Art. 8, par. 1, della direttiva 2001/55: rapporto tra domande di soggiorno presentate dallo sfollato in Stati membri diversi e rimedi giurisdizionali contro decisioni di rigetto
La sentenza Krasiliva (CGUE, C-753/23, 27 febbraio 2025) riguarda la direttiva 2001/55 in materia di protezione temporanea a favore degli sfollati, in particolare l’art. 8, par. 1, secondo cui gli Stati membri sono tenuti a prendere le misure necessarie affinché chi gode di questa tutela disponga di titoli di soggiorno durante l’intero periodo, e che a tal fine riceva i documenti appropriati. La vicenda era sorta dopo l’adozione della decisione di esecuzione 2022/382, che accertò, sulla base dell’art. 5 della direttiva, l’esistenza di un afflusso massiccio di sfollati dall’Ucraina. In base a questa decisione, la cittadina Ucraina A.N. aveva raggiunto la Germania e lì aveva chiesto la protezione temporanea; poi si era spostata in Repubblica Ceca, dove aveva presentato invano una domanda dello stesso tenore. A.N. aveva impugnato il provvedimento sfavorevole di fronte al giudice ceco e la vertenza era progressivamente approdata presso la Corte suprema amministrativa, la quale decideva di rivolgersi alla Corte di giustizia per ottenere l’interpretazione dell’art. 8, par. 1, della direttiva 2001/55 in merito a due principali profili. In primo luogo, il giudice a quo si chiedeva se fosse ammissibile una normativa interna che impedisce il rilascio di un titolo di soggiorno a una persona, come A.N., che ha già richiesto un titolo analogo in un altro Stato membro.
La CGUE conferma che una simile domanda deve essere esaminata nel merito anche nel secondo Stato membro, perché l’art. 2 della decisione enuncia il diritto di rivolgersi alle autorità di un qualsiasi Stato per ottenere un titolo di soggiorno di cui all’articolo 8, par. 1, della direttiva 2001/55. Inoltre, i cittadini ucraini, in quanto viaggiatori esenti dall’obbligo del visto, hanno il diritto di circolare liberamente nell’Unione per un periodo massimo di 90 giorni dopo essere stati ammessi nel suo territorio. Perciò, la legge ceca non può validamente stabilire il diniego del rilascio di un titolo di soggiorno ai sensi dell’art. 8, par. 1, della direttiva 2001/55 in una situazione come quella di cui trattasi, sempre che A.N. non abbia nel frattempo ottenuto la protezione temporanea in Germania. Il secondo punto concerne la possibilità per uno Stato membro di impedire che un beneficiario di protezione temporanea possa ricorrere contro la decisione con cui sia stata dichiarata l’infondatezza della propria domanda ex art. 8, par. 1, della direttiva 2001/55. La Corte si limita a fare leva sull’art. 47 della Carta per negare la conformità al diritto UE di una simile ipotesi: tale decisione, pertanto, ben potrà essere impugnata dall’interessato di fronte all’autorità nazionale competente.
