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Rassegna di giurisprudenza europea

Rassegna di giurisprudenza europea: Corte europea dei diritti umani

Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti

In S. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 6.10.2022) un cittadino russo, entrato in modo irregolare in Francia per sfuggire a presunte violenze motivate dal suo coinvolgimento in gruppi di ribelli nel Daghestan,

lamentava una violazione dell’art. 3 Cedu nel caso in cui le autorità francesi avessero dato esecuzione all’ordine di allontanamento in Russia. Tale misura era stata adottata dopo l’annullamento del riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Cour National du Droit d’Asile (CNDA) per via dell’accusa relativa alla sua affiliazione a un gruppo islamista radicale, il cd. Emirato del Caucaso, impegnato nella preparazione di azioni terroristiche. I ricorsi interni, presentati a vario titolo dal ricorrente e dalla moglie, non procedevano a una valutazione dei rischi cui il sig. S. sarebbe esposto in Russia poiché gli interessati non avevano avanzato elementi sufficienti a tal fine. Dopo aver rigettato le obiezioni dello Stato convenuto in merito al mancato esaurimento dei ricorsi interni, la Corte Edu ricorda il carattere assoluto del divieto di refoulement che, non ammettendo alcuna deroga, non è messo in discussione dalle attuali sfide poste dal contrasto al terrorismo internazionale, trovando così applicazione anche nel caso di individui che rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale delle Parti (ad es. Corte Edu, 21.06.2022, M.N. e altri c. Turchia, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022; Corte Edu, 9.01.2018, X c. Svezia, in questa Rivista, XX, 2, 2018). Tenuto conto che il ricorrente non è stato ancora allontanato, come di consueto alla Corte appare necessaria una valutazione ex nunc della compatibilità dell’allontanamento con l’art. 3 Cedu, che guardi sia al contesto generale sia alla situazione personale del ricorrente, compresa la sua eventuale appartenenza a gruppi sistematicamente esposti a trattamenti vietati dal divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (Corte Edu, Grande Camera, 29.04.2022, Khasanov e Rakhmanov c. Russia, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022). Infatti, occorre prendere in considerazione tutti gli eventuali nuovi elementi emersi dopo l’adozione della decisione finale interna riguardante il ricorrente, nonché eventuali sviluppi intervenuti nello Stato di destinazione. Nell’effettuare siffatta valutazione, la Corte Edu nota di aver già riscontrato come la situazione generale nel Nord Caucaso non sia tale per cui ogni rinvio verso quella parte della Russia comporta una violazione dell’art. 3 Cedu (Corte Edu, 15.04.2021, K.I. c. Francia, in questa Rivista, XXIII, 2, 2021; Corte Edu, 30.08.2022, R. c. Francia, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022) e come dai rapporti internazionali disponibili in materia non emerga un uso sistematico di torture e altri trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu nei confronti di persone, come il ricorrente, sospettate di terrorismo. Per quanto riguarda la situazione specifica di quest’ultimo, invece, la Corte Edu ritiene che le autorità interne non abbiano proceduto a un attento esame delle informazioni a loro disposizione (cfr., diversamente, Corte Edu, 10.07.2018, X c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XX, 3, 2018), come ad esempio la sua iscrizione nella lista di persone ricercate dalle autorità russe. Se esaminate nel complesso, queste informazioni dimostrano sufficientemente il coinvolgimento del sig. S. nei gruppi di ribelli in Daghestan (in modo analogo, Corte Edu, 30.08.2022, W. c. Francia, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022), il che chiama le autorità interne a effettuare una valutazione ex nunc sui rischi cui il ricorrente sarebbe esposto in caso di allontanamento. In assenza di siffatto esame, per la Corte Edu il rinvio del sig. S. in Russia darebbe origine a una violazione dell’art. 3 Cedu, letto sotto il profilo procedurale.

Con il ricorso Liu c. Polonia (Corte Edu, sentenza del 6.10.2022) un cittadino cinese, originario di Taiwan e detenuto da anni nello Stato convenuto per evitare il rischio di fuga all’estero, lamentava una violazione degli artt. 3 e 6 (diritto a un equo processo) qualora venisse data esecuzione all’ordine di allontanamento verso la Cina, adottato in seguito al suo arresto per truffa internazionale su indicazione dell’Interpol. Il ricorrente riteneva altresì di aver subito una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5 Cedu) a causa del trattenimento, considerato eccessivamente lungo e ingiustificato. Nell’ambito dei ricorsi interni, oltre a consultare alcuni rapporti sui diritti umani disponibili sulla Cina, le corti polacche avevano chiesto e ricevuto informazioni dalle autorità cinesi circa il trattamento riservato al ricorrente in caso di rinvio. Su tali basi, oltre a tenere conto che la sua domanda di protezione internazionale era stata rigettata e che non era ricercato per motivi politici o in qualche modo discriminatori, avevano concluso che il sig. Liu non sarebbe esposto nel suo Paese a torture o a un processo iniquo. La Corte Edu osserva innanzitutto come, a causa di una valutazione sostanzialmente superficiale o nulla dei rapporti internazionali più recenti disponibili sulla Cina, le autorità interne non abbiano effettivamente condotto un esame individualizzato dei rischi cui potrebbe essere esposto il ricorrente se allontanato. Procedendo essa stessa con un siffatto esame, la Corte Edu ritiene di dover soprattutto verificare le condizioni generali di detenzione nelle carceri cinesi alla luce del fatto che, in caso di rinvio, il sig. Liu sarebbe certamente detenuto. A tal proposito, se è vero che non sono disponibili rapporti recenti delle Nazioni Unite (NU) per la limitata cooperazione in materia da parte di Pechino, è altrettanto vero che le fonti a disposizione continuano a evidenziare una situazione delle carceri in cui è diffuso il ricorso a torture e altri maltrattamenti (già precedentemente emerso in Comitato contro la tortura (CAT), Concluding Observationson China, rispettivamente 12 dicembre 2008 e 3 febbraio 2016, NU doc. CAT/C/CHN/CO/4 e CAT/C/CHN/CO/5), nonché un ampio ricorso al segreto di Stato in casi di detenzione legittimando le autorità a negare alle persone interessate diritti fondamentali come l’accesso a un avvocato (Human Rights Watch, Tiger Chairs and Cell Bosses – Police Torture of Criminal Suspects in China, 13 maggio 2015; US Department of State, Report on Human Rights Practices in China, 2018; Freedom House, Freedom in the World, 2022). Inoltre, mentre non è chiaro se le persone detenute abbiano effettivamente accesso a mezzi interni tramite cui far valutare la loro situazione, le stesse non possono certamente rivolgere le loro doglianze agli organi internazionali preposti in ragione della mancata ratifica da parte della Cina dei trattati conclusi in materia. Alla luce di tali informazioni, la Corte Edu conclude che la condizione delle carceri in Cina equivale a una situazione di violenza generalizzata tale per cui, non essendo necessario dimostrare alcun fattore specifico legato alla situazione individuale del ricorrente, quest’ultimo sarebbe comunque esposto a trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu per il solo fatto di essere detenuto nel suo Paese. Anche per questa ragione, le rassicurazioni offerte, peraltro in via informale, dalla Cina al Governo polacco non appaiono sufficienti a garantire che i diritti del ricorrente siano poi effettivamente rispettati. Pertanto, nel caso in cui lo Stato convenuto desse esecuzione all’allontanamento del sig. Liu, si produrrebbe una violazione dell’art. 3 Cedu. Non ritenendo necessario pronunciarsi anche sul rischio di violazione del diritto all’equo processo in caso di allontanamento, per la Corte Edu il ricorrente ha sofferto una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza poiché la sua detenzione, durata oltre quattro anni, non risulta più giustificata. Infatti, se in un primo momento l’allontanamento non avrebbe potuto avere luogo anche in ragione dei tempi necessari per la valutazione della richiesta di protezione internazionale, nel periodo successivo la decisione di trattenere il sig. Liu era stata confermata senza condurre una reale valutazione del suo caso specifico e della necessità di privarlo della sua libertà. A tal proposito, la Corte Edu rigetta con forza anche l’argomento dello Stato convenuto volto a giustificare la continua detenzione con l’obbligo di osservare le misure cautelari da essa indicate per evitare che il ricorrente venisse allontanato in Cina. Pertanto, nel suo caso, vi è stata anche una violazione dell’art. 5 Cedu.

