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Fascicolo 2, Luglio 2018


«Riflettere sull’immigrazione, in fondo, significa interrogare lo Stato, i suoi fondamenti, i suoi meccanismi interni di strutturazione e di funzionamento. Interrogare lo Stato in questo modo, mediante l’immigrazione, significa in ultima analisi “denaturalizzare”, per così dire, ciò che viene considerato “naturale” e “ristoricizzare” lo Stato o ciò che nello Stato sembra colpito da amnesia, cioè significa ricordare le condizioni sociali e storiche della sua genesi. La “naturalizzazione” dello Stato, come la percepiamo in noi stessi, opera come se lo Stato fosse un dato immediato, come se fosse un oggetto dato di per sé, per natura, cioè eterno, affrancato da ogni determinazione esterna, indipendente da ogni considerazione storica, indipendente dalla storia e dalla propria storia, da cui si preferisce separarlo per sempre, anche se non si smette di elaborare e di raccontare questa storia. L’immigrazione – ed è questo il motivo per cui essa disturba – costringe a smascherare lo Stato, a smascherare il modo in cui lo pensiamo e in cui pensa se stesso».

(A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, prefazione di P. Bourdieu, ed. it. a cura di S. Palidda, Milano, Raffaello Cortina, 2002).

Ammissione e soggiorno

Il reddito per il permesso di soggiorno
Le sentenze di seguito pubblicate affrontano ancora l’annosa e aperta questione del reddito che il cittadino straniero deve dimostrare per conseguire il rinnovo del permesso di soggiorno.
Fermo l’onere per il richiedente di dimostrare la percezione di un reddito lavorativo idoneo ad assicurargli il mantenimento durante la permanenza sul suolo nazionale, la sentenza di seguito richiamata ha precisato che saltuarie interruzioni dell’attività lavorativa non determinano il venir meno del medesimo requisito reddituale.
 
Invero, la sentenza n. 224/2018 del Consiglio di Stato ha riguardato il caso di un cittadino tunisino che – richiesto il rinnovo di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro scaduto nel 2012 – ha visto rigettare la sua istanza sul presupposto dell’insufficienza del reddito percepito. La questura ha accertato, sulla base della documentazione allegata alla domanda di rinnovo, che il richiedente ha svolto attività lavorativa per soli sei mesi ed ha percepito un reddito di poco superiore a € 3000 in tale periodo. Ciò che la questura ha ritenuto dimostrativo del mancato possesso di un reddito adeguato al proprio mantenimento. Il ricorso proposto avverso il provvedimento di diniego è stato rigettato dal giudice di primo grado. Il Consiglio di Stato ne ha riformato le statuizioni, rilevando che, per consolidata giurisprudenza, il d.lgs. n. 286/1998 non richiede il possesso assoluto ed ininterrotto del requisito reddituale, potendovi essere periodi di totale o parziale interruzione dell’attività lavorativa, con conseguente carenza di reddito, «purché tali periodi siano limitati nel tempo e non determinino una definitiva perdita della capacità di produrre reddito». Su tali basi il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso e riformato la sentenza di primo grado.
 
Nella sentenza 770/2018 il Consiglio di Stato riformando la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso ritenendo che «il ricorrente non ha i requisiti di reddito minimo né per il rinnovo del permesso di lavoro subordinato, richiesti ai sensi dell’art. 13, co. 2, d.p.r. 394/1999, né il reddito minimo nè gli altri requisiti previsti dall’art. 26, co. 2, d.lgs. 286/1998 per il rilascio di permesso per lavoro autonomo» e considerando irrilevante ai fini della valutazione il contratto di lavoro a tempo indeterminato nelle more sopravvenuto, ha precisato che non si può escludere la rilevanza del sopraggiungere di nuovi elementi sulla base del mero calcolo delle retribuzioni sino alla data di emissione del provvedimento impugnato, ma occorre operare una valutazione prognostica circa la stabilità e effettività del rapporto lavorativo instaurato e la conseguente possibilità di ricavarne, su base annuale, un reddito non inferiore al minimo di legge.
 
L’ostatività delle condanne
In materia di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per reati ostativi, il Consiglio di Stato, come si legge nelle sentenze di seguito pubblicate, mantiene fermo l’orientamento che, escludendo l’applicazione automatica della causa ostativa, ritiene necessari il bilanciamento di interessi e la valutazione da parte dell’Amministrazione di determinati criteri, quali i legami familiari, la tutela dei figli minori, il radicamento in Italia, ex art. 5, co. 5 TU 286/98.
 
