volontà suddetta del soggetto interessato e soprattutto l’ininterrotta residenza effettiva in Italia sin dalla nascita. Pur comportando un aggravio in termini di tempo e di spese, normalmente simili casi vengono risolti favorevolmente grazie all’intervento del giudice civile.
Una prima fattispecie riguardava la sorte di una donna di etnia rom la cui nascita in Italia non era mai stata denunciata e rispetto alla quale, malgrado un sia pur tardivo rilascio del permesso di soggiorno, il Comune di Roma non aveva mai voluto procedere all’iscrizione all’anagrafe (forse in quanto residente in un campo nomadi) né alla consegna della carta di identità né infine al riconoscimento della cittadinanza italiana.
È spettato perciò al giudice ricostruire le vicende trascorse dell’interessata, sulla base delle usuali prove relative ai certificati vaccinali, alla carriera scolastica e successivamente anche lavorativa nonché della testimonianza della parente alla quale era stata affidata fin dalla nascita ( Trib. Roma, sent. 18.10.2022 ).
Ancor più complessa risultava la situazione di un’altra donna di etnia rom, il cui padre era stato riconosciuto come figlio da un cittadino italiano; e perciò le aveva “trasmesso” il nuovo status civitatis. Tuttavia, veniva successivamente accertata e dichiarata la falsità del primo riconoscimento nei tre gradi di giudizio. Per di più, il giudice di primo grado invitava il Comune di Roma a non rilasciare più alcun documento ai due “coimputati”. Al di là di una sopraggiunta invalidità permanente della ricorrente e della conseguente impossibilità di ottenerne una certificazione dall’INPS, nonché della susseguente revoca del provvedimento disposta dalla Corte d’appello penale, l’interessata non aveva potuto nemmeno esercitare il suo diritto ad ottenere la cittadinanza a causa dell’inerzia del Comune di Roma nell’esecuzione dell’ultimo provvedimento giudiziario.
Anche in questo caso spetta al giudice civile ricomporre il mosaico relativo alla ininterrotta residenza effettiva in Italia della ricorrente rilevando altresì che la condizione di quest’ultima era stata «pedissequamente determinata» dalle decisioni dei giudici penali e dell’Amministrazione alle quali era stata costretta a conformarsi ( Trib. Roma, ord. 6.12.202 2 ).
 
Acquisto della cittadinanza per matrimonio
Richiesta di acquisto della cittadinanza per naturalizzazione e successivo ricorso al Tar contro il suo respingimento. Successiva domanda di acquisto per matrimonio. Necessità di rinuncia alla controversia sulla prima. Respingimento anche della seconda a causa di una circostanza non veritiera. Sua natura di provvedimento amministrativo. Competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria
Desta qualche perplessità la conclusione ultima cui è giunto il giudice civile in un ennesimo procedimento viziato da lungaggini burocratiche, cui però non era estraneo l’operato del ricorrente.
In effetti, il coniuge di una cittadina italiana aveva in un primo tempo presentato una domanda ai fini della attribuzione della cittadinanza italiana per naturalizzazione. Tale richiesta era stata tuttavia respinta dalla prefettura competente; ne seguiva un ricorso dell’interessato al Tar. Il medesimo soggetto tuttavia presentava poco dopo una diversa domanda di attribuzione della cittadinanza italiana per matrimonio; anche quest’ultima veniva però respinta a causa del mancato decorso di un anno dal respingimento della prima. Al rinnovo della seconda domanda veniva obiettata la pendenza del procedimento amministrativo e la necessità di una rinuncia ad esso. Ma neppure dopo tale rinuncia veniva accolto l’esame della terza domanda poiché risultava ancora «in istruttoria una istanza precedente». Di qui l’azione davanti al giudice civile.
Da parte sua, il Ministero dell’interno replicava sostenendo che questa fosse da dichiararsi inammissibile, in quanto il suo vaglio contrastava con quanto disposto dall’art. 34, co. 2 c.p.a., secondo cui in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati, dato che mancava un provvedimento definitivo.