Il caso O.M. e D.S. c. Ucraina (Corte Edu, sentenza del 15.09.2022) riguarda due cittadini del Kirghizistan, un membro del Parlamento kirghiso dal 2000 al 2009 e suo figlio, che riuscivano a fuggire in Ucraina dopo che la prima ricorrente era stata accusata, insieme ad altri ufficiali governativi, di abuso di potere e omicidio aggravato in relazione all’uso della forza contro le rivolte che avevano poi portato alla fuga del Presidente in carica e alla formazione di un nuovo governo in Kirghizistan nel 2010. Nonostante la prima ricorrente sostenesse di aver preavvertito, anche con il supporto dell’UNHCR, le autorità ucraine circa la sua intenzione di chiedere protezione internazionale, al loro arrivo sotto false identità in Ucraina venivano prima trattenuti nella zona di transito dell’aeroporto di Kyiv e allontanati subito dopo verso un Paese terzo, la Georgia. Ogni tentativo di far esaminare le loro richieste di asilo o di bloccare il repentino allontanamento, anche per via dell’ottenimento di misure provvisorie da parte della Corte Edu ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento interno, risultavano vane. Dinanzi la Corte Edu, i ricorrenti lamentavano quindi la violazione dell’art. 3 Cedu per essere stati trasferiti in Georgia senza alcuna valutazione preliminare dei rischi cui sarebbero stati esposti in quel Paese e del pericolo di refoulement indiretto verso il Kirghizistan. La Corte Edu ricorda innanzitutto come, nel caso di allontanamenti verso Stati terzi, le Parti siano obbligate a valutare i rischi di esporre le persone interessate a trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu sia direttamente sia indirettamente, ad esempio a causa del loro successivo trasferimento dallo Stato terzo al Paese di origine (su tutte, Corte Edu, Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria, in questa Rivista, XXII, 1, 2020). Ove siano coinvolti richiedenti asilo, se le loro domande di protezione internazionale non sono esaminate dalle loro autorità competenti, le Parti devono anche valutare l’effettiva disponibilità nel Paese terzo di un sistema di asilo adeguato, in assenza del quale l’allontanamento non può aver luogo. Nel caso in esame, la Corte Edu considera sufficientemente provato che le autorità interne fossero a conoscenza della vera identità della prima ricorrente e della sua intenzione di chiedere protezione internazionale una volta giunta nel Paese. Ciononostante, le stesse autorità hanno rifiutato di registrare la sua richiesta di protezione internazionale e non hanno valutato il rischio di refoulement diretto e indiretto prima di allontanarla in Georgia, venendo quindi meno al rispetto degli obblighi procedurali ex art. 3 Cedu secondo una prassi illecita diffusa nello Stato convenuto e già accertata dalla Corte Edu (Corte Edu, 12.01.2017, Kebe e altri c. Ucraina, in questa Rivista, XIX, 2, 2017). L’allontanamento dei ricorrenti in Georgia ha dato dunque luogo a una violazione dell’art. 3 Cedu. Se per la Corte, data tale conclusione, non risulta altresì necessario valutare il caso anche sotto il profilo del diritto a un ricorso effettivo (art. 13 Cedu), diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti la lamentata violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza a causa del loro trattenimento all’arrivo in Ucraina risulta inammissibile. Infatti, secondo la Corte Edu, tale disposizione non è applicabile alla loro situazione poiché il loro trattenimento, durata nel complesso circa undici ore, non equivale a «privazione della libertà» ai sensi del para. 1 dell’art. 5 Cedu ma costituisce il lecito esercizio del potere di controllo delle frontiere da parte dello Stato convenuto, avvenuto nel loro caso con modalità e tempi non eccessivi rispetto a quanto strettamente necessario. Infine, vista la mancata attuazione delle misure provvisorie indicate dalla Corte Edu volte a sospendere il loro allontanamento in Georgia (in modo analogo, Corte Edu, 30.06.2022, A.B. c. Polonia, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022), nel caso dei ricorrenti vi è anche una violazione degli obblighi derivanti dall’art. 34 Cedu, che protegge il diritto degli individui a presentare un ricorso dinanzi la Corte Edu.

