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Asilo e protezione internazionale

LO STATUS DI RIFUGIATO

Appartenenza ad un particolare gruppo sociale

La Suprema Corte, con  ordinanza n. 11091 del 2023 , decidendo sul ricorso proposto da una cittadina della Nigeria, vittima di un’accertata clitoridectomia, ha ribadito che il rischio di assoggettamento a pratiche di mutilazioni genitali femminili (MGF) può integrare gli estremi di un atto persecutorio per motivi di appartenenza ad un gruppo sociale

, rappresentando dette pratiche per la persona che le subisce o rischia di subirle, un trattamento oggettivamente inumano e degradante ove sia accertato che il fenomeno venga praticato, nel contesto sociale e culturale del Paese di provenienza, al fine di realizzare un trattamento ingiustamente discriminatorio, diretto o indiretto, della donna. In tali casi, ha sottolineato la Corte, possono sussistere, in relazione alla previsione di cui all’art. 7, lett. a) ed f), del d.lgs. n. 251 del 2007, anche i presupposti per la concessione dello status di rifugiato.

Ancora in merito al tema delle mutilazioni genitali, la Corte di cassazione, con  ordinanza n. 762 del 2023 , ha cassato la decisione della Corte di merito che aveva escluso la sussistenza dei requisiti per la protezione maggiore solo in considerazione del fatto che il pericolo di pregiudizio connesso alla mutilazione genitale sarebbe stato «privo di attualità». Nella decisione in esame si sottolinea come «la decisione del Tribunale si pone infatti in contrasto con quanto affermato sulla qualificazione delle mutilazioni genitali femminili quale forma di violenza di genere da organismi internazionali nonché dalla giurisprudenza di legittimità».

Il Tribunale di Torino, con  decreto del 10.2.2023 , decidendo sul ricorso proposto da una donna tunisina che aveva subito gravi e ripetute violazioni della sua libertà personale perpetrate dal fratello (che la aveva, altresì, più volte picchiata, giungendo anche a rapire i di lei figli), le ha riconosciuto la protezione maggiore in quanto vittima di una persecuzione personale e diretta per la sua appartenenza, in quanto donna, ad un particolare gruppo sociale. Di particolare rilievo l’analisi del requisito rappresentato dall’impossibilità di ricevere, da parte della ricorrente, una protezione effettiva dalle autorità statuali: l’esame accurato ed approfondito delle fonti di informazione più aggiornate ha portato i giudici torinesi a concludere che, nonostante la legge del 2018 punisca espressamente la violenza di genere, la risposta delle forze dell’ordine e del sistema giurisdizionale continua ad essere del tutto inefficace.

Anche il Tribunale di Salerno –  decreto del 29.12.2022  – si è pronunciato sul fattore di inclusione relativo al particolare gruppo sociale, nella forma delle donne vittime di violenza di genere. In particolare, il Collegio ha affermato che la ricorrente – giovane donna tunisina costretta ad abbandonare la dimora familiare per sfuggire alle violenze del padre dopo essersi fermamente opposta alla volontà di quest’ultimo che la voleva sposa del proprio creditore, sola e priva dell’appoggio della madre convivente, stigmatizzata socialmente – aveva subito forme di vessazioni tali da configurare una forma di persecuzione personale e diretta per l’appartenenza a un gruppo sociale, quello delle donne, nella forma di «atti specificatamente diretti contro un genere sessuale» e le ha riconosciuto lo status di rifugiata.

Con  decreto del 16.3.2023 , il Tribunale di Catania ha esaminato la domanda spiegata da un giovanissimo cittadino del Gambia, giunto in Italia quando era ancora minorenne. Il ricorrente, dopo aver vissuto in strada in condizioni di totale abbandono sin dall’età di dodici anni, era stato vittima di tratta per finalità di sfruttamento sessuale e della prostituzione. In merito alla qualificazione del fattore di inclusione, nel decreto si legge che «i minori in stato di abbandono possono essere considerati “particolare gruppo sociale” e che, nella specie, il ricorrente fu individuato come vittima dall’agente di persecuzione in ragione della sua appartenenza alla categoria, particolarmente vulnerabile, di “bambino di strada”, abbandonato dalla famiglia, e dell’assenza di tutela da parte delle autorità interne». Con riferimento al rischio prognostico in caso di rimpatrio, il Collegio ha preso in esame la giovane età del richiedente asilo, l’assenza di una rete familiare e sociale in grado di supportarlo nell’ipotesi di rientro nel Paese di origine, la consapevolezza solo da poco tempo maturata in ordine allo sfruttamento subito, il vissuto di emarginazione dalla famiglia o dalla comunità e il rischio concreto di esclusione sociale e persecuzioni giudiziarie sono elementi che non consentono di escludere gravi conseguenze in caso di rimpatrio, per concludere che «la persecuzione subita, ivi compresi i trattamenti inumani e degradanti in carcere, ossia da parte delle istituzioni che avrebbero dovuto proteggere il richiedente asilo da ogni forma di abuso, non può poi non aver prodotto effetti psicologici traumatici, incidendo sul percorso di crescita e maturazione, e ciò rende inesigibile il ritorno forzoso nel Paese d’origine».

Con  decreto del 14.2.2023 , il Tribunale di Bologna, dopo aver attentamente esaminato le COI che attestano l’esistenza in Togo di un diffuso clima omofobo con diffuse persecuzioni a danno dei membri della comunità LGBTQI+ e la criminalizzazione dei rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso, ha riconosciuto la protezione maggiore ad un cittadino del Togo, fuggito dal Paese d’origine per sfuggire alle persecuzioni personali conseguenti alla scoperta del proprio orientamento omosessuale.

Il particolare gruppo sociale delle persone affette da albinismo è stato preso in esame dal Tribunale di Milano. Con  decreto del 30.3.2023 , decidendo sul ricorso proposto da un cittadino egiziano affetto da albinismo, i giudici meneghini hanno affermato che le persone affette da albinismo possono essere considerate come accomunate da una caratteristica innata: «l’albinismo, infatti, è una condizione rara, non contagiosa ed ereditata geneticamente che colpisce persone in tutto il mondo, indipendentemente dall’etnicità e dal genere. È la conseguenza di un deficit significativo nella produzione di melanina ed è caratterizzata dall’assenza parziale o totale di pigmento nella pelle, nei capelli e negli occhi». In particolare, è stato osservato come il ricorrente sia stato vittima di ripetute forme di discriminazione, di stigmatizzazione e di pratiche violente legate alle accuse di stregoneria, non potendo contare sulla tutela dello Stato egiziano che, seppur formalmente dotato di una debole legislazione, non ha un sistema normativo in grado di proteggere il ricorrente.

Il Tribunale di Bologna, con  decreto del 27.1.2023 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Ghana affetto da un grave disturbo mentale. Le fonti internazionali consultate dal Collegio hanno rivelato come, nel Paese d’origine del ricorrente, le persone con disturbi mentali vengano colpevolizzate per la loro condizione, esposte al rischio concreto di essere sottoposti a trattamenti sanzionatori o, comunque, a metodi di cura forzati per liberarli da quelle che vengono considerate «influenze negative» e subiscano forme di stigmatizzazione sociale che integrano veri e propri atti di persecuzione.

Sul gruppo sociale dei rifugiati bhutanesi di etnia nepalese si è pronunciato il Tribunale di Trieste che, con  decreto del 5.5.2023 , ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna proveniente dal Nepal, priva di alcuna cittadinanza, figlia di due rifugiati del Buthan. Nella decisione in esame, all’esito di una complessa ed accurata ricostruzione delle fonti relative al trattamento dei rifugiati bhutanesi in Nepal, è stato chiarito che gli appartenenti a tale gruppo sociale sono e sono stati, per la loro storia immutabile, trattati in modo estremamente diverso dal resto della popolazione nepalese, in quanto sono stati confinati in campi profughi, fisicamente separati dal resto della popolazione, e resi destinatari di specifici provvedimenti delle Autorità, per la disciplina del cibo loro spettante, dell’istruzione, del lavoro autorizzato, che, in generale, ostacolano, con precisa volontà politica in tal senso, la loro piena integrazione nel tessuto sociale. È stato altresì evidenziato come il «Governo nepalese ha specificato, proprio con riferimento a tale categoria di persone, che non vi è l’intenzione di integrarla al resto della popolazione ed è stata ipotizzata una specifica misura (l’introduzione del PAN) che permetterebbe a tali soggetti di svolgere solo determinate tipologie di attività lavorative, con la conseguenza che continuano ad essere negati l’accesso all’istruzione, alla sanità e al resto delle attività lavorativa e di iniziativa economica. È dunque evidente che la mancata volontà dello Stato nepalese di riconoscere ai rifugiati provenienti dal Bhutan la maggior parte dei diritti sociali in Nepal è legata alla particolare situazione dei rifugiati provenienti dal Bhutan e delle loro famiglie, che li ha portati ad essere esclusi e sradicati dallo Stato bhutanese». Le predette considerazioni hanno portato il Collegio triestino a ravvisare l’attualità del pericolo per la ricorrente di rimanere priva della possibilità di vedere attuati e tutelati i suoi diritti fondamentali in Nepal ed il conseguente diritto al riconoscimento dello status di rifugiato.

