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Editoriale

Questo numero della Rivista esce in un momento storico senza precedenti. Negli ultimi mesi, l’emergenza sanitaria ha, infatti, condizionato significativamente la vita della maggior parte degli abitanti del pianeta.
Ci si può dunque chiedere quali considerazioni questa inedita situazione abbia suscitato in chi si occupa, per professione, passione o per entrambe tali ragioni, di stranieri.
I tempi di redazione degli interventi contenuti in una Rivista scientifica non hanno consentito ai saggi e ai commenti del presente fascicolo di occuparsi di questo rilevantissimo tema.
Di emergenza sanitaria e soprattutto delle sue ricadute normative e amministrative sicuramente ci si occuperà nei mesi a venire, dal momento che le restrizioni alla libertà di circolazione hanno riguardato e riguardano il diritto dell’immigrazione.
In questa sede, due osservazioni del tutto generali possono essere fatte.
La prima riguarda la circostanza che, in questo periodo, chi si occupa di immigrazione ha potuto vivere sulla propria pelle alcune delle esperienze che spesso ha sentito verbalizzare dai cittadini stranieri.
Si pensi alla restrizione all’accesso ad alcuni diritti sociali e ad alcune libertà fondamentali che ci ha coinvolto.
Durante questa quarantena, è apparso a tutti evidente che alcune libertà che, quando predicate per gli stranieri, raramente sono considerate di per sé meritevoli della concessione di una qualche forma di protezione, sono in realtà essenziali come l’aria.
Si pensi alla scuola. Talvolta, gli stranieri raccontano di avere deciso di lasciare il loro Paese perché l’accesso alla scuola dei figli non era garantito in modo continuativo. Simili ragioni non costituiscono, salvo casi limitati, motivo di riconoscimento della protezione internazionale. Eppure, è oggi chiaro a tutti quanto possa incidere nelle nostre vite il venir meno del modello di scuola cui eravamo abituati. E qualcuno avrà pensato all’art. 10 della nostra Costituzione che, in modo lungimirante, nel declinare il diritto di asilo in Italia, ha saputo tenere conto dell’importanza che può avere nella vita di un uomo la restrizione anche di una singola libertà fondamentale.
Ancora, molti di noi si sono sentiti menomati nel dover rispettare disposizioni che circoscrivevano profondamente le possibilità di movimento. Ed è più facile ora comprendere cosa provi chi veda permanentemente limitata la propria libertà di circolazione per essere nato con il passaporto sbagliato, per motivi molto meno rilevanti di quelli connessi a questioni sanitarie.
Come italiani, infine, ci siamo trovati a vivere sulla nostra pelle la spiacevole sensazione di non essere benvenuti all’estero, perché la nostra cittadinanza è stata, sia pure temporaneamente, associata a quella di portatori di infermità. Si tratta, ancora una volta, di una sensazione con cui i nostri stranieri imparano a convivere costantemente, nella salute e nella malattia, e che oggi, dopo l’esperienza fatta, è più semplice da comprendere.
La seconda riflessione riguarda alcune delle misure adottate dal Governo italiano che hanno avuto direttamente o indirettamente come destinatari gli stranieri. Si pensi in primo luogo alla “sanatoria” adottata in Italia con il decreto legge n. 34/2020.
Nel cercarne l’antecedente causale, viene in mente il titolo di un film di Tullio Giordana, che è anche il titolo di un libro di Maria Pace Ottieri dedicato agli stranieri: quando sei nato non puoi più nasconderti. Esisti e, quindi, inevitabilmente sei visto.
In tempi normali, in Italia, questa proposizione raramente ha corrisposto al vero. Migliaia di stranieri, privi di un titolo di soggiorno nel nostro Paese, occupati nel settore domestico, agricolo, edile, nella logistica o nel turismo, hanno convissuto per anni al fianco di italiani, europei e stranieri regolarmente soggiornanti. Visibili, ma non visti.
Le restrizioni alla circolazione intervenute nei primi mesi dell’emergenza hanno reso impossibile proseguire nella finzione cui ci eravamo abituati, aggravando la vulnerabilità delle persone che vivevano in condizioni già precarie.