Art. 14, par. 4, lett. a), della direttiva 2011/95: rilievo del comportamento e dei fatti precedenti all’ingresso del richiedente nel territorio di uno Stato membro ai fini di una decisione negativa in materia di status
Nel caso K.A.M. (CGUE, C-454/23, 27 febbraio 2025) la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul rilievo del comportamento e dei fatti precedenti all’ingresso del richiedente nel territorio dello Stato membro ospitante ai fini della legittimità della decisione di un’autorità nazionale con cui questa stabilisca di revocare, di cessare o di rifiutare di rinnovare lo status riconosciuto. In particolare, rilevava la circostanza indicata all’art. 14, par. 4, lett. a), della direttiva 2011/95 (direttiva qualifiche), che ammette le ipotesi di cui sopra qualora vi siano sono fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato membro in cui si trova. Nello specifico, la questione era stata sollevata dal Tribunale amministrativo cipriota per la protezione internazionale, stante la revoca, nei confronti di un cittadino marocchino, dello status di rifugiato per condotte pregresse e avvenute fuori da Cipro: esse avevano portato l’autorità competente a concludere per la pericolosità della persona con riguardo alla comunità cipriota e alla sicurezza della Repubblica. Segnatamente, il giudice voleva sapere come inquadrare tali condotte nell’interpretazione dell’art. 14, par. 4, lett. a), della direttiva qualifiche, letto anche alla luce degli artt. 78, par. 1, TFUE, e 18 della Carta. La Corte prende atto dell’assenza di riferimenti espliciti nel testo della disposizione da interpretare e sviluppa il proprio ragionamento come segue: innanzitutto, conferma che dal contesto di riferimento e dall’obiettivo della disposizione si ricava che anche fatti o comportamenti passati, imputabili all’interessato, possono costituire circostanze pertinenti al fine di prospettare future tendenze comportamentali. Dovendo valutare tutte le circostanze specifiche del caso di cui trattasi, l’autorità nazionale competente è chiamata a considerare anche questi aspetti, specialmente se l’interessato è entrato da poco nel territorio dello Stato membro obbligato ad esaminare la sua domanda di protezione asilo. In secondo luogo, la Corte fa presente che l’autorità competente deve disporre di un margine di discrezionalità per decidere in base a considerazioni attinenti alla sicurezza nazionale dello Stato membro. Anzi, viene precisato che è possibile prendere in considerazione dei fatti o comportamenti passati che non costituiscano motivi di esclusione dallo status di rifugiato espressamente previsti all’articolo 1, sezione F, della Convenzione di Ginevra e all’articolo 12 della direttiva 2011/95. Per valutare, da un lato, il livello di gravità del pericolo che giustifichi la revoca dello status di rifugiato o il rifiuto di riconoscere tale status e, dall’altro, le conseguenze di questa revoca o di questo rifiuto sulla situazione del rifugiato, non occorre fare riferimento ai requisiti applicabili alla nozione di “pericolo per la sicurezza del paese”, di cui all’art. 33, par. 2, della Convenzione di Ginevra, né alle gravi conseguenze che ne derivano per l’interessato.
Art. 34 della direttiva 2011/95: limiti all’obbligo di integrazione civica in uno Stato membro del beneficiario di protezione internazionale
In Keren (CGUE, C-158/23, 4 febbraio 2025) la Corte si è pronunciata sull’art. 34 della direttiva 2011/95, che recita: «(a)l fine di facilitare l’integrazione dei beneficiari di protezione internazionale nella società, gli Stati membri garantiscono l’accesso ai programmi d’integrazione che considerano adeguati, in modo da tenere conto delle esigenze particolari dei beneficiari dello status di rifugiato o dello status di protezione sussidiaria, o creano i presupposti che garantiscono l’accesso a tali programmi». La causa ha origine nei Paesi Bassi e riguarda un cittadino eritreo che, nella sua qualità di beneficiario di protezione internazionale in quello Stato, non aveva completato il programma di integrazione civica previsto dalla legge olandese; poiché il termine ultimo per adeguarsi a quest’obbligo era scaduto invano, le autorità nazionali competenti avevano comminato al cittadino eritreo un’ammenda e gli avevano ordinato di restituire integralmente il prestito che aveva contratto con il Servizio di esecuzione dell’istruzione. Il giudizio attivato dall’interessato sfociava in un processo dinnanzi al Consiglio di Stato olandese, che si rivolgeva alla CGUE chiedendole di interpretare l’art. 34 della direttiva qualifiche. Con il primo quesito, il giudice del rinvio intendeva sapere se fosse conforme a tale disposizione l’obbligo di