Religione

La Suprema Corte, nell’ ordinanza n. 3440 del 2022 , ha affrontato le questioni relative alla libertà di aderire ad un’associazione religiosa ritenuta «culto maligno» in Cina, per poi chiarire che il parametro di legalità delle condotte statuali non può mai essere l’ordinamento interno ed i limiti dallo stesso posti. Con specifico riferimento a tale ultimo aspetto, i giudici di legittimità hanno chiarito che, per accertare la sussistenza di una persecuzione tutelabile mediante lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria non può assumersi come parametro di legalità delle condotte statuali l’ordinamento interno ed i limiti all’interno del quale si possono esercitare le libertà democratiche e non vedere violati i propri diritti umani, atteso che: «Se così fosse nessun cittadino straniero proveniente anche dal più retrivo Stato totalitario potrebbe trovare protezione internazionale, dal momento che condotte persecutorie per ragione di religione, politici, etnici o di appartenenza ad un gruppo sociale sarebbero giustificate perché previste dalla legge. Allo stesso modo il divieto di esercizio di libertà associative o religiose o l’impedimento al godimento di diritti fondamentali per ragioni politiche o per l’appartenenza ad un gruppo sociale non sarebbe mai riconducibile al diritto alla protezione internazionale ove vissuto in condizioni di segretezza o di clandestinità».

Sul fattore di inclusione relativo alla religione si sofferma anche il Tribunale di Brescia che, con  decreto del 1.2.2023 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino iraniano che, dopo aver inizialmente abbracciato la fede musulmana, si era convertito al cristianesimo. Nella decisione in esame, all’esito di una positiva valutazione di credibilità delle dichiarazioni del ricorrente in merito alla conversione, la sussistenza del rischio di essere sottoposti ad atti persecutori è stata affermata all’esito di un rigoroso esame delle C.O.I., dalle quali è emerso che il codice penale prevede la condanna a morte per i tentativi da parte di non musulmani di conversione ad altre religioni, che la legge vieta ai cittadini musulmani di cambiare o rinunciare alle loro convinzioni e che i cristiani in Iran sono stati bersaglio di molestie, arresti e detenzioni arbitrarie, processi iniqui e reclusione per accuse relative alla sicurezza nazionale unicamente a causa della loro fede.

 

Opinioni politiche

Il Tribunale di Brescia, con decreto emesso all’esito della Camera di Consiglio del 10.5.2022, ha deciso il ricorso proposto da un cittadino della Repubblica Democratica del Congo, riconoscendogli la protezione maggiore in ragione del rischio di essere perseguitato per le sue opinioni politiche. In particolare, il ricorrente aveva riferito di appartenere all’etnia Lari, di essere entrato a far parte del partito YUKI, di supporto al candidato presidente Guy Brice Parfait Kolela e di aver partecipato a molte manifestazioni politiche di opposizione anche in seguito alla nuova vittoria delle elezioni da parte di Sassou Nguesso. Nella decisione in esame, il Collegio bresciano ha sottolineato come gli oppositori politici del partito YUKI, al quale era iscritto il ricorrente, rappresentata dai popoli del Sud, in gran parte di etnia Lari, erano repressi con azioni che integrano gravi violazioni dei diritti fondamentali, che giustificavano il riconoscimento della protezione maggiore.

Il Tribunale di Napoli, con  decreto del 27.2.2023  ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino ucraino in ragione del rischio di subire atti persecutori in conseguenza del suo rifiuto di arruolarsi in un esercito che, come risulta dalle numerose fonti di informazione consultate dal Collegio, commette crimini di guerra e contro l’umanità. Nella decisione in esame, con particolare riferimento alle sanzioni che verrebbero inflitte agli obiettori di coscienza, viene richiamata la recente legge ucraina del 18.1.2023, in forza della quale sono state fortemente inasprite le pene per la “disobbedienza” e la diserzione dalle Forze armate in seguito all’invasione da parte della Russia.

 

LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA 

D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. c)

Il Tribunale di Torino, con  decreto del 13.1.2023 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino del Niger. Nella decisione in esame, alla luce delle più aggiornate ed accreditate fonti di informazione, si legge come in Niger vi sia una situazione di violenza generalizzata in costante peggioramento, cui il Governo non riesce in alcun modo a far fronte: «gli episodi violenti sono aumentati esponenzialmente, concentrandosi principalmente nelle regioni di Diffa, Tillabery e Tahoua; gli attori del conflitto risultano essere numerosi ed in costante evoluzione, con gruppi armati terroristici in aperto scontro tra loro per il controllo del territorio e gruppi armati di banditi al confine con la Nigeria».

Il Tribunale di Brescia, con  decreto del 18.1.2023 , decidendo sul ricorso proposto da una donna proveniente da El Salvador (che aveva espresso un timore in caso di rimpatrio legato alla presenza delle bande criminali) ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ex art. 14 lett. c) del d.lgs. n. 251 del 2007. In particolare, i giudici bresciani hanno dato atto del fatto che nello Stato di El Salvador le bande criminali sono penetrate e si sono consolidate all’interno del Paese e che le loro azioni violente e condotte delinquenziali, oltre a essersi saldamente diffuse in tutto il territorio, sono realizzate con elevata frequenza. È stata ravvisata, pertanto, una situazione di «delinquenza radicata», che ha condotto ad una intensificazione della criminalità e dell’uso e abuso di forza, caratterizzante non solo il conflitto tra bande criminali ma anche tra queste ultime e lo Stato salvadoregno, conflitti che possono coinvolgere qualsiasi cittadino ivi presente e di fronte ai quali le autorità governative non sono state in grado di proteggere la popolazione.

Il Tribunale di Firenze, con decreto emesso all’esito della  Camera di Consiglio del 22.2.2023 , in applicazione del criterio della c.d. sliding scale, ha riconosciuto la protezione sussidiaria ex art. 14 lett. c) del d.lgs. 251 del 2007 in favore di un cittadino nigeriano, originario del Delta State, che aveva riferito di aver lasciato il Paese d’origine per paura di essere nuovamente attaccato dai fulani. La condizione specifica di agricoltore del ricorrente è stata valutata dai giudici fiorentini anche alla luce dell’impatto del cambiamento climatico che, come risulta dalle fonti consultate dal Collegio, sta esacerbando le tensioni locali, proprio mentre i conflitti tra agricoltori e pastori diventano più violenti. Nella decisione in esame, in particolare, viene dato atto di come la progressiva desertificazione abbia costretto i pastori nomadi a cambiare i loro modelli migratori, provocando conflitti per l’aumento degli sconfinamenti nei terreni agricoli, in particolare nella cintura centrale del Paese.

D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. a) e b)

Il Tribunale di Torino, con  decreto dell’8.3.2023 , ha ravvisato la sussistenza di un «danno grave» in relazione alla domanda spiegata da un uomo, cittadino della Tunisia, che aveva subito violenze e minacce da parte del cognato in conseguenza della mancata restituzione di una somma di denaro (violenze che erano state esercitate anche contro la moglie del ricorrente, la quale era stata privata della libertà personale). Con riferimento alla possibilità di ricevere protezione effettiva dalle autorità statuali – requisito necessario in quanto trattasi di agente di persecuzione privato – i giudici torinesi hanno sottolineato come le c.d. C.O.I. consultate descrivano un atteggiamento poco collaborativo della polizia nell’avviare indagini in materie ritenute di risoluzione familiare, quali le violenze in ambito domestico e come, pertanto, la risposta delle forze dell’ordine e del sistema giurisdizionale sia inefficace. In merito al rischio in caso di rimpatrio, nella decisione in esame si legge che il fatto di aver già subito atti di persecuzione da parte del cognato costituisce serio indizio della fondatezza del timore della richiedente di subire persecuzioni future, ai sensi dell’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 251/2007 e che, allorquando la persecuzione patita sia stata particolarmente atroce, i perduranti effetti traumatici o psicologici rendano intollerabile il rinvio del richiedente asilo nel suo Paese d’origine.

