Asilo e protezione internazionale

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LO STATUS DI RIFUGIATO

Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
La Corte di Cassazione, (24.11.2017, n. 28152), – pronunciandosi sul ricorso proposto da una cittadina nigeriana di religione cattolica che, in seguito alla morte del marito, si era rifiutata di rispettare le regole consuetudinarie del proprio villaggio, subendo per tal motivo la persecuzione da parte del cognato
(il quale la “rivendicava” per averla come sposa), l’allontanamento dalla propria abitazione, la privazione di tutte le proprietà e della potestà genitoriale sui figli – ha osservato che, ai sensi dell’art. 7, d.lgs. 251/2007, gli atti di persecuzione possono assumere la forma, tra l’altro, di «atti di violenza fisica o psichica» (co. 2, lett. a), o di «atti specificatamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia» (co. 2, lett. f). La Suprema Corte, richiamando gli artt. 3 e 60 della Convenzione di Istanbul dell’11.5.2011 (resa esecutiva in Italia con l. 77/2013) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, e le Linee guida dell’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) del 7.5.2002 sulla persecuzione basata sul genere, ha ribadito che anche gli atti di violenza domestica sono riconducibili all’ambito dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.
Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 12.12.2017 , chiamato a pronunciarsi sulla domanda di protezione spiegata da una giovane donna, orfana, fuggita dalla Nigeria in seguito ai maltrattamenti ed alle violenze subite da parte dello zio che voleva costringerla a sposare, per ragioni economiche, un uomo molto più grande di lei, ha ritenuto sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato con riferimento al motivo dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale (il genere femminile). Nel provvedimento, dopo aver argomentato in merito alla ritenuta credibilità della ricorrente – anche a fronte di una parziale approssimazione di alcuni aspetti del racconto, ritenuta riconducibile alla condizione di stress dovuta alle continue minacce e alle pressioni, e ai maltrattamenti fisici e psichici che possono aver alterato il ricordo e la collocazione precisa dei fatti nel tempo a causa del suddetto trauma subito –, confermata anche dalle fonti relative all’usanza dei matrimoni forzati in Nigeria, è stato ritenuto sussistente il pericolo di persecuzione cui sarebbe soggetta la ricorrente in caso di rientro in Patria, motivato dalla sua appartenenza al genere femminile, dalla sottoposizione al potere dello zio (che la sottoponeva a maltrattamenti pressioni e minacce di morte, con atti che hanno determinato, altresì, la lesione del diritto di scegliere se e con chi contrarre matrimonio) e dall’incapacità per lo Stato di difenderla.
Negli stessi termini si è pronunciato anche il Tribunale di Bologna, (ord. 14.9.2017) ribadendo come il matrimonio forzato vada qualificato come atto di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale. In particolare, nel provvedimento in esame, dopo aver richiamato il contenuto del capitolo VII della Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (capitolo dedicato alla condizione delle donne migranti e richiedenti asilo), si precisa che le violenze fisiche e morali subite dalla ricorrente per la sua condizione di donna (ricorrente che, come dalla stessa riferito, poco più che diciottenne e già fidanzata, era stata minacciata dalla sua famiglia allo scopo di costringerla a sposare un uomo molto anziano che avrebbe potuto aiutare economicamente la famiglia indigente) sono da considerarsi una forma vera e propria di persecuzione e discriminazione.
Ancora in relazione ad un caso di matrimonio forzato, il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 3.10.2017 , ha invece riconosciuto la protezione sussidiaria, evidenziando che la costrizione ad un matrimonio non voluto costituisce grave violazione della dignità e, dunque, trattamento degradante che integra un danno grave.
Ad una giovane donna nigeriana, vittima del fenomeno transazionale della tratta di giovani nigeriane destinate al mercato della prostituzione in Europa, il Tribunale di Milano, ha riconosciuto lo status di rifugiata ( ord. 7.6.2017 ). Il giudice, ritenute pienamente credibili perché sufficientemente dettagliate e circostanziate, le dichiarazioni della ricorrente, ha evidenziato come le stesse trovassero riscontro nei dati oggettivi della giovanissima età della ricorrente, della sua provenienza dall’Edo State, che costituisce un importante snodo del traffico di esseri umani nella Nigeria meridionale, del difficile viaggio affrontato attraverso la Libia e dell’importante debito che deve avere contratto per sostenerne le spese dietro garanzia di una restituzione in tempi contenuti mediante l’esercizio dell’attività di meretricio sotto il vincolo di rituali magici (il cd. juju) e il controllo delle organizzazioni internazionali dedite al traffico di prostitute nigeriane.
Il Tribunale di Milano (29.9.2017) ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un giovane cittadino nigeriano il quale, a sostegno della domanda di protezione, ha dichiarato di non essere omosessuale, ma di essere ritenuto tale dalle autorità locali, in seguito alla scoperta di una relazione intrattenuta, per motivi esclusivamente economici, con un facoltoso studente dello stesso college. Il giudice meneghino ha precisato che: «la discriminazione per l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale (e, nello specifico, l’orientamento sessuale del ricorrente, che, è opportuno ribadire, costituisce un aspetto fondamentale dell’identità umana che una persona non deve essere costretta a nascondere o abbandonare) diventa una forma di persecuzione, atteso che in Nigeria l’omosessualità è un reato ed è punito con la pena detentiva».
 