Nella sentenza 1092/2018 il Consiglio di Stato ribadisce il principio secondo il quale la valutazione comparativa richiesta dall’art. 5, co. 5, del TU d.lgs. 286/1998, qualora l’intero nucleo familiare dello straniero sia radicato in Italia e non vi sia alcun legame nel Paese d’origine, non può limitarsi a postulare la prevalenza delle esigenze di tutela della collettività, in ragione delle caratteristiche del reato commesso, ma deve anche formulare un giudizio prognostico ex ante circa la verosimile probabilità che la condotta illecita sia reiterata dallo stesso trasgressore con la conseguente diffusione di un ulteriore allarme sociale (cfr., inter alias, Cons. Stato, III, n. 5449/2017; 4492/2016). Nel caso in esame ha accolto l’appello proposto dal cittadino straniero avverso la sentenza con cui il Tar del Veneto aveva ritenuto legittimo il provvedimento di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per essere stato condannato alla pena di mesi 11 di reclusione ed euro 300 di multa per il reato di rapina e per essere stato deferito per il reato di falsità materiale e uso di atto falso, in quanto trovato alla guida di autovettura con patente falsa. Il questore di Verona, ancorché agli atti risultasse la presenza sia del figlio in età scolare, sia della moglie in attesa del rilascio del permesso, reputava «ampiamente superiore la tutela dell’interesse pubblico affinché non permangano sul territorio nazionale soggetti condannati e gravati da precedenti di polizia rispetto alla durata del loro soggiorno nel territorio nazionale». Per il Consiglio di Stato, invece, «l’esistenza di una condanna, per quanto relativa ad un reato grave e tale da comportare allarme sociale, non è ritenuta dall’art. 5, co. 5, cit., di per sé sufficiente a giustificare il diniego, così esonerando dall’onere di ulteriore motivazione, qualora sussistano legami familiari ed una stabile permanenza in Italia».
 
Tale orientamento è ulteriormente ribadito nella sentenza 1313/2018 nella quale si sottolinea che «in presenza di circostanze rilevanti ai sensi dell’art. 5, co. 5, secondo periodo, del d.lgs. 286/1998 – quali il ricongiungimento familiare con la moglie e la formazione di un nucleo familiare con figli nati nel nostro Paese, oltre ad un periodo prolungato di regolare residenza – non è sufficiente il richiamo a condanne ostative al rinnovo del permesso di soggiorno, ma è necessaria una espressa valutazione di pericolosità sociale ai sensi delle disposizioni del medesimo art. 5, co. 5, secondo periodo, rafforzate dalla interpretazione integratrice di cui alla sentenza della Corte costituzionale 18.7.2013 n. 202 e dalla conseguente oramai consolidata giurisprudenza amministrativa».
 
La rilevanza del tempo trascorso in Italia
La sentenza che segue è certamente innovativa in quanto supera la preclusione alla trasformazione del permesso provvisorio ex art. 31, co. 3 TU 286/98 (per assistenza minori), offrendo un’analisi complessiva delle disposizioni dell’intero TU immigrazione e dando rilievo al tempo di permanenza regolare in Italia del cittadino straniero al fine di acquisire un nuovo e diverso permesso, a prescindere dal motivo che ha consentito quello originario.
Con sentenza n. 2935/2018 il Tribunale amministrativo per il Lazio ha annullato un provvedimento con cui il questore di Viterbo aveva negato la conversione del permesso di soggiorno da «assistenza minore», ex art. 31, co. 3 TU 286/98, a «lavoro» perché esclusa dalla legge (art. 29, co. 6 TU immigrazione). Il caso riguardava una donna straniera arrivata in Italia nel 1996 ancora minorenne e divenuta madre, sempre da minorenne, nel 1997. Accolta inizialmente, insieme al figlio in una casa-famiglia e successivamente in altra struttura, una volta divenuta maggiorenne l’interessata ha chiesto al Tribunale per i minorenni l’autorizzazione ex art. 31, co. 3 TU 286/98 per potere esercitare la responsabilità genitoriale sul figlio, nel frattempo affidato ad altra famiglia. Autorizzazione che le è stata rilasciata e più volte rinnovata, fino alla maggiore età del figlio (nel frattempo adottato dalla famiglia affidataria). Non potendo più conseguire la suddetta speciale autorizzazione, la cittadina straniera ha chiesto al questore la conversione del titolo di soggiorno da «assistenza minori» a lavoro, dimostrando di avere i requisiti per quest’ultimo. Richiesta negata, come detto, perché esclusa dalla legge.
Il TAR Lazio, tuttavia, ha annullato detto provvedimento confermando l’impossibilità di conversione (esclusa dall’art. 29, co. 6 TU 286/98) ma censurando l’omessa valutazione dei requisiti per il rilascio di un diverso titolo di soggiorno. Dopo avere descritto la natura temporanea ed eccezionale del permesso per «assistenza minori», il giudice regionale afferma la rilevanza della permanenza regolare in Italia protrattasi nel tempo e «Tale circostanza non può essere irrilevante per l’ordinamento, perché determina una stabilizzazione di fatto della posizione del cittadino extracomunitario», con la conseguenza che quella stabilizzazione diventa presupposto per chiedere il rilascio del permesso «a titolo diverso», come ad esempio, secondo il Tar, anche il permesso di lungo soggiorno ex art. 9, TU immigrazione, se sussistenti i requisiti previsti dalla legge per il suo rilascio.
Secondo il Tar Lazio «Una diversa lettura delle norme risulterebbe irragionevole perché finirebbe con il negare ogni possibilità di stabilizzazione a soggetti regolarmente soggiornanti in Italia anche da dieci e più anni, che ben possono avere instaurato solidi legami negli ambienti lavorativo, sociale e familiare. Pretendere di trascurare tutto ciò, in ossequio alla precarietà del titolo di soggiorno originariamente ottenuto, risulterebbe contrastante con la situazione di fatto consolidatasi nel tempo e ingiustamente penalizzante per lo straniero che, da lungo periodo regolarmente soggiornante nel nostro Paese, sia in possesso di tutti i requisiti per ottenere il permesso di soggiorno ad altro titolo; e ciò in nome di una originaria precarietà che il trascorrere del tempo ha fatto venir meno (Cfr. anche Tar Firenze, sez. II, 28 marzo 2014, n. 602; Tar Milano, sez. IV, 24 settembre 2010 n. 6461)».
 