integrazione civica prescritto dalla normativa olandese, con conseguente inflizione di ammenda nel caso di suo mancato rispetto. La Corte risponde che in linea di principio ciò non determina la violazione dell’art. 34 della direttiva, pur se vi sono dei limiti da rispettare. Infatti, sebbene gli Stati membri dispongano di un margine di discrezionalità per decidere contenuti e modalità dei programmi di integrazione, così come gli obblighi ad essi collegati, non è comunque possibile pregiudicare gli obiettivi di integrazione sottesi alla direttiva, né il suo effetto utile. È poi necessario rispettare il principio di proporzionalità, tenendo presente che i beneficiari di protezione internazionale possono avere diverse esigenze, le quali sono suscettibili di variare a seconda di molteplici fattori. È dunque imprescindibile considerare di volta in volta le circostanze specifiche che caratterizzano la situazione personale dell’interessato (ad esempio, l’età, il livello di istruzione, la situazione finanziaria o lo stato di salute) e le eventuali difficoltà oggettive o contingenti. Ne deriva che, le conoscenze richieste per superare l’esame di integrazione civica, devono essere fissate ad un livello adeguato e senza eccedere quanto necessario per favorire l’integrazione dei beneficiari nella società dello Stato membro ospitante; inoltre, in alcuni casi potrebbe essere necessario evitare di ricorrere a tale esame, specie se l’interessato sia in grado di dimostrare di essere già effettivamente integrato. In ogni caso, l’art. 34 della direttiva qualifiche deve essere interpretato nel senso che non è lecito sanzionare sistematicamente chi non abbia superato l’esame di integrazione civica; inoltre, l’eventuale ammenda non può essere di importo tale da costituire un onere finanziario irragionevole per la persona sanzionata, tenuto conto della sua situazione personale e familiare. Riguardo al secondo quesito, relativo ad aspetti economici connessi agli esami di integrazione civica in uno Stato membro, la Corte dichiara che non è in linea con l’articolo 34 della direttiva 2011/95 una normativa nazionale in forza della quale i beneficiari di protezione internazionale debbano sostenere l’integralità delle spese di corsi e prove. Ciò, anche laddove la normativa interna ammetta la possibilità di ottenere un prestito dalle pubbliche amministrazioni e, se del caso, siano previste ipotesi di rimessione del debito per superamento dell’esame entro il periodo stabilito o di esonero dall’obbligo di integrazione civica.
Art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32: potere del giudice interno di disporre una visita medica a richiesta dell’interessato
La pronuncia Barouk (CGUE, C-283/24, 3 aprile 2025) approfondisce i poteri del giudice nazionale nel quadro dell’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32 (direttiva procedure), secondo cui, al fine di garantire al richiedente protezione internazionale un ricorso effettivo contro eventuali decisioni sfavorevoli, gli Stati membri devono assicurare che sia condotto un esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto. Nella fattispecie, si trattava di capire se il giudice nazionale (Tribunale amministrativo cipriota per la protezione internazionale) potesse disporre una visita medica a richiesta dell’interessato, per individuare eventuali segni di persecuzione o di danni gravi, nonché sintomi o indizi di tortura, nonostante il diritto interno non riconoscesse un simile potere. Sollecitata in proposito, la Corte conferma che l’art. 46, par. 3, della direttiva procedure deve essere interpretato nel senso che il giudice interno dispone del potere di procedere in tal senso, se ne ravvisa la necessità e la pertinenza ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale. D’altronde, l’art. 46, par. 3, oltre ad avere effetto diretto, va letto alla luce dell’art. 47 della Carta: ne deriva che il giudice deve considerare tutti gli elementi di fatto e di diritto (anche sopravvenuti) che gli consentano di procedere ad una valutazione esaustiva ed aggiornata del caso di specie. In particolare, la visita medica del richiedente può consentire di verificare se taluni indizi di problemi di salute possano spiegarsi con persecuzioni o gravi danni che egli abbia subito in passato, dovendo quindi essere presi in considerazione per valutare le reali esigenze di protezione internazionale. Pertanto, ove possibile il giudice interno dovrà procedere all’interpretazione conforme del diritto nazionale ma, se ciò non bastasse, sarà necessario disapplicare il diritto del proprio Stato membro rispetto all’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32, così come interpretato nel giudizio in esame.