Obiezione di coscienza
La Corte d’appello di Torino, con ordinanza del 27.3.2017 , dopo aver ricordato che gli atti di persecuzione possono assumere anche la forma di azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie che comportano gravi violazioni dei diritti umani fondamentali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare per motivi di natura morale, religiosa, politica o di appartenenza etnica o nazionale (art. 7 d.lgs. 251/2007), ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un ragazzo proveniente dalla città di Sumy, in Crimea, per motivi di obiezione di coscienza legati alla propria etnia. In particolare, il giudice di secondo grado ha evidenziato: che il richiedente asilo aveva ricevuto due cartoline attestanti la chiamata alle armi da parte delle autorità ucraine (cartoline prodotte in originale con traduzione asseverata); che i documenti di identità del ricorrente dimostravano la sua provenienza dalla città di Sumy; che la città natale del ricorrente era situata in una zona interessata dal conflitto armato con la Russia; che lo Stato ucraino, per fra fronte alle intervenute esigenze belliche, nel 2014 aveva reintrodotto l’obbligo del servizio di leva militare per i giovani di età compresa tra i 18 ed i 25 anni; che, a fronte della sua obiezione di coscienza, in caso di rientro in Patria avrebbe corso il rischio dell’arruolamento forzato, salvo in caso di diserzione la condanna ad una pena detentiva da due a cinque anni.
 
Opinioni politiche
Il Tribunale di Lecce (con sent. 24.9.2017, in Banca dati De Jure), ritenute credibili le dichiarazioni rese da un cittadino pakistano, originario della regione del Kashmir – il quale ha riferito di essere entrato a far parte di un partito politico nel 2011, di essere stato nominato, dopo quasi due anni di militanza Joint Secre, una sorta di aiutante del segretario, a livello di Union Council, di essere stato arrestato una prima volta nel febbraio 2012, trattenuto 24 ore senza alcuna denuncia, picchiato e poi rilasciato ed una seconda nel 2013, in seguito alla sua partecipazione ad una manifestazione organizzata da un gruppo di partiti – ha ritenuto sussistenti i presupposti per lo status di rifugiato per motivi politici. In particolare, il Tribunale, contrariamente rispetto a quanto argomentato dalla Commissione territoriale, ha ritenuto sufficientemente dettagliate le dichiarazioni del ricorrente, precisando che anche le risposte relative all’ideologia del partito di appartenenza (ridotta, dal ricorrente all’unico obiettivo di ottenere la libertà e l’indipendenza del Kashmir) dovevano essere valutate in ragione del contesto politico del richiedente (proveniente da un villaggio di circa 1000 abitanti) nel quale doveva ritenersi verosimile che la preoccupazione principale fosse quella del rispetto dei diritti fondamentali e la cessazione di ingiustizie nei confronti degli abitanti del Kashmir, la loro libertà e – in prospettiva – l’indipendenza della regione.
 
Persecuzione per motivi di religione
La Corte d’appello di Bari (26.10.2017) , richiamando quanto affermato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati con riferimento alla riconducibilità al sintagma “religione” delle convinzioni teiste, non teiste, agnostiche o atee, della partecipazione o della non partecipazione a determinati riti, pubblici o privati, ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un giovane, fuggito dalla Nigeria per timore di essere ucciso dai membri della Ogbony Fraternity, in seguito al rifiuto di entrare a far parte della setta, nonostante il padre, a sua volta membro, avesse giurato che il suo primogenito gli sarebbe succeduto. I giudici di secondo grado hanno evidenziato: che la Ogbony Fraternity aveva delle origini molto antiche e si presentava come un culto, caratterizzata da elementi magici-religiosi; che le fonti consultate dai giudicanti annoveravano, tra le sue regole, la trasmissione ereditaria della qualità di membro; la setta degli Ogbony è qualificabile come agente di persecuzione privato, a fronte del quale le istituzioni statali non possono offrire protezione.
Il fondato timore di subire persecuzioni per la religione cristiana professata ha portato il Tribunale di Bologna (9.10.2017) a riconoscere ad una cittadina cinese lo status di rifugiata. La donna, – pur non rivestendo posizioni di particolare rilievo all’interno dell’house church cui era assidua frequentatrice –, come dalla stessa riferito con dichiarazioni ritenute credibili dal giudice, è stata presa di mira dalla polizia, insieme ad altri fedeli, al fine di ottenere informazioni sulle identità dei loro leader e sui luoghi di riunione. Ha subito atti di tortura (i cui esiti sono ancora apprezzabili, come risulta dalla diagnosi di disturbo post traumatico da stress) – in un contesto nel quale, come risulta dalle fonti consultate dal giudicante, si è assistito ad un recente aggravamento della persecuzione religiosa ai danni dei cristiani – ed è stata costretta a trasferirsi in un’altra zona del paese. Nel provvedimento in esame è ribadito come «la libertà religiosa debba ergersi al rango dei diritti umani fondamentali, avendo essa riferimento sia le libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, sia i diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo e dalle Convenzioni internazionali».
 
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
 
Art. 14 lett. c) d.lgs. 251/2007
La Suprema Corte sez. VI-1, ordinanza 21.7.2017, n. 18130, dopo aver richiamato la giurisprudenza della stessa Corte di cassazione, sez. VI-I, ord. n. 15466/2014, che richiama ampiamente Corte di giustizia UE, n. 172/2009, Elgafaji, nonché n. 285/2012, Diakitè, ha precisato che: «al fine di rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 14, lett. c), non è necessaria la rappresentazione coerente di un quadro individuale di esposizione diretta al pericolo per la propria incolumità, essendo sufficiente tratteggiare una situazione nella quale alla violenza diffusa e indiscriminata non sia contrapposto alcun anticorpo concreto dalle autorità statuali. Le eventuali contraddizioni soggettive non escludono questo nesso causale più ampio, ferma la necessità un’indagine officiosa sull’effettivo contrasto alla violenza svolto dalle autorità statuali del Paese di provenienza e sul pericolo per l’incolumità cui sia esposto il cittadino straniero in caso di rientro nel Paese d’origine, pur se non ricollegabile in via diretta e causale alla condizione soggettiva narrata, ai sensi degli artt. 8 e 14, lett. c), del d.lgs. n. 251/2007 (sez. VI-I, ord. n. 15466/2014 cit.)».
 