In B.Ṻ. c. Repubblica Ceca (Corte Edu, sentenza del 6.10.2022) un cittadino turco, dopo essere stato trasferito dalla Svizzera, veniva trattenuto nello Stato convenuto in vista del suo allontanamento. Secondo la sua versione degli eventi, gli agenti incaricati di trasferirlo dall’aeroporto di Praga in un centro di detenzione per stranieri lo avrebbero colpito ripetutamente e, per contrastare un suo tentativo di trovare riparo nei bagni, avrebbero utilizzato gas lacrimogeni. Veniva quindi ammanettato e portato in ospedale dove i medici, oltre ad accertare la rottura del setto nasale e altre ferite e contusioni, evidenziavano un comportamento aggressivo e non cooperativo. Per queste ragioni, una volta inserito nel centro di detenzione per stranieri, il ricorrente veniva posto in un regime di sorveglianza speciale con contestuale isolamento fino al suo temporaneo trasferimento, in seguito a un tentativo di suicidio, in un ospedale psichiatrico. Le indagini aperte sugli incidenti in aeroporto e sul tentativo di suicidio, condotte da autorità gerarchicamente superiori agli agenti coinvolti, non rilevavano azioni della polizia che non fossero conformi alla legge. I procedimenti interni intentati dal ricorrente, anche a livello costituzionale, per denunciare in particolare i maltrattamenti subiti al suo arrivo venivano chiusi sostanzialmente per mancanza di prove. Dopo aver ritenuto inammissibile per mancato esaurimento dei ricorsi interni la lamentata violazione dell’art. 3 Cedu originata dalle condizioni di trattenimento e dalla indisponibilità di cure adeguate rispetto al suo stato di salute, la Corte Edu esamina la presunta violazione del divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti che il ricorrente avrebbe subito dopo il suo arrivo in aeroporto. Valutando il caso sotto il profilo procedurale dell’art. 3 Cedu, la Corte ritiene innanzitutto che le denunce presentate dal ricorrente, supportate dai referti medici, fossero sufficientemente credibili da attivare gli obblighi procedurali assunti dallo Stato convenuto con l’adesione alla Cedu. Per la Corte, se è vero che le autorità interne si erano prontamente attivate per stabilire eventuali irregolarità nell’operato della polizia, non si può anche affermare che le indagini siano state condotte da autorità indipendenti come richiede la Convenzione, poiché intraprese da autorità gerarchicamente superiori agli agenti direttamente coinvolti nel caso. Considerato che, nonostante i procedimenti intentati dal sig. B.Ṻ., nessuna altra autorità amministrativa o giudiziaria aveva avviato proprie indagini indipendenti sull’accaduto, ad esempio interrogando tutti gli attori coinvolti, basando invece le proprie conclusioni unicamente sul rapporto iniziale non indipendente, per la Corte Edu lo Stato convenuto non ha agito nel rispetto degli standard imposti dall’art. 3 Cedu. Peraltro, il ricorrente non era stato nemmeno informato degli sviluppi investigativi e avevo visto anche negato l’accesso alle informazioni riguardanti il suo caso. Tutto ciò fa quindi concludere la Corte che vi è stata violazione dell’art. 3 Cedu, letto sotto il profilo procedurale. Non vi è stata, invece, violazione dello stesso divieto letto sotto il profilo sostanziale poiché per la Corte Edu, anche a causa delle lacune investigative già menzionate, non è possibile ritenere oltre ogni ragionevole dubbio che il ricorso alla forza fisica da parte della polizia, soprattutto alla luce del comportamento aggressivo del ricorrente, fosse stato eccessivo e, come tale, contrario all’art. 3 Cedu.

Art. 6: Diritto a un equo processo

Il caso M.K. e altri c. Francia (Corte Edu, sentenza dell’8.12.2022) riguarda tre famiglie, due di nazionalità congolese e una georgiana, giunte in Francia nel 2018. Dopo aver presentato domanda di protezione internazionale, vedendosi così riconosciuta l’accoglienza prevista in tali casi, non avevano comunque accesso ad alcuna soluzione abitativa. Nonostante le segnalazioni dei vari servizi sociali competenti e di talune associazioni sulla loro vulnerabilità, i ricorrenti erano costretti a vivere in una condizione di estrema precarietà fino a quando, dopo essersi rivolti al competente giudice amministrativo, veniva ordinato al prefetto dell’Alta Garonna di designare immediatamente una sistemazione d’urgenza in loro favore, prevedendo in alcuni casi anche una penalità pecuniaria per ogni giorno di ritardo. Come confermato nel contesto di un serie di ulteriori ricorsi interni, il prefetto non aveva dato esecuzione alle rispettive ordinanze. Solo dopo l’accoglimento da parte della Corte Edu della richiesta di indicare misure provvisorie allo Stato convenuto ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento interno, le tre famiglie venivano finalmente prese in carico dal programma nazionale di accoglienza per richiedenti asilo. Dopo aver riunito i ricorsi, la Corte Edu ritiene di dover valutare le presunte violazioni della Cedu originate, secondo i ricorrenti, dalla non esecuzione da parte del prefetto delle ordinanze relative alla designazione di un alloggio d’urgenza unicamente sotto il profilo del diritto a un equo processo (art. 6 Cedu). Infatti, mentre le decisioni relative all’entrata, al soggiorno e all’allontanamento degli stranieri non rientrano nel campo di applicazione del diritto tutelato dall’art. 6 Cedu secondo una giurisprudenza costante (recentemente, Corte Edu, Grande Camera, 5.05.2020, M.N. e altri c. Belgio, dec., in questa Rivista, XXII, 3, 2020), nel caso dei ricorrenti il diritto a un equo processo risulta applicabile dal momento che, nei ricorsi interni rilevanti, le loro doglianze non riguardavano l’ingresso nello Stato convenuto o la loro domanda di asilo, bensì il diritto a un alloggio d’urgenza previsto dalla normativa interna. In quanto tale, esso è certamente collocabile tra le prestazioni sociali rispetto alle quali l’art. 6 Cedu era già stato ritenuto applicabile. Per quanto riguarda il merito del caso, la Corte Edu ricorda che, nel garantire il diritto di accesso a un giudice, l’art. 6, par. 1, Cedu garantisce anche un’adeguata esecuzione delle decisioni giudiziarie, non potendo le Parti richiamare l’assenza di risorse per giustificare eventuali inadempienze. Nel caso in esame, se è vero che lo Stato convenuto si trovava di fronte a una situazione di emergenza rispetto all’accoglienza dei richiedenti asilo, le autorità interne non avevano avanzato ragioni sufficienti per non essersi comunque attivate nella ricerca di soluzioni alternative, possibilmente anche in altri dipartimenti, nonostante le numerose richieste presentate a vario titolo dai ricorrenti. Anche se la situazione di estrema precarietà è durata, nel caso più grave, meno di un mese, per la Corte Edu la totale inerzia dimostrata dalle autorità competenti, interrotta solo dalla sua indicazione di misure provvisorie, ha dato origine a una violazione del diritto a un equo processo. È stata, invece, ritenuta inammissibile, a causa il mancato esaurimento dei ricorsi interni, la parte del ricorso con cui i ricorrenti lamentavano per gli stessi motivi anche una violazione dell’art. 3 Cedu.

Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare

Nel caso Otite c. Regno Unito (Corte Edu, sentenza del 27.09.2022) un cittadino nigeriano, immigrato nel Regno Unito all’età di 31 anni per ricongiungimento familiare dopo aver sposato una connazionale lungo soggiornante in quel Paese, veniva condannato per aver a lungo gestito un’attività di falsificazione di documenti a fini estorsivi e, di conseguenza, lo Stato convenuto ne ordinava l’allontanamento. Per gran parte delle autorità interne intervenute nel caso, non esistevano ragioni particolarmente serie legate alla sua vita familiare nel Regno Unito che, nel bilanciamento con l’interesse collettivo, potessero far propendere per una soluzione diversa dall’esecuzione del suo allontanamento. In particolare, per il Secretary of State il ricorrente poteva facilmente ricollocarsi in Nigeria, dove aveva vissuto gran parte della sua vita. Inoltre, l’impatto che il suo allontanamento avrebbe generato sul benessere dei figli non appariva eccessivo, poiché questi erano stati sempre accuditi dalla madre e il loro preminente interesse andava ad ogni modo bilanciato con gli altri interessi pubblici in gioco (v. sul punto le argomentazioni, in senso contrario, delle terze parti intervenienti, par. 33-35; sul ruolo del principio del preminente interesse del minore, C. Danisi, M. Crock, Immigration Control and the Best Interests of the Child in Europe, in Protecting Migrant Children: In Search of Best Practices, Elgar, 2018, pp. 136-162). Nonostante i giudici interni non avessero richiamato espressamente i criteri consolidati nella giurisprudenza della Corte Edu per valutare quando un allontanamento costituisca un’interferenza non necessaria nel godimento del diritto al rispetto per la vita familiare di persone immigrate (tra le altre, Corte Edu, Grande Camera, 18.10.2006, Üner c. Paesi Bassi; 24.11.2020, Unuane c. Regno Unito, in questa Rivista, XXIII, 1, 2021; 1.02.2022, Johansen c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022), la Corte Edu giunge alla loro stessa conclusione. Infatti, appurato che l’interferenza subita dal sig. Otite è prevista dalla legge e persegue uno scopo legittimo come previsto dall’art. 8, par. 2, Cedu, essa risulta necessaria soprattutto alla luce della serietà delle sue condotte criminali e del rischio di recidiva. Così, tenuto conto anche della sua scarsa integrazione nel Regno Unito e della situazione specifica dei figli, i quali potrebbero anche seguire il ricorrente in Nigeria senza particolari difficoltà (Corte Edu, 23.06.2022, Alleleh e altri c. Norvegia, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022), la Corte in sostanza condivide il bilanciamento tra interessi individuali e collettivi coinvolti operato a livello interno. Pertanto, nel caso in cui il sig. Otite venisse allontanato, non si produrrebbe una violazione dell’art. 8 Cedu.