Con  decreto del 9.2.2023 , il Tribunale di Messina ha riconosciuto la protezione sussidiaria in favore di una donna tunisina ravvisando l’esistenza di un rischio, in caso di rientro in Tunisia, di subire nuovamente atti di violenza di genere, per aver opposto, nell’esercizio della sua fondamentale libertà di autodeterminazione, un rifiuto ad un matrimonio combinato, subendo, di conseguenza, atti di violenza fisica e psichica tali da essere ricondotti, per gravità e sistematicità, nell’ambito dei trattamenti inumani e degradanti cui fa riferimento l’art. 14, lett. b), d.lgs. 251/2007.

Sul danno grave rappresentato dalla «tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante», ai sensi della lett. b) del citato art. 14, conseguente ai rischi legati alle condizioni carcerarie, si soffermano sia il Tribunale di Napoli che il Tribunale di Torino. Nella prima decisione –  decreto del 22.3.2023 , i giudici partenopei hanno ritenuto sussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria in favore di un cittadino pakistano che, dopo aver prestato servizio presso la Marina militare ed essere fuggito dal Paese d’origine per evitare la reazione dei servizi segreti pakistani (che lo avevano ritenuto coinvolto in un grave episodio accaduto nel 2013), temeva di essere accusato del reato di diserzione ed essere imprigionato in condizioni inumane e con il rischio di subire torture.

Nel caso portato all’attenzione del Tribunale di Torino –  decreto del 15.2.2023  – il ricorrente aveva dichiarato di essere fuggito dal Gambia dopo aver investito il figlio dei vicini di causa, con i quali era in corso una faida riguardante i confini dei terreni, per paura di essere processato per omicidio colposo e di subire una condanna a morte o ad una pena detentiva. Le condizioni carcerarie nel Paese d’origine, così come risultanti dalle più recenti fonti di informazione consultate dal Collegio, sono tali da far ritenere sussistente un rischio effettivo di subire un grave danno nella forma del trattamento inumano o della tortura.

Il Tribunale di Bologna, con  decreto del 16.2.2023 , chiamato a decidere sul ricorso proposto da un uomo nigeriano vittima di tratta da parte di un’organizzazione criminale che lo aveva coinvolto in un’attività internazionale di traffico di stupefacenti (partita dalla Nigeria e proseguita poi in Olanda ed in Italia), ha accertato il diritto del ricorrente alla protezione sussidiaria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 2, comma 1, lett. g) e 14 lett. b) del d.lgs. n. 251/2007 in ragione dell’effettività del rischio, per il ricorrente, di subire un danno grave ad opera dei soggetti organizzatori della tratta in caso di rientro nel Paese d’origine, pericolo per il quale lo Stato non assicura una protezione. Di particolare interesse quanto sottolineato in merito alla differenza rispetto ai presupposti richiesti per il riconoscimento dello status di rifugiato: sebbene infatti anche il ricorrente, così come le donne vittime di tratta ai fini di sfruttamento sessuale, abbia manifestato il timore di essere ucciso a causa del mancato pagamento del debito contratto per il viaggio (cui si era impegnato con un rito “juju”), nel caso in esame il timore non può ritenersi collegato a motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un gruppo sociale. Nella diversa ipotesi di donne trattate dalla Nigeria, infatti, la loro appartenenza ad un gruppo sociale rilevante per la convenzione riguarda il fatto che la loro esperienza migratoria connessa alla prostituzione le rende identificabili nel loro Paese d’origine e percepite come appartenenti al gruppo delle donne fatte prostituire all’estero.

 

QUESTIONI PROCESSUALI 

Sospensione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti emessi per manifesta infondatezza

Con  decreto del 7.4.2023 , il Tribunale di Bologna – nell’esaminare l’istanza di sospensione del provvedimento di manifesta infondatezza della domanda di protezione internazionale emesso dalla Commissione territoriale nei confronti di un cittadino guineano, giunto in Ucraina nel 2010 e fuggito da tale Paese nel 2022, in seguito all’invasione russa – ha sospeso il provvedimento impugnato, ritenendo configurabile una situazione di danno grave ed irreparabile derivante dall’allontanamento del ricorrente, che ha lasciato la Guinea ormai 13 anni fa, e che non potrebbe comunque rientrare in Ucraina, a causa del conflitto in corso.

Ancora su un’istanza di manifesta infondatezza si è pronunciato il Tribunale di Bologna –  decreto del 5.4.2023  – che ha motivato l’accoglimento dell’istanza cautelare sul rilievo che il ricorrente, proveniente dal Bangladesh e costretto a chiedere un prestito per sopravvivere, in caso di rientro nel Paese d’origine sarebbe esposto al rischio di affrontare condizioni di vita non rispettose della dignità e dei diritti fondamentali della persona. In particolare, i giudici bolognesi hanno osservato che: «il sistema dei prestiti nel Paese di origine, come allegato dal ricorrente, trova riscontro nelle C.O.I., che danno atto di quanto il fenomeno del ricorso all’usura sia in Bangladesh assai diffuso e di come molti bengalesi si trovino coinvolti in un circolo che li costringe ad indebitarsi ulteriormente per onorare il debito già esistente, restando bloccati in un ciclo vizioso in cui da una parte non sono in grado di soddisfare le proprie esigenze finanziarie, dall’altra non riescono nemmeno a rimborsare i prestiti, trovandosi in uno stato di maggiore difficoltà economica rispetto a quella in cui si trovavano prima di accedere al credito».

Con un’articolata e completa motivazione, il Tribunale di Firenze, con  decreto del 29.4.2023 , ha esaminato le questioni relative alle conseguenze connesse al superamento dei termini delle procedure accelerate da parte dell’Amministrazione ed alle conseguenze che da tale superamento derivano in merito alla sospensione automatica del provvedimento impugnato. In primo luogo, osserva il Collegio fiorentino, quando la Commissione territoriale intende emettere un provvedimento di «manifesta infondatezza», essa deve seguire una procedura definita «accelerata» i cui presupposti operativi sono delineati dall’art. 28-bis, comma 2, del d.lgs. 25 del 2008 (e tale regola vale in ogni caso delineato dall’art. 28-ter del citato decreto). In particolare, si precisa che: «nel momento in cui l’Amministrazione intenda procedere ad una valutazione di “manifesta infondatezza” ella sia onerata al rispetto dei termini della procedura accelerata. In altre parole, il rispetto della tempistica prevista dal comma 2 dell’art. 28-bis condiziona, per tutte le decisioni di manifesta infondatezza (stante il generico richiamo all’art. 28-ter contenuto nella norma), la applicabilità della deroga all’effetto sospensivo automatico della efficacia esecutiva del provvedimento impugnato determinato dalla proposizione del ricorso giudiziale». Tanto premesso, nella decisione in esame vengono ribaditi principi di portata generale, che devono guidare il giudice nell’interpretazione della normativa (anche in seguito alla novella del 2018): «in primo luogo, è necessario che “ciascun richiedente abbia un accesso effettivo alle procedure”; affinché ciò si realizzi il richiedente deve poter essere messo in condizione di “cooperare e comunicare correttamente con le autorità competenti” e deve poter disporre “di sufficienti garanzie procedurali per far valere i propri diritti in ciascuna fase della procedura”. In secondo luogo, al richiedente debbono essere fornite “garanzie supplementari nei casi in cui il suo ricorso non abbia un effetto sospensivo automatico”».

A medesime conclusioni giunge il Tribunale di Firenze, in altra composizione, che, con  decreto del 30.3.2023 , osserva come la lettura necessariamente restrittiva delle eccezioni alla regola generale dell’effetto sospensivo automatico legato alla proposizione del ricorso, contenute nelle lettere c) e b) dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008 porti a ritenere che sia nei casi di provenienti da Paesi sicuri in cui non è stata attivata la speciale procedura accelerata ex art. 28-bis del citato decreto ma la procedura ordinaria, sia nel caso in cui i tempi e i termini della procedura accelerata non siano stati rispettati quando invece nel caso di specie il sistema li prevede non possa concretarsi l’esclusione dell’effetto sospensivo automatico dell’impugnativa giudiziale.