Costa D’Avorio
Il Tribunale di Palermo (ordinanza dell’1.8.2017) , ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un richiedente proveniente dalla Costa D’Avorio, evidenziando che «lo stato di perenne contrasto sul territorio della grande Repubblica equatoriale ivoriana […] ha fatto precipitare l’intero territorio ivoriano in una stato di conflitto armato interno perenne, che non solo destabilizza l’intera gestione amministrativa della nazione ivoriana, ma ha provocato la integrale invivibilità di territorio importati per la popolazione».
 
Nigeria
La condizione di un giovane nigeriano, proveniente da Jos, di religione cristiana e già vittima di atti di violenza da parte di un gruppo di musulmani (atti di violenza perpetrati nel Nord della Nigeria, ove si era recato per recuperare dei beni della famiglia) ha portato il Tribunale di Bologna (ord. 27.11.2017) a ritenere sussistente i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, con riferimento alla condizione di conflitto armato interno nel Plateau State. Nel provvedimento in esame si ricorda come il Plateau State con la c.d. crisi di Jos ha visto dall’inizio del nuovo millennio grandi sconvolgimenti al suo interno con migliaia di persone uccise ed altrettante sfollate. I problemi di questa regione sono in gran parte dovuti alla violenza religiosa tra musulmani e cristiani, alle questioni etniche tra fulani, hausa ed ibo complicate da annose dispute relative all’accesso alla terra ed alle risorse naturali. La situazione della regione di provenienza del ricorrente, come affermato dal giudice bolognese, è tale da indurre a ritenere che lo Stato nigeriano, per un verso, abbia dimostrato di non sapere proteggere efficacemente i propri cittadini dagli attacchi dei gruppi terroristici e, per altro verso, si sia reso responsabile di violenze e violazioni sistematiche dei diritti e delle libertà fondamentali, fattori idonei a dissuadere la popolazione civile dal richiedere aiuto all’autorità.
 
Art. 14 lett. a) e b), d.lgs. 251/2007
Il Tribunale di Milano (ordinanza del 6.7.2017) – decidendo sul ricorso di un ragazzo nigeriano, accusato, ingiustamente, dell’omicidio di un collega (dallo stesso non commesso), fuggito dopo aver scontato un periodo di detenzione proprio a causa della predetta falsa accusa e ricercato dalla polizia nigeriana – ha riconosciuto al ricorrente la protezione sussidiaria. Con riferimento al rischio di subire la pena di morte in relazione all’omicidio del quale era ingiustamente accusato, il giudice meneghino, dopo aver richiamato quanto affermato dalla Suprema Corte (nella pronuncia n. 14700/17) ha sottolineato come la pena di morte sia prevista in un numero elevato di delitti comuni tra i quali proprio l’omicidio. Ha poi evidenziato come benché ci siano comunque delle procedure giudiziarie formalmente iniziate, è comunque ancora presente una diffusa pratica di risoluzione di conflitti in via non ufficiale, dovuta alla presenza di ostacoli radicati, che non permettono di risolvere formalmente e quindi in via ufficiale tutte le denunce.
Il Tribunale di Venezia, con ordinanza del 2.8.2017 , pronunciando sul ricorso di un cittadino del Ghana – fuggito dal Paese d’origine perché accusato di truffa in relazione ad un episodio di estrazione illegale d’oro – ha affermato che, in caso di detenzione, egli sarebbe esposto al rischio di un trattamento inumano e degradante. Nell’ordinanza si legge che la situazione delle carceri ghanesi, la ancora scarsa possibilità di farsi assistere da un difensore d’ufficio, e la condotta violenta delle forze dell’ordine, come confermato dai rapporti di Amnesty International consultati dal giudicante, sono tali da far ritenere che il ricorrente, una volta tornato nel Paese d’origine, sarebbe esposto al rischio di subire un grave danno.
Il Tribunale di Bologna (17.8.2017) ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un giovane fuggito da un piccolo villaggio del Senegal, dopo aver provato a chiedere aiuto all’autorità civile e musulmana del suo villaggio, per paura delle violenze e delle minacce perpetrate dal padre, capo del villaggio per le pratiche religiose (pratiche che comprendevano anche sacrifici umani), e dal gruppo dei praticanti dei riti al Bois Sacreè. Il giudice bolognese ha ritenuto che la minaccia all’incolumità del richiedente, il quale si era rifiutato di seguire il padre nella pratica della religione tradizionale, integri il trattamento inumano e degradante cagionato da un agente privato cui lo Stato non ha la forza di opporsi (come confermato dalle fonti internazionali relative alla scarsa protezione offerta ai civili dalle forze di polizia in Senegal).
Le persecuzioni perpetrate ai danni di un cittadino cinese, accusato di aver effettuato attività di proselitismo per il culto della Chiesa di Dio Onnipotente, hanno portato il Tribunale di Roma (ord. 25.9.2017) a riconoscere al ricorrente la protezione sussidiaria. A sostegno del ricorso, il ricorrente aveva evidenziato che la polizia lo aveva inizialmente minacciato e che, in seguito al ritrovamento di filmati, da lui realizzati, diretti al proselitismo, per paura di essere arrestato, era stato costretto ad abbandonare la Cina. Il giudice capitolino, dopo aver definito gli elementi fondamentali che consentono di distinguere il fenomeno religioso da altri fenomeni di carattere sociale che rilevano nell’ambito del diritto interno, ha concluso che la c.d. Chiesa di Dio Onnipotente non sia una religione in senso stretto, ma un movimento di preghiera spontaneo, aggregato su regole embrionali di una forma di religiosità intimistico-spirituale. In assenza di elementi di certezza circa l’entità del fenomeno religioso in esame e alla luce dell’atipicità delle forme di espressione del movimento di appartenenza del ricorrente, va esclusa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ma, in considerazione del fatto che il ricorrente è oggetto di azione persecutoria dell’autorità perché ritenuto osservante di un movimento contrario all’ordine pubblico ed eversivo per l’ordinamento cinese, devono ritenersi sussistenti i presupposti per la protezione sussidiaria.
 