In Paketova e altri c. Bulgaria (Corte Edu, sentenza del 4.10.2022) la Corte Edu riunisce i ricorsi presentati da 55 cittadini bulgari, di origine Rom, che erano stati costretti a lasciare le loro abitazioni a causa delle continue proteste organizzate dalla popolazione locale contro tutta la comunità Rom dopo una rissa in cui, con il coinvolgimento di uno dei ricorrenti, un agente dello Stato convenuto era rimasto ferito. Nonostante i vari ricorsi amministrativi e giudiziari intentati invano dai ricorrenti, questi non riuscivano più a far ritorno nelle loro abitazioni dovendosi, peraltro, anche scontrare con esponenti politici locali e nazionali che cavalcavano il clima fortemente intimidatorio contro la comunità Rom per cacciarli dal territorio comunale. Dopo aver rigettato come inammissibili i ricorsi presentati da ricorrenti che non avevano dimostrato di risiedere nel distretto interessato dagli eventi in questione, la Corte Edu ritiene di dover esaminare il caso sotto il profilo del diritto al rispetto per la vita privata e familiare (art. 8), in combinato al divieto di discriminazione (art. 14), non solo per l’impossibilità dei ricorrenti di vivere nelle loro abitazioni, ossia uno degli elementi protetti dall’art. 8 Cedu (Corte Edu, 14.05.2020, Hirtu e altri c. Francia, in questa Rivista, XXII, 3, 2020), ma anche per le ripercussioni che tale impossibilità ha generato sui loro legami familiari e sociali. A tal proposito, la Corte ricorda come l’art. 8 Cedu non protegga unicamente contro le interferenze arbitrarie ma richiede altresì che le autorità pubbliche si attivino per facilitare il godimento del diritto da esso affermato. In tal senso, nonostante il margine di apprezzamento riconosciuto alle Parti in merito alle misure da adottare e al necessario bilanciamento tra interessi collettivi e individuali a esse sotteso, è oramai consolidato ritenere come tale margine si restringa quando sono in gioco caratteristiche personali, compresa l’origine etnica. Nei casi in cui venga denunciata una discriminazione basata su tale fattore, anche il divieto di discriminazione, letto in combinato con l’art. 8, richiede alle autorità interne di ricorrere a ogni misura possibile per combattere ogni forma di razzismo (tra le altre, Corte Edu, 17.01.2017, Király e Dömötör c. Ungheria, in questa Rivista, XIX, 2, 2017; 5.12.2017, Alković c. Montenegro, in questa Rivista, XX, 1, 2018). Con riferimento alla loro situazione specifica, la Corte Edu nota che i ricorrenti non abbiano subito violenze o danni alle loro abitazioni, né che siano state le autorità locali a ordinare loro di lasciare le case. Ciononostante, mentre le autorità giudiziarie competenti non avevano condotto un’indagine effettiva sull’accaduto, ad esempio esaminando tutte le prove a loro disposizione, interrogando le persone coinvolte e esplorando eventuali motivi razzisti alla base delle proteste, lo Stato convenuto non si è in alcun modo attivato per contrastare il clima intimidatorio generato dai manifestanti e che aveva di fatto impedito ai ricorrenti di rientrare nelle loro abitazioni. Anzi, attraverso le loro dichiarazioni pubbliche, esponenti politici nazionali e locali avevano addirittura espresso un atteggiamento di rifiuto nei confronti della comunità Rom, cui i media avevano dato ampia diffusione. Per la Corte, tutto ciò non ha facilitato la risoluzione pacifica della questione, andando peraltro nella direzione contraria rispetto al bisogno di speciale protezione affermato a più riprese nella sua giurisprudenza in favore di minoranze, come le persone di etnia Rom, in condizioni di particolare svantaggio e vulnerabilità (Corte Edu, 17.10.2013, Winterstein e altri c. Francia, in questa Rivista, XV, 4, 2013). Anche se è vero che la polizia era intervenuta per tutelare l’incolumità fisica del ricorrenti nel momento in cui, qualche giorno dopo le prime proteste, avevano tentato di riprendere possesso delle loro case o, quantomeno, dei loro averi, per la Corte Edu lo Stato convenuto non ha comunque fatto abbastanza alla luce del generale contesto di intolleranza di cui la comunità Rom era vittima. Proprio l’effetto cumulativo di tutte le omissioni emerse nel caso dei ricorrenti (cfr., diversamente, Corte Edu, 10.03.2020, Hudorovič e altri c. Slovenia, in questa Rivista, XXI, 2, 2022) ha dunque dato luogo a una violazione del diritto al rispetto per la vita privata e familiare, letto alla luce del divieto di discriminazione, non essendo necessario per la Corte Edu doversi pronunciare anche sulla lamentata violazione del diritto a un ricorso effettivo (art. 13 Cedu).

Art. 10: Libertà di espressione

Il caso Zemmour c. Francia (Corte Edu, sentenza del 20.12.2022) riguarda un noto giornalista che veniva condannato per istigazione alla discriminazione e all’odio nei confronti della comunità musulmana francese a causa di alcune sue esternazioni durante una trasmissione televisiva molto seguita. Come già avanzato invano nell’ambito dei ricorsi interni, dinanzi la Corte Edu il ricorrente sosteneva di essersi espresso su una questione di interesse generale per cui le sue opinioni trovavano tutela attraverso l’art. 10 Cedu, relativo alla libertà di espressione. Dopo aver ritenuto inapplicabile l’art. 17 Cedu (divieto dell’abuso di diritto), contrariamente a quanto sostenuto dallo Stato convenuto, non potendosi affermare che il sig. Zemmour abbia esercitato la sua libertà di espressione con l’obiettivo di distruggere i diritti o le libertà riconosciute nella Convenzione (Corte Edu, 16.11.2004, Norwood c. Regno Unito, dec.; 20.04.2010, Le Pen c. France, dec.), la Corte Edu verifica ai sensi dell’art. 10, par. 2, se l’interferenza subita dal ricorrente nel godimento della libertà di espressione sia prevista dalla legge, persegua fini legittimi e sia necessaria in una società democratica. Le prime due condizioni sono facilmente riscontrabili, tenuto conto che la legge applicabile così come interpretata dai giudici interni sanzionava anche le incitazioni indirette all’odio e alla discriminazione su base religiosa e che la condanna mirava a tutelare la reputazione e i diritti altrui. Per quanto riguarda il terzo requisito, la Corte Edu ribadisce la centralità della libertà di espressione per l’esistenza stessa di una società democratica e, proprio per valorizzare il pluralismo, l’art. 10 Cedu tutela anche idee che, pur risultando offensive o scioccanti, riguardano questioni di interesse generale (su tutte, Corte Edu (plenaria), 7.12.1976, Handyside c. Regno Unito). Ciononostante, per tutelare l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, in via di principio può essere necessario sanzionare o prevenire forme di espressione che promuovono odio e violenza per ragioni legate, tra l’altro, all’appartenenza religiosa (v. Corte Edu, 28.08.2018, Ibragim Ibragimov e altri c. Russia, in questa Rivista, XX, 3, 2018; 25.10.2018, E.S. c. Austria, in questa Rivista, XXI, 1, 2019). Per valutare se l’interferenza è stata quindi necessaria, per la Corte occorre tenere conto di una serie di fattori che non comprendono solo il contenuto delle affermazioni controverse ma anche il contesto nel quale esse sono state formulate. Nel caso del sig. Zemmour, le autorità interne hanno effettivamente condotto una valutazione puntuale di tutti gli elementi in gioco tenendo conto di come le sue esternazioni, pur collocate nel quadro di un dibattito di interesse generale, erano state presentate come il frutto di una ricostruzione storica e teologica e pronunciate in un contesto politico particolare, poiché legato all’attentato terroristico avvenuto poco prima a Nizza, e nell’ora di massimo ascolto di un noto programma televisivo. Su tale base, al pari dei giudici interni, la Corte Edu ritiene che affermazioni qualificanti i mussulmani come «colonizzatori» in lotta per «islamizzare» il territorio francese e volte a invitarli a «scegliere tra l’Islam e la Francia» avevano espresso un sentimento di rigetto nei loro confronti, etichettandoli come minaccia alla sicurezza pubblica e ai valori repubblicani. Alla luce del loro intento chiaramente discriminatorio su base religiosa, tali affermazioni non possono godere della tutela prevista dall’art. 10 Cedu, letto anche alla luce dell’art. 17 Cedu. Tenuto anche conto del margine di apprezzamento riconosciuto alle autorità interne e dell’entità non eccessiva della condanna, pari al pagamento di un’ammenda di 3 mila euro, per la Corte Edu la misura adottata nei confronti del ricorrente risulta proporzionale allo scopo perseguito. Di conseguenza, qualificandosi come necessaria in una società democratica, l’interferenza subita dal sig. Zemmour nell’esercizio della sua libertà di espressione non ha dato origine a una violazione dell’art. 10 Cedu.