Il Tribunale di Bologna, con  decreto del 23.3.2023 , ha ravvisato la sussistenza delle «gravi e circostanziate ragioni» per sospendere l’efficacia esecutiva del provvedimento di manifesta infondatezza del ricorso proposto da un cittadino del Marocco (designato Paese di origine sicura) con riferimento alla condizione di sicurezza del Paese d’origine del ricorrente (interessato, come risulta dalle fonti indicate dal Collegio, da un numero non irrilevante di «eventi» e di correlati decessi) ed all’integrazione raggiunta in Italia, meritevole di protezione ai sensi dell’art. 8 CEDU.

Ancora con riferimento ad un ricorrente proveniente da un Paese c.d. di origine sicura (nel caso di specie la Tunisia), il Tribunale di Torino, con  decreto del 30.3.2023 , ha affermato che le fonti di informazione consultate rivelano una condizione di insicurezza tale da giustificare, nella fase cautelare in corso, la sospensione del provvedimento di manifesta infondatezza.

Udienza di comparizione ed audizione del ricorrente

La Suprema Corte, con  ordinanza n. 10551 del 2023  è tornata a pronunciarsi sul tema dell’omessa audizione del richiedente protezione. In particolare, nel caso portato all’attenzione della Corte, il ricorrente, di origine nigeriana, dopo aver riferito di essere fuggito temendo di subire violenze da parte della setta degli Ogboni, aveva chiesto di essere ascoltato dal Tribunale anche su ulteriori circostanze (diverse da quelle relative alle minacce subite dai membri della setta) quali le torture subite in Libia e la condizione di sfruttamento lavorativo in Italia. I giudici di legittimità, cassando con rinvio la decisione impugnata, hanno affermato che, a fronte dell’indicazione puntuale dei fatti dedotti dal richiedente a sostegno dell’istanza di audizione, il Tribunale avrebbe dovuto disporre tale incombente istruttorio, al fine di valutare la ricorrenza o meno dei presupposti per il riconoscimento della protezione speciale.

Ancora in merito all’audizione del richiedente protezione, la Suprema Corte, con  ordinanza n. 1089 del 2023 , nel cassare la decisione di merito che, dopo aver definito le dichiarazioni del ricorrente «inverosimili» e «gravemente lacunose», senza aver ascoltato il ricorrente, ha affermato che laddove il giudice ritenga le dichiarazioni del richiedente asilo lacunose e contraddittorie, è tenuto a disporre l’audizione per acquisire chiarimenti e integrazioni, all’esito dei quali applicare i criteri per la valutazione della prova contenuti nell’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007.

Valutazione di credibilità

La Corte di cassazione, con  ordinanza n. 762 del 2023 , si è pronunciata sulla questione relativa alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni rese da una ricorrente vittima di tratta ai fini di sfruttamento sessuale. Nel provvedimento impugnato, il Tribunale aveva ritenuto non credibile il racconto della ricorrente (che aveva riferito di esser stata affidata ad uno zio, che la aveva dapprima maltrattata e poi ceduta ad un uomo che la aveva condotta in Libia e poi venduta ad una connection house, dove aveva subito ed assistito a plurime violenze), alla luce di contraddizioni relative al periodo di permanenza in Libia ed al timore in caso di rimpatrio. La Suprema Corte, con riferimento alla ritenuta non attendibilità del racconto, ha precisato che il Tribunale non avrebbe dovuto fondare tale valutazione su singole circostanze (quali, la data di trasferimento dallo zio, la permanenza dalla signora in Libia, il timore di rimpatrio a causa delle minacce del trafficante), ma avrebbe dovuto considerare la complessità del racconto, valutando anche se taluni aspetti di «poca chiarezza» potessero essere sintomatici della presenza degli indicatori di tratta.

Sul tema della valutazione di credibilità è tornata anche la Suprema Corte, con  ordinanza n. 9858 del 2023 , affermando che ai fini della credibilità delle dichiarazioni del richiedente (nel caso in esame una cittadina cinese che aveva affermato di essere stata sottoposta a persecuzione religiosa), non è sufficiente la mera valutazione soggettiva da parte del giudice, dovendo quest’ultima trovare riscontro oggettivo nel vaglio del racconto da compiersi secondo la procedimentalizzazione tracciata dagli artt. 3 d.lgs. n. 251 del 2007 e 8 d.lgs. n. 25 del 2008 e risolta, ove risulti non suffragata da prove, alla stregua dei criteri delineati nell’art. 3, comma 5, d.lgs. n. 251 del 2007.

Con particolare riferimento alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni rese da un ricorrente che ha riferito di essere fuggito dal Paese d’origine perché omosessuale, la Corte di cassazione, con  ordinanza n. 10790 del 2023 , ha affermato che la valutazione del rischio per l’incolumità del richiedente omosessuale in caso di rimpatrio deve essere considerata in chiave oggettiva e complessiva, prescindendo dalle ragioni che lo hanno indotto ad emigrare, risultando irrilevante che detto orientamento sia sorto in un momento successivo alla sua partenza dando così luogo ad una esigenza di protezione sur place. Nella decisione in esame, inoltre, è stato precisato che in nessun caso, inoltre, le modalità di espressione dell’inclinazione sessuale del richiedente possono condizionare la valutazione di credibilità del racconto, in quanto la libera scelta sessuale costituisce uno dei principali profili in cui si realizza l’esplicazione della personalità umana, dovendo il giudice procedere alla valutazione di verosimiglianza del racconto in base ai criteri di cui all’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007, tenendo altresì conto «della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente», non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati.

Dovere di cooperazione istruttoria e C.O.I.

La Corte di cassazione, in merito al rapporto tra valutazione di credibilità e dovere di cooperazione istruttoria, con  ordinanza n. 11058 del 2023  ha affermato che il giudizio negativo in merito alla valutazione di credibilità del richiedente asilo non può in alcun modo essere posto a base, ipso facto, del diniego di cooperazione istruttoria cui il giudice è obbligato ex lege, in quanto quel giudice non sarà mai in grado, ex ante, di conoscere e valutare correttamente la reale ed attuale situazione del Paese di provenienza del ricorrente. Nella decisione in esame, la Corte ha cassato la decisione del Tribunale che, ritenuto non credibile il racconto di un ricorrente pakistano, che aveva riferito di essere fuggito dal Paese d’origine per sfuggire alle aggressioni perpetrate nei suoi confronti da appartenenti al gruppo dei Mujahideen, dopo l’uccisione del padre e del fratello, non aveva assolto al dovere di cooperazione istruttoria in relazione alla dichiarata impossibilità di effettuare una denuncia dei fatti alle autorità di polizia.

A diverse conclusioni giunge invece la Suprema Corte nell’ ordinanza n. 2667 del 2023  laddove afferma che la valutazione di credibilità della narrazione, pur dovendo essere condotta attraverso un’integrazione da parte del giudice, deve comunque fondarsi su canoni minimi di verosimiglianza: ove, invece, il racconto del richiedente asilo risulti affetto da estrema genericità o da importanti contraddizioni interne, non è necessario procedere ad un approfondimento istruttorio ufficioso, nè alla ricerca delle c.d. C.O.I., poiché manca una storia individuale attendibile rispetto alla quale valutare la coerenza esterna, la possibilità e il livello di rischio.

Spese di lite

Con  ordinanza n. 11125 del 2023 , la Corte di cassazione ha precisato che i procedimenti in materia di protezione internazionale non sono sottratti all’applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e che, pertanto, in caso di accoglimento della domanda, l’omessa statuizione sulle spese di lite integra una lesione del diritto costituzionale (artt. 24 e 111 Cost.) ad una tutela giurisdizionale effettiva che rende la motivazione illogica. La Corte territoriale (con decisione cassata dai Giudici di legittimità), dopo aver accolto la domanda di protezione internazionale, non si era pronunciata sulle spese di lite «tenuto conto della natura della controversia» e del fatto che la Pubblica amministrazione si era «costituita in giudizio a mezzo dei propri funzionari».

 

VISTO DI REINGRESSO PER TITOLARE DI PROTEZIONE SUSSIDIARIA

Il Tribunale di Roma, con ordinanza 10.2.2023 RG. 75832/2022  ha accolto il ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., a cittadino libico a cui era stata riconosciuta la protezione sussidiaria ma che, nelle more del procedimento di richiesta del permesso di soggiorno, era stato costretto a rientrare temporaneamente in Libia in conseguenza dell’uccisione del fratello, annunciatogli da personale della Missione UNSMIL (United Nations Support Mission in Libya). Visto di reingresso negatogli dall’Ambasciata per effetto del parere negativo della questura basato su una ritenuta incompatibilità del rientro in Libia con la protezione riconosciutagli e anche perché non aveva mai conseguito il permesso per protezione sussidiaria.