LA PROTEZIONE UMANITARIA
nella protezione internazionale
La protezione umanitaria è una delle forme riconoscibili all’interno del sistema della protezione internazionale su cui è senza dubbio ampio il dibattito tra i vari attori che operano nel procedimento amministrativo e giurisdizionale, nel tentativo di riempire di contenuto la norma di salvaguardia rappresentata dall’art. 5, co. 6 TU 286/98. La complessità di dar corpo ai tre presupposti della disposizione non consente di parlare, oggi, di un orientamento giurisprudenziale consolidato, al contrario si sta assistendo ad una significativa diversità di interpretazione ed applicazione tra i giudici di merito e la Corte di cassazione, soprattutto con riguardo a situazioni nelle quali vengono in rilievo la condizione di povertà nel Paese di origine, le ragioni di salute accertate in Italia e, non da ultimo, l’integrazione sociale, sia lavorativa che di altra natura. Anche rispetto all’incidenza del trattamento subito nei Paesi di transito della migrazione si riscontra un diverso approccio tra giurisprudenza di legittimità e quella di merito.
Le decisioni che qui si pubblicano danno conto di questo dibattito, ma è evidente che si è solo all’inizio di un lungo cammino.
 
Povertà, salute, integrazione sociale
Con ordinanza n. 23604/2017 la Corte di cassazione ha censurato una sentenza d’appello che aveva annullato la decisione di 1^ grado, con cui era stata riconosciuta la protezione umanitaria ad una richiedente la protezione internazionale del Pakistan. La Corte d’appello aveva ritenuto non credibili le dichiarazioni della donna, accusata di blasfemia, per difetto di prova della denuncia ed in quanto il fatto era avvenuto in ambito privato-lavorativo. Decisione a cui era giunta nonostante avesse accertato la grave punibilità della blasfemia in quel Paese e l’esistenza di guerre religiose.
La Suprema Corte ha censurato detta pronuncia, innanzitutto per avere travisato fatti decisivi risultanti dagli atti di causa, omettendo, cioè, di considerare che la richiedente non aveva mai affermato di essere stata denunciata ma di essere fuggita a causa della minaccia di denuncia e che la sorella, che l’aveva aiutata a sottrarsi al sequestro, si era dovuta spostare in altra località per evitare ritorsioni. Inoltre la Corte di legittimità ha cassato la sentenza d’appello perché ha erroneamente escluso la protezione di cui all’art. 14, d.lgs. 251/2007 qualificando i fatti come privati, nonostante il chiaro disposto di cui agli artt. 5 e 6 del medesimo d.lgs., i quali impongono di accertare l’effettività della protezione statale nel caso il rischio di danno sia provocato da agenti privati.
Infine, la Cassazione ha censurato la sentenza d’appello per avere escluso anche la protezione umanitaria facendo «implicito ed erroneo riferimento ai medesimi presupposti (ritenuti insussistenti) della protezione internazionale, in tal modo falsamente applicando i parametri normativi propri della protezione umanitaria».
Decisione che conferma l’orientamento oramai costante della Corte di legittimità, secondo cui la valutazione in ordine alla tutela umanitaria deve essere svolta in maniera autonoma rispetto ai presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 15466/2014, n. 26566/2013, n. 21903/2015).
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 28015/2017 – rigettando un ricorso proposto contro il diniego di riconoscimento della protezione umanitaria motivata per la «compromissione del diritto alla salute e del diritto all’alimentazione, derivante dalle condizioni economiche di povertà nelle quali egli versava» nel Paese di origine unitamente alla famiglia – ha escluso che quella condizione rappresenti un presupposto per l’applicazione dell’art. 5, co. 6, TU 286/98.
Dopo avere ribadito un orientamento costante, secondo cui l’asilo politico ex art. 10, co. 3 Cost. è oggi interamente attuato attraverso il sistema pluralistico della protezione internazionale, la Corte ha affermato che «il diritto alla protezione umanitaria non possa essere riconosciuto per il semplice fatto che lo straniero versi in non buone condizioni economiche o di salute, necessitando, invece, che tale condizione sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza, in conformità al disposto degli artt. 2, 3 e 4 della CEDU (Cass. 21/12/2016, n. 26641)».
Decisione che desta perplessità, perché fa coincidere i presupposti di cui all’art. 5, co. 6 TU 286/98 con quelli ex art. 14, lett. a) e b) d.lgs. 251/2007, oltre a circoscrivere immotivatamente la protezione umanitaria ai soli obblighi internazionali quali quelli contenuti negli artt. 2, 3 e 4 CEDU, per di più con ulteriore restrizione dell’ambito di applicazione, trattandosi delle tre norme inderogabili in assoluto ex art. 15 della Convenzione. Non pare davvero che un simile orientamento sia conforme alla complessità ed alla natura dell’art. 5, co. 6 TU 286/98, che individua tre distinti presupposti: i seri motivi umanitari, gli obblighi costituzionali e gli obblighi internazionali, delineando, dunque, quel ampio “catalogo aperto” (non pre-determinabile né racchiudibile in un elenco tassativo) che in altre occasioni la medesima Corte di cassazione ha affermato proprio per qualificare la protezione umanitaria (Cass. civ. n 26566/2013 - 15466/2014).
 