Art. 13: Diritto a un mezzo di ricorso effettivo

Nel caso S.H. c. Malta (Corte Edu, sentenza del 20.12.2022) un cittadino del Bangladesh, giunto a Malta dopo aver denunciato, in qualità di giornalista per il network nazionale Vairab KTV Bangla, episodi di corruzione nel suo Paese durante le elezioni di fine 2018, vedeva rigettate le sue richieste di protezione internazionale in ragione dei seri dubbi emersi sul suo racconto. Per le autorità interne che avevano valutato la sua prima domanda non era possibile verificare l’autenticità dei documenti presentati dal ricorrente in quanto fotocopie degli originali, né era verosimile che il sig. S.H. avesse effettivamente lavorato come giornalista data la sua vaga conoscenza degli episodi di corruzione legati alle stesse elezioni nei termini riportati nelle COI a loro disposizione. Poiché il ricorrente proveniva da un Paese terzo ritenuto «sicuro», il rigetto veniva automaticamente riesaminato e confermato dalla Corte di Appello per la Protezione Internazionale il giorno seguente. Nell’ambito di una seconda domanda di asilo, il ricorrente forniva alcuni documenti video e articoli che stabilivano con sufficiente certezza il suo lavoro come giornalista. Nonostante ciò, seguendo nuovamente una procedura accelerata, le autorità competenti ritenevano poco credibili le violenze subite dal sig. S.H. a causa del suo lavoro e, ritenendo che non fossero stati realmente avanzati nuovi elementi, confermano il diniego dello status di rifugiato. Anche una terza domanda di protezione internazionale seguiva la stessa sorte. Dinanzi la Corte Edu, il ricorrente lamentava una violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti), poiché lo Stato convenuto non aveva esaminato in modo appropriato i rischi cui egli sarebbe esposto in caso di rinvio in Bangladesh, e dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo), letto in combinato con lo stesso art. 3 Cedu, in ragione di varie criticità emerse nel contesto delle tre procedure di asilo. Valutando il caso innanzitutto sotto il profilo dell’art. 13 Cedu, in combinato con il divieto di cui all’art. 3, la Corte ricorda come i richiedenti asilo debbano quantomeno: avere accesso a informazioni appropriate sulla procedura di asilo e sui diritti loro riconosciuti, compreso l’accesso a un avvocato, in una lingua a loro comprensibile; essere interrogati da personale adeguatamente formato; conoscere le ragioni per cui le loro domande di protezione sono rigettate (tra le altre, Corte Edu, 20.7.2021, D. c. Bulgaria, in questa Rivista, XXI, 3, 2021). Nel caso del sig. S.H, non si può affermare che la sua intervista sia stata condotta in modo superficiale. Tuttavia, se è vero che non ha avuto inizialmente accesso ad alcun supporto legale anche per le restrizioni originate dalla pandemia da Covid-19, è soprattutto il motivo per cui la prima domanda di protezione non è stata accolta a sorprendere la Corte Edu. Infatti, a suo avviso, le contraddizioni evidenziate dalle autorità interne non erano così centrali da mettere in discussione la credibilità dell’intero racconto. Secondo quanto afferma la Corte, non si può attendere da una persona giovane e poco istruita come il ricorrente un livello di dettaglio come quello preteso dallo Stato convenuto. Tra l’altro, le autorità interne non avevano neppure tenuto conto che il ricorrente, a lungo trattenuto, non aveva ricevuto alcun supporto per preparare la sua intervista. Tutto ciò nonostante, per la Corte Edu, occorra invece concedere il beneficio del dubbio ai richiedenti asilo in ragione della loro particolare condizione (ad es., Corte Edu, 23.03.2016, F.G. c. Svezia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), specie quando avevano provato a sufficienza la loro storia. In effetti, se molte prove non erano state effettivamente prese in considerazione, le autorità interne non avevano avanzato motivi oggettivi per dubitare dell’autenticità delle prove fornite dal sig. S.H., rendendo così difficile per quest’ultimo contestare il rigetto delle sue richieste. Inoltre, l’esame della domanda in appello era stato condotto attraverso una procedura accelerata in meno di 24 ore, il che, oltre a generare dubbi sull’adeguatezza della conseguente valutazione (tra le altre, Corte Edu, 22.07.2021, E.H. c. Francia, in questa Rivista, XXIII, 3, 2021), ha reso soprattutto impossibile per il ricorrente preparare qualsiasi tipo di intervento dinanzi al giudice competente. Per tutte queste ragioni, per la Corte Edu è evidente che il ricorrente non abbia avuto a disposizione, sin dal principio, un mezzo di ricorso caratterizzato da garanzie procedurali che potessero tutelarlo contro il rischio di un allontanamento contrario all’art. 3 Cedu. Tenuto quindi conto che, nonostante le evidenti prove sul suo coinvolgimento come giornalista nelle elezioni del 2018 in Bangladesh e le rilevanti informazioni sul rispetto dei diritti umani in quel Paese (ad es., Australian Government Department of Foreign Affairs on Trade, Country Information Report Bangladesh, agosto 2019; Freedom House, Bangladesh, 2020; NGO Odhikar, Annual Human Rights Report, 2020; UK Home Office, Country Policy and Information Note Bangladesh: Journalists, the press and social media, gennaio 2021), non è stato condotto un esame della situazione personale del ricorrente in linea con gli standard convenzionali, nel suo caso vi è stata una violazione del diritto a un mezzo di ricorso effettivo, letto in combinato con l’art. 3 Cedu. Di conseguenza, senza una nuova valutazione della sua situazione personale e dei rischi cui sarebbe esposto nel suo Paese a causa della sua precedente attività giornalistica, l’allontanamento del sig. S.H. darebbe anche origine a una violazione del divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti (art. 3 Cedu).

