Art. 2: Diritto alla vita
Il caso Almukhlas e Al-Maliki e Grecia (Corte EDU, sentenza del 25.03.2025) riguarda la morte del figlio dei due ricorrenti, cittadini iracheni, avvenuta durante un’azione della guarda costiera greca volta a fermare l’imbarcazione che li stava trasportando illegalmente in Grecia nel quadro della più ampia operazione europea Poseidon. Alla vista di una nave lettone che stava effettuando delle ispezioni nel mare tra la Grecia e la Turchia il 29 agosto 2015, gli scafisti di origine turca al comando dell’imbarcazione si rendevano responsabili di manovre pericolose nel tentativo di fuga verso le coste turche. Alcuni agenti della guarda costiera greca riuscivano comunque ad affiancarli e a salire a bordo dove, durante una rissa con gli scafisti, sparavano alcuni colpi in aria. Come aveva confermato successivamente una perizia balistica delle autorità interne, un colpo sparato per immobilizzare uno degli scafisti trapassava il pavimento della cabina di comando e uccideva il figlio dei ricorrenti che si trovava al di sotto della stessa con molte altre persone migranti di cui, apparentemente, gli agenti non avevo percepito la presenza.
I procedimenti interni terminavano con la condanna degli scafisti, specie per traffico di migranti, mentre l’agente della guardia costiera che aveva sparato il colpo mortale non veniva rinviato a giudizio per l’accusa di omicidio poiché, in sostanza, l’uso della forza contestato dai ricorrenti risultava giustificato dalle specifiche circostanze del caso. Dopo aver rigettato le obiezioni dello Stato convenuto, la Corte EDU esamina la presunta violazione degli obblighi procedurali derivanti dall’art. 2 CEDU ribadendo come il diritto alla vita imponga alle Parti di avviare, anche d’ufficio, indagini rapide, indipendenti e specifiche che assicurino la raccolta di tutte le prove e testimonianze in grado di far luce su tutti i casi di utilizzo della forza da parte di propri agenti, specie se ciò comporta la perdita di vite umane (v., in modo analogo, Corte EDU, 16.01.2024, Alkhatib e altri c. Grecia, in questa Rivista, XXVI, 2, 2024). Pur trattandosi di obblighi di condotta e non di risultato, le Parti devono comunque fare quanto ragionevolmente possibile per identificare eventuali responsabili e sanzionarli (Corte EDU, 14.09.2021, M.D. e altri c. Russia, in questa Rivista, XXIV, 1, 2022; 19.09.2017, Ranđelović e altri c. Montenegro, in questa Rivista, XX, 1, 2018). Nel caso dei ricorrenti, tuttavia, le competenti autorità greche non hanno condotto un’inchiesta indipendente, tenuto conto che le persone responsabili per le indagini erano i superiori della persona accusata, né approfondita, avendo tralasciato testimonianze e elementi di prova utili per dimostrare la veridicità del resoconto della guardia costiera, specie con riferimento al presunto pericolo per la loro integrità fisica che aveva giustificato l’uso della forza. Date queste significative lacune, per la Corte EDU vi è stata violazione dell’art. 2 CEDU, letto sotto il profilo procedurale (cfr. anche Corte EDU, 7.07.2022, Safi e altri c. Grecia, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022). Per quanto riguarda la lamentata violazione dello stesso diritto alla vita letto sotto il profilo sostanziale, la Corte afferma la necessità di verificare se l’uso della forza da parte dell’agente statale fosse assolutamente necessario data la dinamica dei fatti e, in particolare, se l’operazione nel suo complesso fosse stata adeguatamente preparata limitando i rischi collaterali. Nonostante le difficoltà di esaminare questa parte del ricorso a causa delle lacune investigative interne, la Corte EDU si concentra su un punto centrale: se gli agenti dello Stato convenuto fossero a conoscenza o avessero dovuto presumere che, nella parte inferiore dell’imbarcazione, fossero presenti persone migranti. Poiché l’imbarcazione era già stata oggetto di controlli, la Corte risponde positivamente a tale questione e, anzi, nota come l’intera operazione, alla luce degli scopi della missione Poseidon, fosse volta essenzialmente ad arrestare gli scafisti e non anche a tutelare la vita delle persone presenti sull’imbarcazione. Inoltre, non risulta che la guarda costiera greca sia stata addestrata per ottenere lo stesso risultato con mezzi alternativi all’uso della forza. Pertanto, nelle circostanze del caso, data la condotta degli agenti che non hanno minimizzato i rischi per la vita delle persone a bordo, vi è stata una violazione del diritto alla vita letto sotto il profilo sostanziale. Invece, non potendo affermare al di là di ogni ragionevole dubbio che il ricorso alla forza non fosse assolutamente necessario ai sensi dell’art. 2, par. 2, CEDU, per la Corte EDU non vi è stata violazione del diritto alla vita anche sotto questo ulteriore profilo.