Con ordinanza n. 25075/2017 la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso di un richiedente la protezione internazionale libanese, confermando la decisione di 2^ grado che aveva ritenuto inverosimile il rischio di danno grave in quanto egli sia era allontanato dal Paese dopo 2-3 anni dalle minacce e vi aveva poi fatto rientro.
La Corte ha rigettato l’impugnazione anche nella parte in cui si chiedeva il riconoscimento della protezione umanitaria «in ragione della buona conoscenza della lingua italiana, dello svolgimento di attività lavorativa in Italia e dell’assenza di condanne penali», ritenendo che siano «profili non rilevanti come presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, che consegue, al contrario, alla sussistenza di “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” (art. 5, co. 6, d.lgs. 286/98)».
Decisione che, non può non notarsi, è priva di effettiva motivazione, risolvendosi in una mera negazione, senza offrire elementi che possano far comprendere perché l’integrazione sociale (tale può essere qualificato l’insieme di conoscenza della lingua italiana, lavoro e assenza di pregiudizi penali) sia esclusa dall’ambito di applicazione dell’art. 5, co. 6 TU 286/98.
 
Con ordinanza 5.5.2017 il Tribunale di Cagliari RG. 558/2015 ha negato la protezione sussidiaria ad un richiedente la protezione internazionale del Bangladesh, ritenendo non integrata l’ipotesi di cui all’art. 14 lett. c) d.lgs. 251/2007, pur se il Paese è caratterizzato da intensa violenza. Ha, tuttavia, riconosciuto la protezione umanitaria con riguardo all’accertata integrazione sociale in Italia, comprovata da un’attività lavorativa in corso ed avuta considerazione alle sue non buone condizioni di salute. In particolare, secondo il Tribunale sardo «In siffatta situazione, il ritorno nel Paese d’origine (dal quale ha affermato di essersi allontanato da circa due anni) comporterebbe per il ricorrente la perdita del lavoro e l’improvvisa interruzione dal già avviato percorso di inserimento nella formazione sociale ove si svolge la sua personalità (artt. 2 e 35 Cost.)».
La decisione contrasta, dunque, le sopra riportate decisioni della Corte di cassazione che ritiene irrilevanti i motivi di salute e in generale l’integrazione sociale, offrendo una prospettiva concreta di individuazione dei presupposti di cui all’art. 5, co. 6 TU 286/98. L’ordinanza, peraltro, è interessante anche perché riconosce la protezione umanitaria nonostante abbia qualificato le dichiarazioni del richiedente poco circostanziate e contraddittorie.
 
Con ordinanza 4.8.2017 il Tribunale di Bari RG. 11929/2015 , dopo avere escluso la credibilità delle dichiarazioni di un richiedente della Costa d’Avorio (definite generiche) e per difetto di allegazione di specifiche circostanze rientranti nella protezione internazionale, gli ha riconosciuto la protezione umanitaria per l’integrazione sociale in Italia (attività lavorativa svolta e buona conoscenza della lingua italiana), ed in quanto il suo rientro nel Paese di origine lo esporrebbe ad una condizione di vulnerabilità non solo per le difficoltà tipiche di un nuovo reinserimento ma perché «si troverebbe in una condizione di estrema specifica vulnerabilità, idonea a compromettere la sua possibilità di esercitare i diritti fondamentali, legati anche solo alle scelte di vita quotidiana».
 
Il Tribunale di Bologna, con ordinanza 12.8.2017 RG. 13525/2016 ha escluso a un richiedente della Costa d’Avorio la sussistenza dei presupposti della protezione internazionale, per difetto di attualità del timore di persecuzione o di danno grave, essendo i fatti narrati (ritenuti credibili secondo i criteri di cui all’art. 3 d.lgs. 251/2007) risalenti al conflitto politico e sociale del 2010/2011. Ha, tuttavia, riconosciuto la tutela ex art. 5, co. 6 TU 286/98 a causa dello stato di salute del richiedente, estremamente precario e debitamente certificato (documentazione che non era stata prodotta in Commissione ma senza che detto organo abbia ritenuto di acquisirla prima di decidere sulla domanda, nonostante in sede di audizione il richiedente l’avesse esplicitamente indicata).
Richiamata la pronuncia della Corte costituzionale n. 252/2001, che ha affermato l’esistenza anche per le persone straniere del diritto fondamentale alla salute nel suo nucleo irriducibile (art. 32 Cost.), il giudice felsineo ha riconosciuto la protezione umanitaria in relazione a detto obbligo costituzionale, dopo avere accertato attraverso varie fonti di informazione (in ossequio a quanto previsto dalla normativa) che il richiedente non avrebbe potuto analoga tutela nel Paese di origine.
 