Viceversa, il Tribunale di Bologna individua nell’ultimo atto, letteralmente indicato come di rifiuto in relazione all’accoglimento della domanda, da parte della prefettura un vero e proprio provvedimento fondato su circostanze non veritiere. Ne deduce che il ricorso è ammissibile e fondato, anche sulla base della constatazione secondo cui il Ministero non aveva contestato la sussistenza nel caso di specie dei «presupposti costitutivi del diritto di cittadinanza» di cui al suddetto articolo, «compresa l’esistenza di un rapporto di coniugio con cittadina italiana». Ne segue la dichiarazione di acquisto della cittadinanza italiana ( Trib. Bologna, ord. 14.10.2022 ).
In realtà è ragionevole ritenere che il Ministero dell’interno non avesse neppure iniziato l’inderogabile controllo sull’assenza dei motivi ostativi di cui all’art. 6, co. 1 della legge sulla cittadinanza. Ed occorre rammentare che, mentre la insussistenza delle condanne penali di cui alle lettere a) e b) può essere verificata e statuita dal giudice civile, quella relativa ai comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica, prevista alla lett. c), spetta altrettanto inderogabilmente alla Pubblica amministrazione.
 
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione
a) Precedenti penali; criteri generali ai fini della loro valutazione: mancata incidenza sull’ottenimento della cittadinanza a causa della tenuità dei reati; effetti dell’autocertificazione non veritiera. b) Reati commessi dal coniuge dell’istante. c) Irrilevanza di per sé della estinzione del reato e della riabilitazione. d) Insufficienza del reato di guida in stato di ebbrezza. f) Necessità dell’esibizione in originale dell’estratto dell’atto di nascita o equivalente in allegato alla domanda
Come indicato all’inizio, malgrado il consueto numero elevato di pronunce in questo settore, soprattutto ad opera del Consiglio di Stato, non sembrano venire in rilievo apprezzabili profili di novità nelle rispettive motivazioni. Ciò non esclude tuttavia che alcuni provvedimenti dei giudici amministrativi meritino una apposita menzione.
Occorre sottolineare anzitutto una inusitata utilizzazione allo strumento del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica di cui al d.p.r. 24.11.1971, n. 1199 avverso i provvedimenti di rigetto delle istanze assunti dal Ministero dell’interno. Ne deriva un aumento dei necessari pareri del Consiglio di Stato, connotati da una ampiezza delle rispettive motivazioni e spesso dall’accoglimento delle ragioni espresse dall’interessato.
Questi caratteri sono, ad esempio, riscontrabili in riferimento ad un caso in cui il ricorrente lamentava la tenuità del reato che gli era stato ascritto e la propria incolpevole ignoranza a tale proposito, tale da aver omesso di indicarlo nella istanza di naturalizzazione. L’esteso parere emesso dal Consiglio di Stato al riguardo (Cons. St., sez. I, parere 19.10.2022, n. 1709) muove anzitutto dal ribadire il carattere altamente discrezionale della valutazione di opportunità politico-amministrativa sottesa alla concessione della cittadinanza, «irrevocabile una volta intervenuta», rispetto alla quale la posizione soggettiva del richiedente non è di diritto soggettivo, ma ha consistenza di interesse legittimo. Ne scaturisce una sequenza argomentativa assai serrata dalla quale sono ricavabili i seguenti principi.
La valutazione della Pubblica amministrazione deve anzitutto vertere su un esame relativo all’avvenuta stabile integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta. Tra queste assume particolare rilievo il comportamento tenuto dal richiedente nel rispetto delle regole della convivenza civile e non solo di quelle di rilevanza penale. Infatti, anche fatti depenalizzati, oppure oggetto di archiviazione in sede penale (ad esempio, per decorrenza dei termini di prescrizione) e, più in generale, anche comportamenti che prescindono da ogni conseguenza penale o sanzionatoria possono essere considerati rilevanti per la sicurezza e/o l’ordinato svolgimento della vita sociale.
A questa premessa severa, che sembra amplificare ulteriormente il grado di discrezionalità del Ministero dell’interno, si accompagna però l’obbligo per la Pubblica amministrazione di una accurata istruttoria, di cui la motivazione del provvedimento deve dar conto con trasparenza, coerenza, logicità e comprensibilità: quindi, una discrezionalità che, per quanto ampia, non può sconfinare nell’arbitrio. Da qui muovono una serie di criteri, nel senso che l’ampiezza e la profondità dell’obbligo di motivazione del provvedimento di diniego devono correlarsi alla natura penale del fatto, alla gravità dello stesso, alla circostanza che lo stesso sia stato commesso a distanza di tempo dal momento della presentazione dell’istanza. Così, nel caso di condanna con sentenza, per di più se passata in giudicato, la motivazione può essere minore rispetto a quella richiesta per una mera comunicazione di notizia di reato o una denuncia, della quale il ricorrente potrebbe non essere al corrente.