L’edilizia e le strutture di accoglienza
Con le due sentenze di seguito citate, il Tar Toscana si è occupato della rilevanza urbanistica dell’attività di accoglienza dei richiedenti asilo. Entrambe le pronunce affermano che l’insediamento di una struttura di accoglienza all’interno di strutture temporanee appositamente allestite ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 142/2015 non comporta modifica della destinazione d’uso assegnata all’immobile.
In particolare, nel caso deciso da Tar Toscana, sez. III, n. 153/2018, i proprietari di un immobile adibito a Centro temporaneo di accoglienza richiedenti protezione internazionale (ex art. 11 d.lgs. n. 142/2015) hanno realizzato sul medesimo talune opere (quali tramezzature ed interventi di adeguamento impiantistico) volte ad adeguarlo alle esigenze abitative degli ospitati. Senonché, la competente autorità comunale – ritenuto che dette modifiche edilizie dessero luogo ad un cambio di destinazione d’uso dell’immobile – ne ha ingiunto la demolizione. I proprietari sono dunque insorti avverso l’ordine di rimessione in pristino e gli atti presupposti.
Il Tribunale amministrativo regionale ha accolto il gravame, rilevando la fondatezza della censura con cui i ricorrenti hanno sostenuto l’inidoneità dell’insediamento del suddetto Centro di accoglienza a configurare un cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante dell’immobile.
Nello specifico, ha rilevato che – secondo la lettera del citato articolo 11 – l’utilizzazione di un immobile a fini di accoglienza temporanea non presuppone che lo stesso presenti destinazione d’uso ricettiva, bensì richiede un mero allestimento idoneo ad assicurare le esigenze essenziali di accoglienza (come meglio specificate dall’art. 10 del d.lgs. n. 142/2015). E tale allestimento – data anche la sua temporaneità – non comporta una definitiva trasformazione tipologica del fabbricato, per la quale debba ritenersi necessaria la previa acquisizione di apposito titolo abilitativo.
 
Alle medesime conclusioni è giunto anche Tar Toscana, sez. III, n. 809/2018, la quale ha definito il giudizio instaurato dalla società esecutrice del servizio di prima accoglienza di 24 cittadini stranieri (e locataria dell’unità immobiliare a ciò adibita) per contestare l’ordine comunale di demolizione delle opere edilizie realizzate al fine di adeguare l’immobile suddetto alle esigenze di accoglienza.
Tale pronuncia ha dunque ribadito che «l’ospitalità temporanea richiede infatti un mero “allestimento” atto ad assicurare le esigenze essenziali dell’accoglienza e non certo tale da comportare una definitiva trasformazione tipologica del fabbricato (che richiederebbe, invece, un apposito titolo edilizio)» Inoltre ha precisato che: «La struttura di prima accoglienza non è assimilabile all’attività commerciale destinata al turismo, trattandosi di servizio straordinario emergenziale svolto per conto della prefettura. Né potrebbe sostenersi l’inquadramento giuridico dei Centri di accoglienza nelle strutture turistico ricettive ai sensi della l.r. n. 86/2016 facendo leva sulla circolare regionale dell’11.9.2015, in quanto quest’ultima fa riferimento alla normativa sugli ostelli per la gioventù o sulle case per ferie (artt. 35 e 36 del regolamento della giunta regionale n. 18 del 23.4.2001) al solo scopo di stabilire un parametro di riferimento per la valutazione dell’adeguatezza igienico sanitaria dei locali destinati all’accoglienza dei migranti».

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