Dopo amplissima ricostruzione in fatto, il Tribunale ha accertato il diritto al reingresso in Italia del titolare di protezione sussidiaria, evidenziando che era documentata la sua richiesta di appuntamento per la formalizzazione del permesso ma soprattutto che «Il rifiuto al reingresso non può invero fondarsi sull’assenza del titolo di soggiorno, considerate le copiose allegazioni documentali del richiedente, dalle quali si evince la titolarità della protezione riconosciuta dallo Stato italiano e le ragioni del mancato possesso del titolo, nonché le gravi e urgenti ragioni che lo hanno condotto a far rientro nel Paese di origine, come anche documento da diverse relazioni del personale della Missione UNSMIL (United Nations Support Mission in Libya), allegate in atti.». Secondo il Tribunale, dunque, «non consentire il reingresso del ricorrente, titolare di protezione sussidiaria, si sostanzia nell’impedimento di fatto all’esercizio del diritto fondamentale a questo riconosciuto e in uno svuotamento del diritto d’asilo sancito a livello costituzionale dall’art. 10 Cost.». La decisione in commento non entra nel merito della tipologia di visto da rilasciare, cioè se ex art. 25 Regol. UE n. 810/2009 o di altro tipo, lasciando alla Pubblica amministrazione l’individuazione degli atti ritenuti necessari a consentire comunque il suo immediato ingresso nel territorio nazionale.

 

LA PROTEZIONE UMANITARIA e LA PROTEZIONE SPECIALE

Questo numero della Rivista viene pubblicato dopo l’emanazione del d.l. n. 20/2023, convertito con modifiche in legge n. 50/2023, che ha riformato radicalmente vari istituti del diritto dell’immigrazione e dell’asilo, tra i quali la protezione speciale di cui all’art. 19, commi 1, 1.1 e 1.2 TU d.lgs 286/98. Riforma che, per quanto riguarda questa peculiare tutela, pone una serie di problematiche e criticità sulle quali non è, ovviamente, ancora intervenuta la giurisprudenza e pertanto si pubblicano di seguito le pronunce più rilevanti emesse alla luce della previgente disciplina, la quale, va precisato, continua ad applicarsi (quantomeno) per tutte le domande presentate prima dell’11 marzo 2023, data di entrata in vigore del d.l. n. 20/2023 ma che potrà essere di orientamento anche nel nuovo regime normativo. L’art. 19 TU 286/98, infatti, contiene divieti di espulsione, respingimento ed estradizione, i quali proteggono di per sé la persona straniera, al di là del procedimento amministrativo che l’odierno legislatore ha voluto delimitare.

Protezione speciale e divieto di refoulement

Con   decreto 14.9.2022 il Tribunale di Brescia (RG. 10994/2019)  ha riconosciuto a richiedente asilo dell’Afghanistan la protezione speciale in espresso riferimento al principio di non refoulement, di cui all’art. 19, commi 1 e 1.1 prima parte TU d.lgs. 286/98. Il giudice bresciano ha, innanzitutto, censurato attraverso specifiche COI il giudizio di non credibilità soggettiva espresso dalla Commissione territoriale, che aveva dubitato della stessa provenienza afghana del richiedente anche sotto il profilo linguistico ed etnico. Quanto alle forme principali di protezione internazionale sono stati esclusi sia il rifugio politico che la protezione sussidiaria per insussistenza dei presupposti soggettivi (quanto al fondato timore di persecuzione) e perché non rinvenuto nel Paese un conflitto armato dopo la presa di potere del governo talebano. Il Tribunale ha, invece, riconosciuto la protezione speciale in quanto dalle COI consultate è emerso che l’Afghanistan è caratterizzato da plurime, acclarate e diffuse violazioni dei diritti umani, tali da integrare i presupposti del divieto di refoulement di cui all’art. 19, co. 1.1 TU 286/98, ovverosia un diritto inderogabile contenuto in molteplici fonti normative, nazionali e internazionali. Secondo il Tribunale «Questa norma, in uno ai vincoli ordinamentali di natura sovranazionale e internazionale, esprime il divieto di respingimento, espulsione o estradizione, ogniqualvolta vi sia il rischio concreto ed attuale che lo straniero o l’apolide possa subire un pregiudizio in relazione a beni giuridici fondamentali, quali la vita e l’integrità fisica, dipendenti anche da fattori oggettivi esterni alla sua persona (situazioni di grave instabilità sociopolitica caratterizzata da generalizzata violenza, generalizzate e gravi violazioni dei diritti umani, carestie o disastri ambientali o naturali etc.)». Il giudice lombardo ha valorizzato anche l’avvio del percorso di integrazione sociale del richiedente, dimostrato dalla sia pur precaria attività lavorativa stagionale svolta e da attività di volontariato.

Sempre il Tribunale di Brescia, con decreto 8.2.2022 (RG. 7971/2021) , ha riconosciuto a richiedente asilo della Nigeria (che aveva reiterato la domanda di protezione internazionale) la protezione speciale in riferimento al divieto di refoulement e nello specifico al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti in quanto proveniente dal Delta State. Attraverso specifiche COI il Tribunale ha ritenuto, infatti, che «la situazione di grave instabilità ed insicurezza che, come segnalato dai più recenti report internazionali, connota ora il Delta State, è tale da integrare una condizione di vulnerabilità oggettiva valorizzabile ai fini del non refoulement. Per cui il ricorrente, in caso di rimpatrio, rischierebbe di subire un pregiudizio rispetto a beni giuridici fondamentali, tra cui – su tutti – l’incolumità.».

Con  ordinanza 24.2.2023 RG. 6775/2021 il Tribunale di Bologna ha censurato il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno umanitario a cittadino del Senegal, originario della regione della Casamance, avendo accertato, attraverso ampie COI, che il rimpatrio in quella regione esporrebbe il richiedente al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti. Le informazioni sul Paese di origine consultate dimostrano, infatti, che la Casamance è ancora caratterizzata da forte insicurezza, a causa di quello che è definito conflitto a bassa intensità che tuttavia perdura da anni, con uno stallo del dialogo in corso da anni tra lo Stato senegalese e i gruppi separatisti, anche se gli incidenti sono diminuiti. L’incertezza della situazione, unitamente alla persistente presenza di mine nei terreni e a una fortissima crisi alimentare, hanno indotto, dunque, il Tribunale a riconoscere la protezione speciale. È stato, inoltre, valorizzato il percorso di integrazione sociale dimostrato negli anni vissuti in Italia, a protezione dunque del diritto al rispetto della vita privata.

Lo sfruttamento lavorativo

Con ordinanza n. 3393/2023 del 3.2.2023 (RG. 208/2021)  la Corte di cassazione ha accolto il ricorso proposto da richiedente asilo del Ghana al quale sia la Commissione territoriale che il Tribunale di Napoli avevano rigettato la domanda reiterata di riconoscimento della protezione internazionale ritenendo che non avesse indicato elementi nuovi rispetto alla prima domanda. In realtà, la Cassazione – che si pronuncia in pubblica udienza per la rilevanza della questione – censura l’omessa valutazione della vulnerabilità del richiedente in ragione della condizione di sfruttamento lavorativo in Italia, dimostrata attraverso una denuncia fatta con altri braccianti agricoli alla Guardia di finanza nell’ambito di un progetto nel casertano per il contrasto a tale fenomeno; condizione che rappresenta certamente elemento nuovo rispetto all’originaria domanda d’asilo. Il Giudice di legittimità ricostruisce il quadro normativo di tutela dallo sfruttamento lavorativo per le persone straniere (art. 22, co. 12-da bis a sexies TU 286/98 – d.lgs. 109/2012 – direttiva 52/2009/CE), alla luce anche degli orientamenti giurisprudenziali in materia, ribadendo che il permesso per motivi umanitari (così definito dall’art. 22, co. 12-sexies in relazione all’art. 5, co. 6 TU 286/98 prima della riforma di cui al d.l. n. 113/2018) «ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali, non degradabile ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo (Cass., SU, n. 5059/2017)», che il suo riconoscimento è previsto nel duplice percorso sociale o all’interno di un procedimento penale conseguente alla denuncia (art. 22, co. 12-quater) e che al giudice è deferita cognizione piena non vincolata alla decisione amministrativa (Cass. SU n. 30757/2018 e n. 32044/2018; Cass. n. 10291/2018). Con riguardo ai requisiti richiesti dall’art. 22, co. 12-quater TU 286/98 la Cassazione esprime un principio molto importante affermando che «i due suindicati requisiti, ossia la presentazione della denuncia e la collaborazione processuale, sono alternativi, e non cumulativi, e ciò in base all’interpretazione logica delle disposizioni in esame, nonché conforme alla sua ratio, finalizzata ad assicurare un regime protettivo allo straniero vittima di sfruttamento lavorativo, in quanto tale soggetto di particolare vulnerabilità.», precisando che già la denuncia rappresenta collaborazione nella lotta allo sfruttamento e, inoltre, che il permesso di soggiorno ben può essere anche quello di cui all’art. 18 TU 286/98, che non è limitato a fatti di violenza.