Ed ancora: in tale quadro, anche la riabilitazione del condannato ex art. 178 c.p. e la dichiarazione di cessazione degli effetti penali del reato ex art. 445, co. 2 c.p.p. (per non avere il condannato commesso nei cinque o due anni – a seconda dei casi – successivi al passaggio in giudicato della sentenza altri delitti della stessa indole) non impediscono la valutazione del fatto medesimo sul piano amministrativo, essendo in tale sede la valutazione finalizzata a scopi autonomi e diversi da quella del giudice penale che ha concesso la riabilitazione del condannato; ciò nonostante, anche di fronte a simili situazioni, la Pubblica amministrazione non per questo può esimersi da una considerazione in concreto del fatto, delle sue modalità, del suo effettivo disvalore sociale.
A queste considerazioni di contenuto evidentemente restrittivo segue una altrettanto ampia indagine sugli effetti di un’autocertificazione non veritiera, anche alla luce dell’art. 75 del d.p.r. n. 445/2000. Viene qui respinto l’inquadramento della fattispecie qui rilevante come causa di una automatica decadenza dall’acquisto della cittadinanza distinguendo nettamente tra il concetto di falso nel diritto penale, per definizione sempre doloso, e quello nel diritto amministrativo, che può derivare da una condotta colposamente omissiva o semplicemente erronea. Dunque, di fronte alla minima entità del reato (importazione abusiva di cinque stecche di sigarette dal proprio Paese di origine) e alla non consapevolezza della relativa condanna da parte del soggetto interessato, viene accolto il ricorso.
Un altro parere dei medesimi Consiglieri esamina invece l’incidenza di eventuali condanne riportate dal coniuge (ovviamente, anch’esso straniero) di coloro che chiedono la cittadinanza italiana mediante il procedimento di naturalizzazione (Cons. St., sez. I, parere 19.12.2022, n. 1988). Anche a tale proposito, da un lato, viene confermato che, una volta estesa legittimamente l’indagine del Ministero dell’interno ai componenti del nucleo familiare del richiedente, non è precluso dar peso, ai fini del diniego, anche a circostanze relative ai familiari, perfino non conviventi; dall’altro lato, però, deve trattarsi di fatti particolarmente gravi che destano notevole allarme sociale e vi siano elementi da cui si possa desumere che si tratti di circostanze in qualche modo condivise dal richiedente medesimo. Viene altresì confermata ancora una volta la necessità di una congrua e approfondita motivazione, senza forme di automatismo in senso ostativo (del quale spesso questa Rassegna è testimone e che costringono l’interessato a defatiganti ricorsi).
Occorre allora distinguere, secondo il Consiglio di Stato, tra varie ipotesi. In particolare, viene ritenuto legittimo il diniego del Ministero qualora emerga la contiguità del coniuge con movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica anche in vista delle conseguenze che avrebbe per il coniuge l’acquisto della cittadinanza da parte dell’altro, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 91/1992, nonché il regime legale che sottrae all’espulsione il coniuge di cittadino italiano. A ben vedere, tuttavia qui sembra dimenticato l’art. 6, co. 1 lett. c) della legge, il quale impedirebbe comunque tale acquisto. Più convincente appare il dato della comunità di vita tra i coniugi, tale da giustificare il diniego della cittadinanza anche nel caso di contatti intrattenuti dal coniuge dell’aspirante cittadino con noti elementi della criminalità organizzata.
Viene però anche additata la illegittimità di dinieghi nei casi in cui il soggetto richiedente era stato prosciolto dalle accuse nel procedimento penale a carico anche dell’altro coniuge oppure quando il diniego era stato adottato in ragione della sussistenza di un precedente penale per ricettazione nei confronti del figlio del ricorrente, per il quale il Tribunale per i minorenni aveva dichiarato il non doversi procedere per irrilevanza del fatto. A queste fattispecie deve comunque essere aggiunta quella relativa ai dinieghi fondati su mere notizie di reato, riguardanti condotte attribuite solo al coniuge, senza alcuna compartecipazione del ricorrente, per di più sorretti da una motivazione inadeguata: quali, ad esempio, quelle consistenti in un decreto di archiviazione e una sentenza di assoluzione dal reato di insolvenza fraudolenta.