Art. 20 TFUE: illegittimità di un programma nazionale che prevede la naturalizzazione in cambio di pagamenti o di investimenti predeterminati
La sentenza Commissione c. Malta (CGUE, C-181/23, 29 aprile 2025) fa luce sulla portata dell’art. 20 TFUE di fronte a un programma nazionale che favoriva la naturalizzazione in cambio di pagamenti o di investimenti predeterminati. Il programma maltese era stato elaborato nel 2014 e rivisto nel 2020. Prevedeva, in specie, che gli investitori stranieri potessero chiedere la naturalizzazione per servizi eccezionali tramite investimento diretto, nel caso in cui potessero soddisfare o si impegnassero a soddisfare le seguenti condizioni: «versare al governo maltese un contributo di EUR 600 000 o di EUR 750 000 (…); acquistare e detenere un immobile residenziale a Malta del valore minimo di EUR 700 000, oppure prendere in affitto un immobile residenziale a Malta (per un minimo di 5 anni) con un canone annuo minimo di EUR 16 000; donare un minimo di EUR 10 000 a un’organizzazione o società non governativa registrata, o altrimenti approvata dalle autorità, in ambito filantropico, culturale, sportivo, scientifico, artistico o di tutela del benessere animale; aver risieduto a Malta per un periodo di 36 mesi (nel qual caso il pagamento ammonta a EUR 600 000), periodo che può essere ridotto a un minimo di 12 mesi a condizione di effettuare un investimento diretto eccezionale (il pagamento ammonta allora a EUR 750 000)». La Commissione riteneva che ciò fosse contrario all’art. 20 TFUE, anche in un’ottica di leale collaborazione, mentre Malta aveva dato rassicurazioni in merito a un riallineamento della normativa, che a suo giudizio era divenuta pienamente compatibile con il diritto UE. La Corte ha accolto il ricorso proposto dalla Commissione, partendo dal presupposto che lo status di cittadino dell’Unione costituisce lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri, cui sono collegati diritti ben noti: diritti di circolazione nel territorio degli Stati membri, diritti di carattere politico per quanto attiene alla partecipazione alla vita istituzionale dell’UE, e diritti legati alla tutela diplomatica e consolare presso Stati terzi. Questo status è inoltre connesso ai valori fondanti dell’Unione ed è parte della propria identità: è infatti una precondizione della democrazia rappresentativa, che a sua volta concretizza il valore della democrazia ex art. 2 TUE; costituisce una manifestazione chiave della solidarietà, che è alla base stessa del processo di integrazione europea accettato dagli Stati membri a condizione di reciprocità; implica obblighi a carico degli Stati membri in forza del principio del primato e della mutua fiducia, nonostante le ovvie sovrapposizioni con un’area di competenza esclusiva di questi ultimi, quale la determinazione dei modi di acquisto della cittadinanza nazionale. Pertanto, «le disposizioni relative alla cittadinanza dell’Unione figurano tra le disposizioni fondamentali dei Trattati che, inserendosi nel quadro del sistema peculiare dell’Unione, sono strutturate in modo da contribuire alla realizzazione del processo di integrazione che costituisce la ragion d’essere dell’Unione stessa e fanno quindi parte integrante del suo quadro costituzionale». A questo punto, la Corte precisa che il fondamento del vincolo di cittadinanza di uno Stato membro risiede nel particolare rapporto di solidarietà e di lealtà esistente tra tale Stato e i suoi cittadini, nonché nella reciprocità di diritti e di doveri aggiungendo – infine – un passaggio fondamentale, che costituisce l’essenza del proprio ragionamento nella pronuncia in esame: «uno Stato membro viola in modo manifesto la necessità di tale particolare rapporto di solidarietà e di lealtà, caratterizzato dalla reciprocità dei diritti e degli obblighi tra lo Stato membro e i suoi cittadini, e fa in tal modo venir meno la fiducia reciproca sulla quale si fonda la cittadinanza dell’Unione, in violazione dell’articolo 20 TFUE e del principio di leale cooperazione sancito all’articolo 4, paragrafo 3, TFUE, allorché introduce e attua un programma di naturalizzazione che si basa su una procedura avente natura di transazione tra lo Stato membro stesso e coloro che presentano una domanda a titolo di tale programma, in base alla quale la cittadinanza di detto Stato membro e, quindi, lo status di cittadino dell’Unione, è in sostanza riconosciuta in cambio di pagamenti o di investimenti predeterminati». Per la Corte, in sostanza, il programma maltese «è assimilabile a una commercializzazione della concessione dello status di cittadino di uno Stato membro e, per estensione, di quella dello status di cittadino dell’Unione»; ebbene, alla luce della natura fondamentale di detto status, detta circostanza è da intendersi come incompatibile con la sua concezione, come deriva dai trattati istitutivi.