Sempre in tema di sfruttamento lavorativo si segnala il decreto del Tribunale di Cagliari, 22.2.2023 (RG. 5796/2021) , davanti al quale ha proposto ricorso un richiedente asilo della Nigeria a cui la Commissione territoriale ha rigettato la seconda domanda reiterata di riconoscimento della protezione internazionale perché non rinvenuti elementi nuovi rispetto alle precedenti domande. Il Tribunale esclude il riconoscimento sia del rifugio politico (per insussistenza dei presupposti soggettivi in relazione alla vicenda narrata) che della protezione sussidiaria in tutte le sue declinazioni, mentre gli riconosce la protezione speciale in ragione anche della condizione di sfruttamento lavorativo emersa spontaneamente davanti al giudice (attività lavorative spesso “in nero”), che pur non raggiungendo lo standard richiesto dall’art. 22, co. 12-bis e ss. TU 286/98, è sintomatica di un approfittamento della vulnerabilità dei migranti («rileva il Collegio, le dichiarazioni del ricorrente, dettagliate e spontanee, sono credibili, certamente non lontane dalla conosciuta realtà dello sfruttamento lavorativo della condizione fragile dei migranti, soprattutto di quelli – come il ricorrente – che hanno necessità di guadagnare non solo per sé stessi ma anche per poter supportare la famiglia rimasta in Patria, il ché è poi spesso la vera ragione della loro perigliosa migrazione»).

Inoltre, in giudizio il Tribunale ha accertato l’integrazione sociale del richiedente, rappresentata da una rete amicale, dall’autonomia abitativa, dai lavori svolti anche irregolarmente, dalle rimesse economiche alla famiglia in Nigeria e dai tentativi reiterati nel tempo di regolarizzare la propria condizione. Elementi che il giudice sardo fa rientrare appieno nel diritto al rispetto della vita privata e familiare, di cui all’art. 19, co. 1.1 TU 286/98, con conseguente diritto al permesso per protezione speciale, di durata biennale, rinnovabile o convertibile.

Gli obblighi costituzionali o internazionali ex art. 5, co. 6, TU 286/98: le calamità nel Paese di origine

Il Tribunale di Brescia, con decreto 18.1.2023 (RG. 13160/2019)  ha riconosciuto a richiedente asilo del Bangladesh la protezione speciale in riferimento sia all’art. 19, co. 1.1 prima parte TU 286/98 che alla seconda parte della medesima norma. Sotto il primo profilo, attraverso specifiche COI il Tribunale ha accertato che il Bangladesh (e la particolare zona di provenienza del richiedente) è soggetto a frequentissime alluvioni e catastrofi climatiche, tali da esporre la persona a concreti pericoli per la propria esistenza e a compromettere la sua dignità. Sul punto, nel decreto si richiama la pronuncia di Cassazione n. 5022/21 relativa proprio alla relazione tra protezione umanitaria e disastri climatici. Il giudice bresciano rinviene, inoltre, i presupposti per il riconoscimento della protezione speciale anche in relazione al dimostrato inserimento sociale e dunque al diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Il diritto alla vita privata: nozione

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 8400/2023  censura la decisione del Tribunale di Napoli che ha negato a richiedente asilo del Gambia (espatriato minorenne e vissuto per anni in Paesi africani e gli ultimi quattro in Italia) la protezione speciale sull’errato presupposto della necessità di effettuare una valutazione comparativa tra il vissuto in Italia e il rischio di violazione di diritti fondamentali in caso di rimpatrio, ritenendo sovrapponibile la protezione umanitaria vigente prima della riforma di cui al d.l. n. 113/2018 e la nuova protezione speciale introdotta dal d.l. n. 130/2020. Il Giudice di legittimità ripercorre le varie modifiche intervenute nel corso degli anni, evidenziando che con il d.l. n. 130/2020 il legislatore ha riscritto l’art. 5, co. 6 TU 286/98 (abrogato dal decreto legge del 2018) quale clausola di salvaguardia degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato e ha ampliato l’ambito di applicazione dell’art. 19 al rischio di violazione degli artt. 3 e 8 della CEDU, indicando, rispetto a quest’ultimo, i parametri vincolati per il suo accertamento, tali da escludere la necessità di una valutazione comparativa tra l’integrazione sociale in Italia e il rischio di violazione di diritti fondamentali nel Paese di origine. Quanto alla protezione umanitaria pre-riforma 2018, la Corte ribadisce che con essa è stata offerta tutela a tutti i diritti umani inviolabili di cui all’art. 2 Cost. non come misura caritatevole, rimessa alla discrezionalità dello Stato, bensì come misura di tutela costituzionale e internazionale (Cass., SU, 19393/2009, n. 4139/2011, n. 15466/2014; SU, n. 29459/2019 e SU, n. 24213/2021). Diritti tutelati anche dalla protezione speciale, “a compasso largo”, introdotta nel 2020 (Cass., SU, n. 29459/2019) ma con un meccanismo di accertamento diverso da quello delineato per la protezione umanitaria e che non richiede alcuna comparazione. Significativo è, inoltre, il passaggio in cui la Cassazione afferma che «Con la reintroduzione, nell’art. 5 TUI della clausola di salvaguardia del rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato il d.l. n. 130 del 2020 ha rinforzato l’attuazione del diritto costituzionale di asilo di cui all’art. 10 Cost., comma 3; posto che gli obblighi costituzionali o internazionali gravanti sullo Stato sono ovviamente cogenti a prescindere dal loro richiamo nel decreto legge de quo, a tale richiamo non può attribuirsi altro senso, se non lo si voglia degradare a mero orpello retorico, che quello di segnalare la possibilità di situazioni nelle quali detti obblighi non risultino compiutamente soddisfatti dalle previsioni normative relative alle protezioni maggiori ed alle protezioni speciali introdotte dal d.l. n. 113 del 2018 e incrementate dallo stesso d.l. n. 130 del 2020; vale a dire che il sistema non può ritenersi completo se sfornito di una misura in funzione di chiusura, che consenta di estendere la protezione anche ad ipotesi non legislativamente tipizzate, pur se saldamente ancorate ai precetti costituzionali e delle convenzioni internazionali.».

Con riguardo alla portata dell’art. 19 come modificato dal precedente d.l. n. 130/2020 la Corte evidenzia che il legislatore non ha introdotto diritti nuovi la tutela dei quali fosse prima preclusa ma, con specifico riguardo al diritto alla vita privata e familiare ha indicato le modalità per il suo accertamento attraverso parametri vincolati, «fermo restando la rilevanza degli altri diritti compresi nel catalogo aperto di cui all’art. 2 Cost. quali, a titolo esemplificativo, il diritto alla salute, alla libertà personale, alla autodeterminazione, a non subire trattamenti inumani e degradanti.».

Con riguardo al caso oggetto di giudizio la Cassazione ribadisce che il parametro dell’integrazione sociale non è affatto limitato all’attività lavorativa ma è concetto più ampio che riguarda il complesso delle relazioni con le persone e con il mondo esterno «e comprende a volte alcuni aspetti dell’identità sociale di un individuo, e si deve accettare che tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilente insediati e la comunità nella quale vivono faccia parte della nozione di “vita privata” ai sensi dell’art. 8» (Corte EDU ricorso n. 57433/15 – causa Narjis c. Italia del 14.2.2019).

Principi che assumono un peculiare significato anche in relazione alle conseguenze della restrittiva riforma alla protezione speciale operata dal recentissimo d.l. n. 20/2023 e dalla sua legge di conversione n. 50/2023.