Il Tribunale di Torino, con ordinanza 26.8.2017 RG. 18887/2016 , ha negato ad un richiedente del Gambia la protezione internazionale e tutte le forme di protezione, compresa quella umanitaria. Quanto alla protezione sussidiaria (il rifugio non era oggetto di domanda giudiziale) è stata esclusa perché ritenuti inverosimili i fatti narrati (incendio di una foresta) ed il rischio di detenzione, trattandosi di fatto al più colposo e potendo l’interessato difendersi nell’eventuale giudizio a suo carico. Decisione che già sotto questo profilo lascia perplessi, perché assume che sia certamente possibile escludere il dolo, che in Gambia esista un’ipotesi colposa che non comporti la carcerazione, che in quel Paese ci sia un effettivo sistema di difesa legale e di accesso al gratuito patrocinio, senza che nella decisione siano indicate le fonti di informazione da cui quei convincimenti sono stati tratti.
Quanto alla protezione umanitaria, il Tribunale di Torino la nega dopo una ricostruzione dell’istituto e dopo avere precisato che i motivi posti a fondamento della richiesta sono, nel caso trattato, diversi da quelli sottesi alle forme maggiori di tutela, riferendosi, infatti, alle attività di integrazione sociale svolte durante il periodo di accoglienza come richiedente asilo. Secondo detto giudice, tali attività sono irrilevanti ai fini della tutela umanitaria, in quanto rappresentano esclusivamente le opportunità previste dal sistema di accoglienza di cui al d.lgs. 142/2015 ma solo in vista dell’accoglimento della domanda di protezione internazionale e di un futuro percorso di integrazione. Quelle attività, dunque, non rappresentano una condizione di vulnerabilità atta a consentire il riconoscimento della tutela di cui all’art. 5, co. 6 TU 286/98.
 
Con ordinanza 21.12.2017 il Tribunale di Firenze ha riconosciuto la protezione umanitaria a un richiedente del Senegal (Regione di Thies) che nel 2010 aveva lasciato il Paese dopo essere caduto in indigenza per la perdita del lavoro conseguente alla vendita dei terreni demaniali che coltivava in affitto.
In giudizio era stata contestata la decisione della Commissione territoriale per la sola parte relativa al diniego della tutela umanitaria, che in effetti il Tribunale fiorentino ha riconosciuto, pur avendo rilevato una contraddittorietà delle dichiarazioni (ritenuta irrilevante essendo chiara la ragione della migrazione), dopo avere accertato che effettivamente il richiedente inviava somme di denaro alla famiglia rimasta in Senegal in tal modo provvedendo al loro sostentamento, ed affermando che «Vero è che le ragioni primarie allegate sono economiche ma è anche vero che esse si traducono in pregiudizi gravi a diritti essenziali come la salute intesa come integrità psico-fisica tale da garantire la sussistenza quando le condizioni appaiono estremamente degradate come quelle in cui versa la famiglia del richiedente ed in cui versava il richiedente nel Paese di origine».
Il Tribunale ha valorizzato anche l’attività di volontariato svolta dal richiedente nel Centro di accoglienza ove è ospitato.
Pronuncia che collega la seria povertà alla lesione di diritti fondamentali, evocando quel diritto alla dignità di cui all’art. 2 della Costituzione.
 
Il Tribunale di Trieste, con ordinanza 22.12.2017 RG. 686/2017 , ha negato a un richiedente del Pakistan la protezione internazionale ritenendo le sue dichiarazioni prive di riscontro e non esplicative, dunque non fondato il timore di persecuzione o di rischio di danno grave, escludendo anche l’esistenza di una situazione di conflitto armato interno nel Punjab, area di provenienza del richiedente.
Tuttavia, il Tribunale ha riconosciuto la protezione umanitaria in quanto era documentato lo svolgimento di attività lavorativa a tempo indeterminato e pertanto la sua integrazione sociale in Italia. Significativo il passaggio in cui si afferma che «il diritto umano al lavoro va tutelato per la correlazione esistente tra lo svolgimento di attività lavorativa e la condizione di salute latamente intesa, ovvero considerata non solo sul piano della ricaduta del lavoro sulla capacità di reperire le risorse materiali necessarie per l’esistenza a salvaguardia dello stato di salute, ma anche sotto il profilo psichico, risultando l’attività lavorativa inscindibilmente connessa allo sviluppo della personalità nel contesto sociale», richiamando espressamente l’art. 2 della Costituzione.
È una delle poche (quantomeno conosciute) pronunce che indica la cornice costituzionale al concetto di integrazione (pur accolto in altre decisioni), ovverosia l’obbligo costituzionale di garantire i diritti inviolabili della persona, tra i quali indubbiamente c’è il lavoro, presupposto imprescindibile per la dignità della persona.
 
Paesi di transito: la Libia
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 2861/2018, ha dichiarato inammissibile un ricorso proposto da un richiedente la protezione internazionale il quale aveva chiesto tale tutela in ragione del grave trattamento subito in Libia. Secondo il Giudice di legittimità «il ricorrente non spiega quale connessione vi sia tra il suo transito per il territorio libico ed il contenuto della propria domanda di protezione internazionale, con ciò rendendo quella parte della sua vicenda effettivamente irrilevante». Prosegue la Corte affermando che l’obbligo di esaminare la domanda di protezione secondo i criteri di cui all’art. 3, d.lgs. 251/2007 e art. 8, d.lgs. 25/2008 «mira solo, ad una ricostruzione della vicenda individuale in vista della valutazione complessiva della credibilità del dichiarante, non certo ad ottenere, in ragione del fatto che in un Paese di transito (nella specie: la Libia) si consuma un’ampia violazione dei diritti umani, puramente e semplicemente l’accoglimento della propria domanda di protezione internazionale, viceversa da valutare considerando essenzialmente le connessioni tra la vicenda individuale con la situazione del Paese di provenienza accertata secondo le regole probatorie già enunciate da questa Corte».
In buona sostanza, secondo la Corte non è sufficiente avere subito gravi violazioni dei diritti umani per ottenere il riconoscimento della protezione internazionale, dovendo spiegare quale sia il collegamento tra i primi e la seconda.
 