Tuttavia, in altre occasioni il giudizio del Consiglio di Stato risulta limitante: ad esempio, quando avalla il diniego malgrado sia intervenuta l’estinzione del reato o la riabilitazione, per di più in riferimento a condanne risalenti affermando che le risultanze penali ben si possono vagliare negativamente sul piano amministrativo, anche a prescindere dagli esiti processuali, in quanto il comportamento non è valutato ai fini dell’irrogazione di una sanzione, bensì al fine di formulare un giudizio sul grado di assimilazione dei valori e sulla futura integrazione (Cons. St., sez. III, sent. 29.9.2022, n. 8390; conf. Tar Lazio, sez. V bis, sent. 21.11.2022, n. 15401).
Occorre notare che entrambe le pronunce citate facevano riferimento al reato di reato di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. Viceversa, un giudizio di contenuto opposto è stato formulato in riferimento al reato (anch’esso risalente) di guida in stato di ebbrezza in quanto insufficiente a fondare il giudizio di mancato inserimento sociale dell’istante e sulla sua pericolosità, astratta o presunta, senza apprezzare tutte le circostanze del fatto concreto (Cons. St., sez. III, sent. 19.9.2022, n. 8068).
È stato infine ricordato, su un piano ben diverso, che è necessario corredare l’istanza di concessione della cittadinanza italiana con l’esibizione dell’estratto dell’atto di nascita o equivalente in forma autentica, ovvero composto dal documento originale rilasciato dall’autorità estera, recante i dati anagrafici dell’individuo, legalizzato dalla Rappresentanza diplomatica-consolare italiana e dalla traduzione in lingua italiana del documento medesimo, non essendo sufficiente la sola traduzione legalizzata (Cons. St., sez. III, sent. 16.9.2022, n. 8030).
 
Apolidia
Un primo caso di richiesta della dichiarazione di apolidia è collegato, come talvolta avviene, alla contestuale richiesta di protezione sussidiaria. Si tratta di un cittadino algerino il quale, a seguito di manifestazioni di piazza contro il silenzio delle autorità in relazione alla sparizione del padre e di altre persone, aveva ricevuto minacce e aggressioni ed era perciò fuggito dal proprio Paese di origine. Dopo aver soggiornato per alcuni periodi in taluni Stati europei, era ritornato in Italia alle cui autorità aveva appunto chiesto la misura di protezione suddetta. Alcune questure italiane avevano chiesto ripetutamente documenti e notizie al suo riguardo ad autorità algerine e alla stessa Ambasciata in Italia ricevendo sempre risposte negative circa la sua esistenza. Da qui la deduzione secondo cui il ricorrente era stato privato della sua identità anagrafica e soprattutto della sua cittadinanza. Il successivo accertamento giudiziale dell’apolidia viene, come di consueto, compiuto in applicazione della Convenzione di New York del 1954 sullo statuto degli apolidi, con le modalità illustrate nella relativa Guida (ovvero, Manuale) redatta dall’UNHCR ( Trib. Potenza, decreto 29.11.2022 ).
Il secondo caso riguarda invece una donna di etnia rom, nata in Italia ma sprovvista di qualsiasi documento, a partire dal certificato di nascita. A tale riguardo il giudice adíto, in considerazione dell’originaria cittadinanza iugoslava dei genitori, compie un minuzioso esame delle norme sulla cittadinanza della Bosnia Erzegovina concludendo per la mancata acquisizione di tale cittadinanza da parte della ricorrente, come del resto era stato in precedenza accertato nei confronti della madre, già dichiarata apolide ( Trib. Roma, ord. 25.11.2022 ).
In una simile ipotesi, andrebbe tuttavia vagliata a nostro avviso la possibilità di acquisto della cittadinanza italiana ex art. 4 della l. n. 91/1992, pur sempre in presenza di validi strumenti di prova, come accaduto nelle fattispecie decise dal Tribunale di Roma, ord. 18.10.2022 e 6.12.2022, sopra esaminate.

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