Il diritto alla vita privata: studente del Marocco fuggito dall’Ucraina

Con  ordinanza 7.4.2023 (RG. 14313/2022) il Tribunale di Bologna (9) ha accolto il ricorso proposto da un cittadino del Marocco che alla fine nel 2020 era emigrato per studio in Ucraina e che quando è scoppiata la guerra con la Russia è stato costretto a fuggire, insieme a milioni di cittadini/e ucraini e stranieri ivi soggiornanti. Nonostante fosse titolare di permesso di soggiorno quinquennale (valido per tutta la durata del corso universitario) era escluso dalla protezione temporanea disposta dal d.m. 28.3.2022, attuativo dalla decisione n. 382/2022 della Commissione dell’Unione europea, non rientrando tra le categorie di stranieri ivi previste. Non potendo fare rientro in Marocco, Paese in cui non avrebbe potuto continuare il percorso universitario, lo studente ha chiesto il riconoscimento della protezione speciale ai sensi dell’art. 19, commi 1, 1.1 e 1.2 TU 286/98 in relazione al diritto al rispetto della vita privata, negatagli dalla Commissione territoriale di Bologna per ritenuta insussistenza dei presupposti. Il Tribunale ha, invece, riconosciuto tale tutela valorizzando la rapida integrazione sociale del giovane in Italia, accertata attraverso i corsi di lingua seguiti e i lavoretti svolti, anche di volontariato, così come l’intensa rete relazionale che si è saputo costruire nel breve tempo trascorso in Italia e alle opportunità lavorative che non ha potuto concretizzare per la precarietà della sua condizione giuridica. Nel contempo, il Tribunale ha dato rilievo anche alle difficoltà economiche della famiglia che ha contratto un ingente debito per consentire al giovane l’iscrizione all’università ucraina, tale per cui il rientro in Marocco spezzerebbe il sogno coltivato da tutta la famiglia, oltre che aggravarne la condizione economica. In conclusione, il Tribunale riconosce la protezione speciale perché il rimpatrio in Marocco lederebbe la vita privata che il richiedente si è costruito e intende realizzare in Italia.

Il diritto alla vita privata: l’attività lavorativa

 Il Tribunale di Roma, con  ordinanza 3.2.2023 (RG. 38595/2022)  ha riconosciuto la protezione speciale a cittadino del Bangladesh (già richiedente la protezione internazionale), negatagli dalla Commissione territoriale nell’ambito della domanda presentata al questore. Il Tribunale censura il parere negativo della Commissione perché in contrasto con la dimostrata attività lavorativa svolta e con il vissuto in Italia (già richiedente asilo, successivamente richiedente la regolarizzazione negatagli per ritenuta inidoneità del requisito alloggiativo). Operando una valutazione complessiva della vita in Italia il giudice romano afferma che «La volontà di radicarsi e compiutamente regolarizzarsi in Italia è, del resto, dimostrata dall’adesione del ricorrente alla procedura di emersione del lavoro domestico irregolare prevista dal d.l. 34/2020. Grazie alla propria attività di quel periodo, di assistenza a persona non autosufficiente, egli era riuscito a perfezionare la procedura e ad ottenere un permesso di soggiorno per lavoro subordinato. La conseguente revoca è unicamente dipesa dal riscontro dell’assenza del requisito dell’idoneità alloggiativa (previsto da circolare ministeriale) e non inficia la dimostrazione dell’impegno di positivo inserimento del ricorrente e del suo progetto di radicamento in Italia.». In caso di rimpatrio il ricorrente perderebbe «tutto quanto conquistato in questo tempo nel nostro Paese e andrebbe incontro agli ostacoli di un nuovo radicamento territoriale e a gravi difficoltà oggettive nel condurre una vita dignitosa, in un contesto che ha abbandonato da ormai molti anni, dove non avrebbe mezzi di sussistenza né ormai alcuna significativa relazione economica e affettiva. Al contrario, la permanenza in Italia preserverebbe il ricorrente da uno scadimento estremamente significativo delle proprie condizioni di vita e gli consentirebbe di proseguire il felice percorso qui intrapreso e di soddisfare tutte le proprie esigenze».

Con  ordinanza n. 10371/2023 la Corte di cassazione ha accolto il ricorso proposto da richiedente asilo del Bangladesh a cui il Tribunale di Campobasso aveva negato il riconoscimento di ogni forma di protezione, internazionale e complementare, e con particolare riferimento alla protezione speciale perché non avrebbe dimostrato di avere svolto attività lavorativa. La Corte prende atto dell’intervenuta riforma di cui al d.l. n. 20/2023 e afferma che la disciplina applicabile è quella introdotta dal d.l. n. 130/2020 per effetto della disposizione transitoria prevista dall’art. 7, co. 2 di detto decreto legge. Nel merito, ripercorre i principi giurisprudenziali elaborati in applicazione del d.l. n. 130/2020, evidenziando che soprattutto con riguardo al diritto al rispetto della vita privata e familiare l’art. 19, co. 1.1. esclude la necessità di comparazione tra la vita in Italia e il rischio di violazione di diritti fondamentali in caso di rimpatrio, poiché le modalità di accertamento sono legate a parametri vincolati che valorizzano un concetto ampio di inserimento sociale, «nozione più ampia della sola integrazione lavorativa» (Cass. n. 37275/2022, n. 8400/2023). Ricorda, altresì, la Corte che l’esiguità delle retribuzioni non è di per sé escludente il diritto in parola in quanto assume rilievo anche il graduale incremento delle stesse (Cass. n. 8373/2022) e in applicazione di detti principi censura la decisione del Tribunale, secondo cui non era stata prodotta alcuna busta paga senza dare il dovuto rilievo alla comunicazione UNILAV (che essendo comunicazione obbligatoria attesta l’inizio di un rapporto di lavoro) e al certificato scolastico prodotti.

I pregiudizi penali, la vita familiare e l’integrazione sociale

Con  ordinanza 3.2.2023 il Tribunale di Firenze ha riconosciuto a cittadino della Nigeria la protezione speciale, chiesta direttamente al questore dopo avere ottenuto, in passato, la protezione umanitaria ma senza essere riuscito a ritirare il permesso a causa dello spostamento in Germania ove gli è nato un figlio, e dopo che una domanda reiterata di protezione internazionale gli era stata dichiarata inammissibile. Il Tribunale ricostruisce il vissuto del cittadino nigeriano in Italia, poi in Germania e con successivo rientro in Italia ed evidenzia che, nonostante il figlio viva con la madre in detto Paese europeo, ha dimostrato di provvedere al suo mantenimento mediante periodiche rimesse di denaro, ciò che gli verrebbe impedito in caso di rientro in Nigeria, precludendo peraltro anche ogni contatto tra padre e figlio. Il giudice fiorentino valorizza anche la relazione more uxorio intessuta in Italia con la compagna, richiedente asilo, irrilevante la diversa residenza anagrafica. Quanto alle pendenze penali (nessuna delle quali ancora giunta a giudizio) per ricettazione, furto di energia e occupazione di immobili, è significativo il passaggio in cui il giudice fiorentino afferma che, a prescindere dalla presunzione di innocenza, trattasi di reati strettamente collegati alla condizione precaria delle persone migranti in attesa di regolarizzare la propria condizione e che, oltre a non essere reati di per sé ostativi, «nel necessario giudizio di bilanciamento non si ritiene possano sovrastare l’insieme di elementi favorevoli che il ricorrente è riuscito faticosamente a costruirsi». Valutando, dunque, complessivamente la condizione del richiedente, il Tribunale ritiene sussistenti «i presupposti per la concessione di un permesso di soggiorno per motivi di protezione speciale, valorizzando la natura ‘atipica’ dei relativi motivi».

 Protezione speciale e domanda reiterata di protezione internazionale

Con  ordinanza n. 37275/2022  la Corte di cassazione ha esaminato un decreto del Tribunale di Brescia con cui, dopo avere rigettato il ricorso per il riconoscimento della protezione internazionale in sede di domanda reiterata, ha dichiarato inammissibile la domanda subordinata di riconoscimento della protezione speciale perché, a suo dire, forma complementare di tutela che non rientra negli artt. 29 e ss. d.lgs. 25/2008 in materia di domanda reiterata. La Corte censura detta tesi affermando che il d.l. n. 130/2020 ha introdotto la fattispecie ampia della protezione speciale e la decisione della Commissione territoriale, a sensi dell’art. 32, co. 3 d.lgs. 25/2008 comprende in ogni caso anche questa specifica tutela, oltre al fatto che in tema di domanda reiterata di protezione internazionale oggetto del giudizio non è il provvedimento amministrativo ma l’accertamento di un diritto soggettivo che comprende anche la protezione speciale (Cass. n. 6374/2022).