Nel momento in cui questi lavoratori stranieri hanno dovuto effettivamente nascondersi, non avendo un titolo che ne legittimasse lo spostamento dalla propria dimora, molti settori sono andati in crisi. La regolarizzazione disciplinata dal decreto legge n. 34/2020 trova la propria origine in questa presa d’atto: si doveva trovare un modo per permettere ai lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno di muoversi sul territorio in un momento in cui ogni singolo movimento doveva essere giustificato. Abbiamo subito lo “sciopero” obbligato di questi lavoratori, e allora, come avviene quando nei rapporti di forza si comprende che l’altra parte, pur apparentemente fragile, ha un’innegabile utilità, siamo stati costretti a riconoscere ad alcuni di questi stranieri (solo quelli operanti nei settori dell’assistenza domestica o dell’agricoltura) dei diritti, sia pure in modo del tutto parziale e insoddisfacente. Tuttavia, è proprio l’intrinseca irragionevolezza della regolarizzazione prevista dall’art. 103, d.l. n. 34/2020 che manifesta la miopia del legislatore, trattandosi di una normativa evidentemente frutto di una mediazione (al ribasso) tra componenti della compagine governativa cui, evidentemente, la pandemia non ha insegnato nulla. In attesa della legge di conversione del decreto legge, che sarà promulgata dopo la chiusura di questo numero della Rivista, e che auspicabilmente amplierà le categorie dei lavoratori ammessi a queste procedure di regolarizzazione, occorre sottolineare con forza l’irragionevolezza insita nella restrizione dell’accesso a queste procedure a solo tre attività lavorative: agricoltura (con allevamento e pesca), colf e badanti. Come se in altri settori, quali l’edilizia, la logistica, la ristorazione o il tessile, non vi fossero lavoratori stranieri “visibili ma non visti”. Analogamente, pare irrazionale la previsione di cui al comma 2 dell’art. 103, d.l. n. 34/2020, secondo cui uno straniero con permesso di soggiorno scaduto dopo il 31.10.2020 può accedere ad un permesso semestrale per ricerca lavoro solo se, in passato, abbia lavorato in uno dei tre settori indicati, salva la possibilità di convertire questo permesso “provvisorio” in permesso per motivi di lavoro subordinato solo se, nel termine di sei mesi, riuscirà a reperire un datore di lavoro in uno di questi settori. Con la conseguenza che un ex bracciante potrà lavorare come badante, ma un ex muratore non potrà essere assunto come mandriano. Eppure, trattasi di attività lavorative per cui non è richiesta una particolare specializzazione. Ancora a proposito di regolarizzazione occorre segnalare, tra le numerose lacune del citato art. 103, il silenzio assordante relativo alle modalità con cui i titolari di un permesso di soggiorno “precario” (quali il permesso per richiesta asilo, assistenza minori, salute, studio) possano accedere alla regolarizzazione nel caso in cui già svolgano attività di lavoro in uno dei tre settori. Come possono trasformare il loro titolo di soggiorno in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato, se la legge richiede una nuova assunzione ovvero la dichiarazione di una pregressa irregolarità e il loro caso non rientra in alcune delle due ipotesi? Dovremmo assistere alla pantomima di formali dimissioni per essere riassunti il giorno dopo? Nel silenzio della legge saranno, come di consueto nella disciplina del diritto degli stranieri, le circolari ministeriali a colmare le lacune normative. E così a irrazionalità si aggiungerà illegittimità, con buona pace dell’art. 10, comma 2, della Carta costituzionale.
Analogamente, merita di essere richiamata la vicenda delle misure urgenti di solidarietà alimentare previste con OCDPC n. 658 del 29 marzo 2020 sotto forma di «buoni spesa». Nell’identificare i destinatari di tali misure, la maggior parte dei Comuni ha fatto riferimento alla consueta cornice ordinamentale in base alla quale i diritti sociali spettano solo agli stranieri regolarmente residenti. La giurisprudenza di merito ha però dichiarato in modo sostanzialmente unanime che anche gli stranieri in posizione di irregolarità presenti in Italia avevano diritto di accedere a tali provvidenze, in quanto le stesse erano espressione del «diritto all’alimentazione, diritto che costituisce il presupposto per poter condurre un’esistenza minimamente dignitose e la base dello stesso diritto alla vita e alla salute», e, pertanto, diritto fondamentale spettante «necessariamente a tutte le persone in quanto tali» (in questo senso, la prima decisione adottata in materia, il decreto del Tribunale di Roma n. 12835/2020 del 22 aprile 2020).
Concludendo, l’emergenza sanitaria, con la forza eguagliatrice della malattia, ha riportato molti in un medesimo orizzonte di umanità, mettendo allo stesso tempo in evidenza l’insostenibilità di alcune diseguaglianze. Speriamo di ricordarcene anche in futuro; come diceva Krishnamurti, non è certo un indice di salute essere ben inseriti in una società malata.

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Rubrica di Questione Giustizia & Diritto, Immigrazione e Cittadinanza

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