Il Tribunale di Catania, con ordinanza 26.4.2017 (RG. 9275/2012) dopo avere escluso a un richiedente della Costa d’Avorio la protezione internazionale per difetto di attualità del rischio di danno grave, ha riconosciuto la protezione umanitaria in collegamento con la sua pregressa permanenza in Libia per 3 anni e la necessità di lasciare quel Paese a causa della nota situazione di violenza. Secondo il Tribunale la condizione del richiedente «è inquadrabile nell’ambito dei “motivi umanitari” alla luce del noto conflitto civile libico, configurando una situazione specifica dotata dei caratteri di eccezionalità e straordinarietà e che appare senz’altro idonea a fondare la pronuncia di accertamento invocata».
 
Con ordinanza 6.12.2017 (RG. 10172/2017) il Tribunale di Genova ha riconosciuto la protezione umanitaria a un richiedente del Ghana sia per i gravi traumi subiti in Libia, sia tenuto conto del buon percorso di integrazione sociale intrapreso in Italia, che verrebbe vanificato in caso di rientro nel Paese di origine.
Sotto il primo profilo, il giudice ligure ha evidenziato la gravità delle violenze subite, confermate da innumerevoli fonti di informazione, applicando in analogia il principio umanitario affermato dall’UNHCR nel manuale «La tutela dei richiedenti asilo - Manuale giuridico per l’operatore», secondo cui non è rimpatriabile una persona che sia stata colpita da «atroci forme di persecuzione di cui stia ancora soffrendo il trauma», anche se «una futura reiterazione delle stesse appaia oggettivamente irrealistica o inverosimile».
Si tratta, per l’appunto, di un principio di natura umanitaria, che rientra appieno nell’ambito di applicazione dell’art. 5, co. 6, TU 286/98.
 
La protezione umanitaria
In questa sezione sono indicate le pronunce che riguardano la protezione umanitaria, ex art. 5, co. 6 TU 286/98, richiesta direttamente al Questore o all’autorità giudiziaria, in entrambi i casi al di fuori del sistema della protezione internazionale. Si tratta di un istituto introdotto nel 1998 dalla legge n. 40/98 (cd. Turco-Napolitano), poi trasfusa nel TU d.lgs. 286/98, che non ha avuto in passato grandissima diffusione, per varie ragioni, ma che negli ultimi anni si sta affacciando sempre di più nel mondo giudiziario. La mancanza di una disciplina processuale (non delineata nemmeno dalla legge n. 46/2017) determina una differente “scelta” del rito processuale (ordinario o sommario di cognizione) a seconda del foro, con intuibili conseguenze, sia sotto il profilo dell’onere probatorio che delle regole processuali in genere, che dei tempi di definizione delle controversie. È probabile che l’aumento delle domande giudiziali attivabili ai sensi dell’art. 5, co. 6 TU 286/98 indurrà una maggiore attenzione alla materia e pertanto una maggiore chiarezza del tipo di azione sotteso.
Non è in discussione, invece, che queste controversie siano di competenza del giudice ordinario, alla luce dei principi affermati dalla Corte di cassazione nelle pronunce a Sezioni Unite n. 19393/2009, n. 19577/2010, n. 5059/2017.
 
Con sentenza n. 2094/2017 del 14.6.2017 (RG. 7636/2014) il Tribunale di Firenze ha accolto la domanda di un cittadino albanese che aveva chiesto al Questore il rilascio di un permesso di soggiorno umanitario, ai sensi dell’art. 5, co. 6 TU 286/98, in ragione di una seria patologia di cui soffriva. Egli era entrato minorenne sul territorio nazionale e affidato in tutela ad una zia, in quanto in Albania la malattia non gli era stata diagnosticata correttamente, venendo di conseguenza sottoposto a cure errate e pericolose per la sua stessa sopravvivenza. Già da prima dell’azione giudiziaria, il ragazzo era in cura presso l’ospedale della città toscana dove abitava.
Da evidenziare che la controversia è stata proposta direttamente all’autorità giudiziaria, senza chiedere preventivamente al Questore il rilascio del permesso umanitario.
Dopo avere espletato una consulenza tecnica d’ufficio, finalizzata sia ad accettare la patologia che la possibilità del giovane di essere curato adeguatamente in Albania, il Tribunale ha riconosciuto il suo diritto al permesso umanitario, in attuazione dell’art. 32 della Costituzione, pur nell’impossibilità di verificare l’efficacia, o meno, del sistema sanitario albanese e tenuto conto della competitività di quello italiano.
La pronuncia tratta anche di questioni procedurali, ovverosia se l’azione giudiziaria sia possibile anche in assenza di provvedimento di diniego del Questore (sul rilascio permesso di soggiorno). Il Tribunale risponde affermativamente, trattandosi di diritto soggettivo e pertanto rientrante nel potere giudiziario il suo accertamento. Tuttavia, secondo il giudice fiorentino, non è consentito all’autorità giudiziaria ordinare al Questore il rilascio del titolo di soggiorno, per di più in mancanza di un provvedimento amministrativo impugnato.
 
Con ordinanza 2.10.2017 (RG. 659/2016) il Tribunale di Aosta ha riconosciuto ad un cittadino pakistano, arrivato in Italia nel 2012, il diritto al permesso di soggiorno umanitario, ex art. 5, co. 6 TU 286/98, sulla base dell’attività lavorativa svolta sin dal 2013 e tenuto conto della notoria instabilità del Pakistan.
Affermata la natura di diritto soggettivo della richiesta (ex Cass. SU 19393/2009), e qualificato l’art. 5, co. 6 «clausola di salvaguardia del sistema che consente l’autorizzazione al soggiorno in tutte quelle fattispecie concrete che non trovano una compiuta corrispondenza in fattispecie astratte previste dalla normativa», il Tribunale ha ravvisato nella condizione del ricorrente l’esistenza di seri motivi umanitari collegati alla «esigenza di tutela dei diritti umani imposta in via generale dall’art. 2 della Costituzione e dallo stesso diritto dell’Unione europea».
Il suo rimpatrio, infatti, gli imporrebbe di affrontare in Pakistan «situazioni di difficoltò materiali, economiche e sociali che gli impedirebbero di condurre una vita dignitosa come quella che ha costruito in Italia».
Decisiva, in questa pronuncia, la valorizzazione del lavoro come presupposto per la realizzazione della dignità umana.
 