Protezione umanitaria e violenze nel Paese di transito (Libia)

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 3768/2023  ha censurato la sentenza della Corte d’appello di Catania che a richiedente asilo della Nigeria ha negato ogni forma di protezione, compresa quella umanitaria, senza dare giusto rilievo alle gravi violenze subite nel periodo in cui ha vissuto in Libia (perdita di un occhio). Secondo l’ordinanza in commento, infatti, «nello scrutinio della situazione di soggettiva vulnerabilità del richiedente devono essere necessariamente considerate anche le possibili conseguenze traumatiche derivanti dal passaggio nel Paese di transito» (Cass. n. 31676/2018, n. 29875/2018, n. 2861/2018 e la conseguente vulnerabilità, se sussistente, «è tutelabile ex art. 5, comma 6, TUI, così come alla luce della nuova disciplina normativa» di cui al d.l. n. 130/2020 intervenuta nelle more del giudizio d’appello.

 

I DIRITTI CONNESSI ALLA RICEVUTA DI RICHIESTA PROTEZIONE SPECIALE

In continuità con l’orientamento giudiziale di cui si è dato conto nella Rassegna del procedente numero 1.2023 della Rivista, anche il Tribunale di Roma con decreto 13.4.2023 RG. 3964/2023 (15) afferma che la protezione speciale, insieme al rifugio politico e alla protezione sussidiaria, rientra nel diritto d’asilo di cui all’art 10, co. 3 Cost. e pertanto al richiedente a cui sia stata negata e che proponga ricorso all’autorità giudiziaria va rilasciato un permesso per richiesta silo, ex art. 11, co. 1, lett. a), d.p.r. 394/1999.

Il Tribunale di Bologna, con  ordinanza 7.4.2023 RG. 4051/2023  ex art. 700 c.p.c., afferma il diritto del titolare di ricevuta di richiesta protezione speciale all’iscrizione anagrafica, essendo la sua condizione analoga a quella del richiedente asilo nell’ambito della procedura di protezione internazionale. Decisione cautelare in cui il Tribunale ripercorre e ribadisce le argomentazioni sulla natura giuridica della protezione speciale inaugurate con le decisioni rassegnate nel procedente numero della Rivista, a cui si rimanda.

IL DIRITTO ALLA PRESENTAZIONE DELLA DOMANDA DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE

Il Tribunale di Roma, con ordinanza 31.3.2023 (RG. 7365/2023) , ha affrontato il grave fenomeno del ritardo e/o dell’estrema difficoltà di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale (peraltro esistente davanti alle questure di tutta Italia). Nel caso esaminato dal giudice romano un richiedente asilo georgiano aveva tentato inutilmente, per mesi, di accedere agli uffici della questura di Roma per presentare la domanda di riconoscimento della protezione internazionale senza mai riuscirci, nemmeno dopo l’intervento del legale che aveva inviato una PEC. In corso di giudizio la questura ha consentito l’accesso ma non la formalizzazione, rinviando per detto incombente al settembre 2023 e apponendo sul suo passaporto un timbro con la data dell’appuntamento. Il Tribunale censura detto comportamento, ricordando che la domanda di protezione internazionale, dopo la manifestazione della volontà (art. 2 d.lgs. 142/2015), deve avvenire nel termine indicato dalla legge (artt. 3 e 26 d.lgs. 25/2008), esclusa ogni discrezionalità della Pubblica amministrazione che non può frapporre ostacoli di tipo burocratico che rendano difficile il cammino verso la domanda di asilo (CGUE sentenza Evelyn Danqua, C-429/15). Nella decisione vengono evidenziati i diritti negati in conseguenza della mancata formalizzazione della domanda, tra i quali il diritto all’accoglienza, il diritto di iscrizione al S.S.N., il diritto al lavoro e alla formazione, ecc.

Il Tribunale ricorda che «Le difficoltà e i ritardi nell’accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale da parte dei richiedenti asilo sono uno degli elementi tenuti costantemente in considerazione per verificare la sussistenza di carenze sistemiche nel sistema asilo rilevanti ai fini dell’art. 3 comma 2 del reg UE n. 604/2013 (cd. Dublino III) e la mancanza di una stabile dimora e di mezzi di sussistenza adeguati vengono considerati trattamenti inumani e degradanti in violazione della dignità umana dei richiedenti asilo (si veda CGUE Grande Sezione Jawo contro Bundesrepublik Deutschland, sentenza del 19 marzo 2019, Nella causa C 163/17).». Ordina, dunque, alla questura di Roma di formalizzare entro 6 giorni la domanda di protezione internazionale del richiedente asilo.

In termini analoghi anche il Tribunale di Torino, ordinanza 1.3.2023 RG. 599/2023 .

 

LE MISURE DI ACCOGLIENZA

Con sentenza n. 02386/2023 (RG. 06123/2022) il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello proposto dal Ministero dell’interno avverso la sentenza con cui il Tar Emilia-Romagna, Bologna, aveva annullato l’ingiunzione di pagamento emessa dalla prefettura di Ferrara a carico di richiedente asilo a cui erano state revocate le misure di accoglienza pubblica in quanto accertata la disponibilità di un reddito superiore all’importo dell’assegno sociale annuo (art. 14 d.lgs. 142/2015). Tribunale regionale che aveva ritenuto legittima la revoca di dette misure ma annullata, per l’appunto, l’ingiunzione di pagamento per difetto del principio di proporzionalità. Il giudice d’appello giunge alle medesime conclusioni del Tar dopo avere esaminato la normativa europea (direttiva 2013/33/UE e direttiva 2013/32/UE) e richiamato, in particolare, gli artt. 20 e 26 direttiva 2013/33/UE, dall’insieme dei quali si evince che le misure di accoglienza possono essere progressivamente e gradualmente ridotte «fino a giungere, quale extrema ratio, alla loro revoca, consentita “in casi eccezionali debitamente motivati”», ovverosia nei casi tassativamente indicati nell’art. 20, tra i quali l’occultamento delle risorse economiche. Precisa il Consiglio di Stato che, sempre l’art. 20 direttiva, prescrive precise garanzie stabilendo che le decisioni devono essere assunte caso per caso, con applicazione del principio di proporzionalità, fermo restando che gli Stati «devono assicurare “in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria (…) e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti”.». Secondo l’Alto Consesso «il principio di gradualità della sanzione e di rispetto della dignità della persona si riferiscono a tutte le violazioni indicate» nell’art. 20 direttiva (CGUE 1.8.2022, C-422/21 e CGUE, Grande Sezione, 12.11.2019, C-233/18).

Per il/la richiedente asilo che disponga di risorse economiche superiori al limite fissato dalla legge nazionale può essere chiesto il rimborso totale o parziale, in virtù del principio di proporzionalità (art. 17 direttiva 2013/33/UE), ovvero può essere parametrato al comportamento del/della richiedente che abbia fornito false informazioni o occultato le proprie risorse. L’art. 23 d.lgs. 142/2015, che disciplina le ipotesi di revoca in attuazione della direttiva cd. accoglienza, è definito dal Consiglio di Stato «foriero di diverse interpretazioni per la sua opacità specie se in relazione alla normativa europea, sembra far intendere che esso includa tra i casi di revoca della misura di accoglienza, senza peraltro prevedere una graduazione delle risposte sanzionatorie, entrambe le forme di revoca analizzate», cioé sia nel caso di misure indebitamente percepite (non avendone i requisiti) sia di successiva perdita dei requisiti. Lo Stato, afferma il giudice d’appello, può senz’altro ottenere un rimborso parziale o totale delle spese sostenute per l’accoglienza ma deve tenere conto, in ossequio al principio di proporzionalità, di una serie di elementi, tra i quali lo scostamento dal parametro legislativo dell’assegno sociale per verificare la stabilità della condizione reddituale del richiedente e se con il suo comportamento abbia occultato, o meno, le proprie risorse.

Il rinvenuto contrasto dell’art. 23 d.lgs. 142/2015 con il diritto dell’Unione europea, che ha primazia rispetto al diritto nazionale, legittima l’annullamento dell’ingiunzione di pagamento per difetto del principio di proporzionalità qualora, come nel caso oggetto di giudizio, il reddito maturato dal richiedente asilo sia non eccessivamente superiore all’importo dell’assegno sociale e la richiesta di rimborso sia invece superiore al reddito stesso.

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Rubrica di Questione Giustizia & Diritto, Immigrazione e Cittadinanza

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