Art. 14: Divieto di discriminazione

Il caso Muhammad c. Spagna (Corte Edu, sentenza del 18.10.2022) pone dinanzi la Corte Edu il problema del racial profiling (v. in ambito universale, Comitato dei diritti umani, 27.07.2009, Rosalind Williams Lecraft c. Spagna, doc. CCPR/C/96/D/1493/2006) e della sua compatibilità con il divieto di discriminazione, affermato all’art. 14 Cedu come principio complementare ai diritti e alle libertà tutelate dalla Convenzione e all’art. 1, Prot. 12, come divieto generale (M. Balboni (a cura di), The European Convention on Human Rights and the Principle of Non-discrimination, Ed. Scientifica, 2017). Il ricorrente, cittadino pachistano con permesso di soggiorno permanente in Spagna, veniva fermato insieme a un suo connazionale da due agenti di polizia per un controllo mentre camminava in una strada di Barcellona con un’alta incidenza di scippi e furti. Ritenendo di essere stato fermato solo per il colore della sua pelle, rifiutava di fornire le sue generalità. Secondo la sua versione dei fatti, contestata dagli agenti, veniva poi minacciato, etichettato come «scimmia», arrestato e poi rilasciato. Nell’ambito del procedimento penale, avviato su denuncia del ricorrente e poco dopo archiviato, la questione del possibile motivo discriminatorio alla base dell’operato degli agenti non veniva trattata. Anche il parallelo procedimento di carattere amministrativo, avviato proprio per denunciare l’accaduto come parte di una pratica diffusa di racial profiling adottata dalla polizia, veniva archiviato per mancanza di prove. Nonostante la Spagna sia parte del Protocollo 12, per la Corte Edu il ricorso del sig. Muhammad va esaminato sotto il profilo dell’art. 14 Cedu, il quale risulta applicabile al caso del ricorrente poiché letto in combinato con l’art. 8 Cedu, nel cui ambito di applicazione può rientrare anche un controllo di identità, basato unicamente su specifiche caratteristiche fisiche o etniche, quale interferenza nella vita privata di una persona con possibile impatto anche sulla sua integrità mentale. Dopo aver ribadito che l’art. 14 Cedu impone obblighi di carattere positivo, come l’obbligo di indagare in modo effettivo eventuali motivi razzisti in presenza di una denuncia credibile (v. Corte Edu, 24.07.2012, B.S. c. Spagna, in questa Rivista, XIV, 4, 2012, p. 122; 31.10.2017, M.F. c. Ungheria, in questa Rivista, XX, 1, 2018), anche quando è letto in combinato al diritto al rispetto per la vita privata, la Corte Edu osserva come gli agenti responsabili del presunto trattamento discriminatorio fossero stati identificati, che la loro testimonianza fosse stata raccolta, che la legge applicabile prevedesse un mezzo per denunciare episodi di discriminazione e che il ricorrente avesse potuto presentare ricorso in appello. Ciò basta per far dire alla Corte che, sotto il profilo procedurale, nel caso del sig. Muhammad non vi è stata violazione del divieto di discriminazione, letto in combinato con l’art. 8 Cedu. La stessa conclusione viene raggiunta sotto il profilo sostanziale. Infatti, per la Corte Edu non si può affermare che il ricorrente abbia sofferto una discriminazione in ragione della sua origine etnica perché nessuna persona «europea» era stata fermata nello stesso momento in cui veniva controllata la sua identità. Appare assente anche qualsiasi altra circostanza che segnali una motivazione razziale da parte egli agenti o, quantomeno, che riesca a generare una presunzione in grado di invertire l’onere della prova a favore del ricorrente. Poiché tali ulteriori elementi non possono ricavarsi neppure dai rapporti statistici pubblicati da organizzazioni non governative e presentati dal sig. Muhammad per dimostrare l’esistenza di una prassi generale di racial profiling nell’attività di polizia in Spagna, per la Corte Edu non vi è stata alcuna violazione dell’14 Cedu, in combinato con l’art. 8, letto sotto il profilo sostanziale.

Anche il caso Basu c. Germania (Corte Edu, sentenza del 18.10.22) riguarda la presunta violazione del divieto di discriminazione nel godimento del diritto al rispetto per la vita privata e familiare (artt. 14-8), lamentata da un cittadino tedesco di origine indiana che, al confine tra la Repubblica Ceca e la Germania, veniva fermato per un controllo dalla polizia. Nei ricorsi interni, il sig. Basu sosteneva di essere stato l’unica persona, insieme alla figlia, a venire controllata e che non ricorrevano altri motivi per l’accaduto se non il suo colore della pelle. Per i giudici tedeschi, tenuto conto che i controlli al confine erano frequenti, non emergevano motivi discriminatori dalle giustificazioni offerte dalla polizia. Sulla base delle stesse argomentazioni espresse in Muhammad c. Spagna (v. sopra), la Corte Edu ritiene applicabile l’art. 14, letto in combinato con l’art. 8 Cedu, in ragione del fatto che il ricorrente avesse motivi fondati per sostenere di essere stato vittima di discriminazione e degli effetti negativi sulla sua vita privata generati dall’umiliazione di essere stato fermato in pubblico a causa della sua origine etnica. In relazione ai conseguenti obblighi procedurali sopra menzionati (su tali obblighi, oltre la giurisprudenza citata sopra, v. anche Consiglio d’Europa, Council of Europe’s European Commission against Racism and Intolerance (ECRI), General Policy Recommendation No. 11 on combating racism and racial discrimination in policing, 29 giugno 2007, doc. CRI(2007)39), la Corte Edu nota come lo Stato convenuto non si sia realmente attivato per chiarire gli eventi in questione. Mentre un primo rapporto era stato condotto da funzionari gerarchicamente superiori agli agenti coinvolti nel controllo del ricorrente e, come tale, non può essere ritenuto indipendente, i giudici interni non hanno raccolto testimonianze archiviando velocemente il ricorso presentato dal sig. Basu. Tali mancanze fanno sì che vi sia stata una violazione del divieto di discriminazione, letto in combinato con l’art. 8 Cedu. 