La revoca delle misure di accoglienza
Con sentenza n. 949/2017 del 7.8.2017 il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte ha annullato la revoca delle misure di accoglienza di un richiedente la protezione internazionale ospitato in una struttura dello SPRAR, disposta per reiterate e gravi violazioni del regolamento interno della struttura.
Dopo un’istruttoria processuale con cui il Tar ha più volte chiesto all’amministrazione di produrre la documentazione a sostegno della revoca, senza che a ciò sia stato ottemperato se non tardivamente (con conseguente inammissibilità della produzione e inutilizzabilità processuale della stessa), il giudice amministrativo ha censurato il provvedimento per violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, ex art. 7 legge n. 241/90 e s.m. Obbligo che, si legge in motivazione, è propedeutico al rispetto della garanzia del contraddittorio, nell’ambito del quale il destinatario dell’atto che la PA intende emettere può partecipare ed esercitare il suo diritto di difesa, spiegando il proprio comportamento al fine di consentire all’amministrazione di svolgere un corretto procedimento.
Obbligo che può essere omesso solo a fronte di particolari esigenze di celerità, valutabili caso per caso e per il singolo procedimento.
Nel caso trattato, tali esigenze non sono state indicate dal prefetto, che ha disposto la revoca delle misure di accoglienza, violando anche il principio di proporzionalità della misura, impedendo non solo all’interessato di difendersi ma alla pubblica amministrazione di valutare possibili «soluzioni alternative idonee a realizzare l‘interesse pubblico con il minor aggravio possibile».
 
Con sentenza n. 872/2017 del 27.11.2017 il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha annullato il provvedimento con cui era stata disposta la revoca delle misure di accoglienza di un richiedente la protezione internazionale ospitato in una struttura pubblica a seguito di denuncia per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti.
L’annullamento è stato motivato in ragione dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 legge n. 241/90 e s.m., non ritenendo legittima la giustificazione della pubblica amministrazione, secondo cui tale obbligo poteva essere omesso ai sensi dell’art. 21-octies della medesima legge, in quanto il provvedimento finale non sarebbe potuto essere diverso da quello emesso. Il Tar, infatti, ha ritenuto inapplicabile tale norma trattandosi di provvedimento discrezionale e non vincolato.
Inoltre, il Tar ha affermato l’irrilevanza del mero deferimento all’autorità giudiziaria, rilevando invece il concreto comportamento di colui che è denunciato e questo, sembra dire il Tar, impone doverosamente l’attivazione del contraddittorio procedimentale preventivamente all’adozione del provvedimento finale.
 
I provvedimenti di rinvio ex regolamento n. 604/2013 Dublino III
Con sentenza n. 5085/2017 del 3.11.2017 il Consiglio di Stato ha annullato un provvedimento con cui l’Unità Dublino italiana aveva disposto il rinvio verso la Bulgaria di un richiedente la protezione internazionale afghano, dopo avere riscontrato attraverso il sistema EURODAC che egli aveva richiesto in precedenza il medesimo riconoscimento in detto Paese.
Il ricorso proposto dal richiedente era stato respinto dal Tar Lazio dopo che questi aveva ritenuto, sulla base di un’istruttoria svolta, che le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in Bulgaria non fossero caratterizzate da carenze sistemiche ai sensi dell’art. 3 regolamento n. 604/2013. Il Consiglio di Stato non è stato dello stesso avviso, in quanto, dopo analoga istruttoria svolta attraverso il Ministero per gli affari esteri, ha ritenuto che non si possa escludere con certezza il rischio di trattamenti inumani e degradanti, in quanto le relazioni del MAE, pur dando atto di un certo miglioramento delle condizioni di accoglienza, non precisano affatto quali esse siano effettivamente e secondo quali parametri sia stato valutato l’assunto miglioramento.
In particolare, secondo il Consiglio di Stato, le relazioni del MAE «danno atto di un sostanziale miglioramento di tali condizioni, soprattutto negli ultimi mesi, e del significativo sforzo profuso in tal senso dal Governo bulgaro, anche per effetto degli ingenti stanziamenti disposti dall’Unione europea, ma non forniscono elementi tali da rassicurare convincentemente circa l’effettivo raggiungimento di livelli di accoglienza tali da scongiurare il fondato dubbio che sussistano, a tutt’oggi, carenze sistemiche nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti, che implichino il rischio di un trattamento disumano o, comunque, degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea»
L’Alto Consesso, consapevole delle non uniformi pronunce rese da vari Tribunali europei nei riguardi dei rinvii verso la Bulgaria, afferma la necessità di applicazione, a fronte di una situazione non certa, del principio di cautela a garanzia dei diritti inviolabili della persona, doveroso non solo quando vi sia certezza ma il ragionevole dubbio che quei diritti possano essere violati.
Conclude, infatti, il Consiglio di Stato che «solo la certezza di condizioni consone alla dignità umana nello Stato di destinazione può costituire il presupposto irrinunciabile per garantire l’effettivo rispetto dei diritti fondamentali dello straniero da trasferire». Non essendo nel caso esaminato raggiunta tale certezza, è stato ritenuto motivo sufficiente per far venire meno la regola della competenza all’esame della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, imposta dal regolamento Dublino.