In Elmazova e altri c. Macedonia del Nord (Corte Edu, sentenza del 13.12.2022) la Corte Edu riunisce due ricorsi riguardanti un totale di 87 cittadini macedoni di origine Rom, comprendenti genitori e figli in età scolare, che lamentavano una segregazione di fatto dei minori in talune scuole pubbliche tra quelle disponibili nella loro area di residenza. A loro avviso, tale segregazione determinava anche la fruizione di un livello di istruzione qualitativamente inferiore rispetto alle scuole o alle classi frequentate dalla maggioranza degli studenti di origine macedone. Più specificamente, dai dati disponibili per l’anno accademico 2018/2019 relativamente alle scuole situate nel rilevante distretto del Comune di Bitola, dove risiedeva una parte dei ricorrenti, emergeva che nella scuola «G.S.» si concentrava circa l’80% di studenti di etnia Rom. In modo analogo, i dati per il Comune di Shtip, in cui risiedevano il resto dei ricorrenti, dimostravano che, per lo stesso anno accademico, nella scuola «G.D.» due classi su tre erano composte unicamente da studenti di origine Rom. Per la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul caso, tali dati statistici non erano sufficienti a dimostrare la lamentata segregazione dato che l’alta incidenza di studenti di origine Rom era sostanzialmente dovuta alla composizione demografica dei distretti interessati. Tra l’altro, se per Bitola, la Corte costituzionale notava che nessuna richiesta presentata da genitori di origine Rom per trasferire i loro figli nelle altre scuole disponibili nel distretto o in quelli attigui era stata rifiutata, per Shtip evidenziava come le stesse autorità locali avevano intrapreso politiche attive per incentivare l’iscrizione di studenti di origine macedone nella scuola «G.D.». Nonostante ciò, in due ricorsi successivi presentati dallo European Roma Rights Centre alla Commissione per la prevenzione e la protezione contro la discriminazione (organo istituito dalla normativa nazionale contro la discriminazione), quest’ultima riscontrava una discriminazione indiretta in ragione di una sistematica segregazione su base etnica nel sistema di istruzione primaria del Paese. Dopo aver ritenuto di dover valutare i ricorsi riuniti sotto il profilo del divieto di discriminazione, letto in combinato con il diritto all’istruzione (artt. 14-2, Prot. 1) (cfr. Corte Edu, 31.05.2022, X e altri c. Albania, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022), la Corte Edu dichiara innanzitutto inammissibili le doglianze relative a coloro che erano stati inseriti nelle classi miste della scuola «G.D.» non potendosi considerare vittime ai sensi dell’art. 34 Cedu e ammissibili le doglianze dei genitori dei rimanenti studenti in quanto anche essi avevano un legittimo interesse a porre fine alla presunta discriminazione. Per quanto riguarda il merito, se è vero che un trattamento contrario all’art. 14 Cedu può emergere anche da una situazione di fatto, la composizione demografica del distretto dove si colloca la scuola «G.S.» non può ritenersi una ragione sufficiente per giustificare la segregazione degli studenti di origine Rom in quell’istituto. Infatti, la scuola alternativa, frequentata in maggioranza da cittadini di origine macedone, si trova nello stesso distretto a soli 600 metri di distanza. Inoltre, non si possono ritenere responsabili della situazione gli stessi ricorrenti per non aver tentato il trasferimento in quest’ultima scuola. Come ricorda la Corte Edu, anche alla luce della protezione speciale dovuta nei confronti delle persone di origine Rom quali membri di una minoranza ritenuta vulnerabile e particolarmente svantaggiata (oltre alla giurisprudenza citata sopra, v. Corte Edu, Grande Camera, 13.11.2007, D.H. e altri c. Repubblica Ceca; Grande Camera, 16.03.2010, Oršuš e altri c. Croazia), spettava allo Stato convenuto adottare politiche attive per prevenire la sovrarappresentanza della minoranza Rom negli istituti scolastici. Invece, nonostante le raccomandazioni giunte alle autorità garanti contro la discriminazione, esso non solo non si è attivato ma non ha tantomeno avanzato alcuna giustificazione per i mancati interventi. Per quanto riguarda la situazione relativa alla scuola «G.D.», la Corte non riscontra una segregazione perché gli studenti di origine Rom non venivano automaticamente inseriti in una scuola destinata di fatto solo a persone appartenenti a quella minoranza, come dimostrava l’esistenza di almeno una classe mista nell’anno accademico di riferimento. Semmai, la sovrarappresentanza nel totale di studenti iscritti nella scuola «G.D.» era dovuta al rifiuto dei genitori di origine macedone, residenti nel distretto, di iscrivere i loro figli in una scuola frequentata prevalentemente da minori di origine Rom. Per quanto, rispetto alla situazione in «G.D.», lo Stato convenuto si fosse attivato, le misure intraprese non hanno modificato la situazione preesistente. Non potendo dunque concludere che la segregazione emersa nelle due scuole sia oggettivamente giustificata dal perseguimento di un fine legittimo, vi è stata violazione dell’art. 14 Cedu, letto in combinato con l’art. 2, Prot. 1, anche in assenza di un intento discriminatorio. Per tale ragione, ai sensi dell’art. 46 Cedu, la Macedonia del Nord è tenuta a adottare tutte le misure necessarie, come quelle raccomandate dallo European Commission against Racism and Intolerance e dagli equality bodies, per porre fine alla segregazione degli studenti di origine Rom nelle scuole fin qui richiamate.

La rassegna relativa agli artt. 3-6 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 8-14 è di C. Danisi.

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Rubrica di Questione Giustizia & Diritto, Immigrazione e Cittadinanza

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