In Hasani c. Svezia (Corte EDU, sentenza del 6.03.2025) un cittadino afghano che, aveva chiesto protezione internazionale in Svezia, ricorreva alla Corte EDU per lamentare una violazione del diritto alla vita (art. 2 CEDU) che sarebbe stata originata dalla mancata adozione di misure a tutela del fratello, richiedente asilo con disabilità visive, morto suicida in un Centro di accoglienza. Il ricorrente e il fratello erano giunti nello Stato convenuto quando erano minori d’età ed erano stati collocati assieme in una struttura con servizi adeguati alle condizioni di disabilità del secondo. Poco prima del raggiungimento della maggiore età, il fratello veniva informato dell’imminente revoca dei servizi fino ad allora goduti e del conseguente trasferimento in un Centro per persone migranti adulte. Accogliendo la sua precisa richiesta, le competenti autorità svedesi lo collocavano dapprima in un istituto in cui riceveva l’assistenza necessaria e, successivamente, in una struttura più vicina al ricorrente e in cui appariva sostanzialmente tranquillo, nonostante i problemi di gestione della rabbia e alcuni azioni autolesioniste. Tuttavia, dopo essere stato informato del rigetto della sua richiesta di protezione internazionale e del contestuale ordine di allontanamento, si toglieva la vita. I ricorsi interni avviati dal ricorrente per ottenere un risarcimento per l’accaduto venivano rigettati. Dopo essersi pronunciata positivamente sull’ammissibilità del ricorso, in particolare pronunciandosi positivamente sulla possibilità del ricorrente di adire la Corte alla luce del particolare legame esistente con il fratello, la Corte EDU ricorda come l’art. 2 CEDU imponga alle Parti di adottare tutte le misure necessarie per proteggere la vita di coloro che si trovano sotto la loro giurisdizione quando sono a conoscenza o avrebbero dovuto sapere dell’esistenza di un pericolo imminente per la stessa (Corte EDU, 16.01.2024, Alkhatib e altri c. Grecia, in questa Rivista, XXVI, 2, 2024), incluso il rischio di suicidio. Nonostante la Corte riconosca di non essersi specificatamente pronunciata sul punto rispetto all’ambito migratorio, caratterizzato da persone che vivono in condizione di particolare svantaggio e vulnerabilità, essa ritiene che i principi sviluppati in merito a suicidi avvenuti in luoghi di detenzione possano trovare applicazione rispetto a circostanze simili in luoghi di accoglienza per richiedenti asilo. Inoltre, la Corte ricorda che la minaccia di suicidio non può ostacolare l’esecuzione di misure di allontanamento decise dallo Stato parte ma, al contempo, che lo Stato interessato deve comunque adottare tutte le azioni necessarie per evitare che tali minacce si possano concretizzare (v. le decisioni relative a Corte EDU, 22.06.2010, Al-Zawatia c. Svezia; 7.06.2006, Karim c. Svezia; 7.10.2004, Dragan e altri c. Germania). Per la Corte, nel caso di specie, il problema non è originato dalle decisioni relative all’allontanamento prese dalle autorità svedesi ma, anzi, se queste avessero intuito il rischio di suicidio del fratello del ricorrente e non fossero intervenute per impedirlo. Tenuto anche conto delle misure di accoglienza garantite al fratello, è vero che lo Stato convenuto non poteva che essere a conoscenza della sua particolare condizione di fragilità e dei suoi problemi di salute mentale e che, nonostante ciò, non lo aveva sottoposto a esami approfonditi per valutare le sue reali condizioni né gli aveva messo a disposizione servizi psicologici specializzati. Tuttavia, anche in virtù degli accorgimenti adottati dalle autorità competenti, specie al momento della comunicazione dell’esito della procedura di asilo organizzando in un incontro individualizzato e con assistenza dedicata, nei giorni precedenti l’accaduto non erano emersi elementi sufficienti per ritenere immediato o possibile un rischio di suicidio. Per queste ragioni, secondo la Corte EDU, nel caso del sig. Hasani, non vi sia stata violazione dell’art. 2 CEDU.
Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti
In A.R.E c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 7.01.2025) la Corte EDU è chiamata a esaminare il ricorso presentato da una cittadina turca che, con l’intenzione di chiedere protezione internazionale per motivi politici, entrava in modo irregolare in Grecia il 4 maggio 2019 ma, poche ore dopo, senza veder registrata la sua domanda o la sua presenza nello Stato convenuto, veniva privata di ogni suo bene e respinta in Turchia attraverso il fiume Evros. Giunta a terra, trovava alcuni agenti turchi che la arrestavano. Durante il viaggio e il successivo presunto push-back, la ricorrente scattava foto e filmava alcuni video che venivano inviati, assieme alla sua geolocalizzazione, al fratello richiedente asilo in Grecia. Un ricorso interno al fine di accertare eventuali responsabilità penali, presentato dal Consiglio greco per i rifugiati per conto della ricorrente, veniva rigettato per mancanza di prove e sulla base della presunzione per cui l’ordinamento impediva agli agenti di polizia e di frontiera di condurre trasferimenti illegali in Turchia. Per lo Stato convenuto, il racconto della ricorrente era inventato e non esistevano prove a suo favore. Il relativo materiale audio-video non era, a suo avviso, pertinente perché poteva essere stato prodotto anche in giorni e situazioni diverse da quelle lamentate, durante un qualsiasi altro soggiorno in Grecia. Per la ricorrente, invece, quanto accaduto rientrava in una prassi sistematica posta in essere dalle autorità greche per rinviare illegalmente persone migranti, compresi richiedenti asilo, verso la Turchia. Tali respingimenti erano caratterizzati da un preciso modus operandi, seguito anche nel suo caso specifico: arresto informale; detenzione in segreto; privazione di ogni effetto personale; trasporto attraverso il fiume Evros fino alle acque territoriali turche. Dopo aver ascoltato tutte le parti interessate in udienza a Strasburgo e dato loro modo di precisare gli aspetti centrali del caso, la Corte EDU rigetta le obiezioni del Governo greco circa il previo esaurimento dei ricorsi interni poiché non esistono, nell’ordinamento greco, ricorsi effettivi attraverso cui lamentare le violazioni denunciate dalla ricorrente. A tale conclusione, la Corte giunge anche sulla base di un dato ritenuto sospetto: tutti i procedimenti penali relativi a casi di respingimento non hanno mai portato, in Grecia, all’identificazione di eventuali responsabili. La Corte nota poi come la ricorrente ponga con il suo ricorso una questione diversa dai precedenti casi in materia di refoulement (tra le altre, v. Corte EDU, 4.04.2024, Sherov e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXVI, 2, 2024; 15.09.2022, O.M. e D.S. c. Ucraina, in questa Rivista, XXV, 1, 2023; 23.07.2020, M.K. e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXII, 3, 2020), in cui il disaccordo tra le parti riguardava se i ricorrenti avessero chiesto o meno asilo alla frontiera e non anche, come nel caso di specie, l’effettiva presenza sulla richiedente asilo nel territorio dello Stato convenuto. In questo contesto, per la Corte EDU il problema della prova diventa centrale. A tal fine, essa ribadisce di essere libera di valutare qualsiasi elemento da cui possa derivare, sulla base di indizi sufficientemente gravi, precisi e concordanti, la migliore comprensione dei fatti. Inoltre, se un ricorrente riesce a fornire una versione dei fatti precisa e concordante, spetta poi allo Stato convenuto provare che le circostanze denunciate non siano effettivamente accadute. Nel caso della sig.ra A.R.E., la Corte EDU sottolinea innanzitutto come vari organi interni e internazionali abbiano da tempo denunciato, anche attraverso testimonianze dirette, il ricorso ad arresti informali e trasferimenti illegali dalla Grecia alla Turchia (v. Commissione nazionale greca sui diritti umani, Recording Mechanism of Incidents of Informal Forced Returns – Annual Report 2022, 2023, i cui esiti sono stati confermati anche nell’edizione pubblicata nel 2024; Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT), Rapporto relativo alla visita in Grecia dal 13 al 17 marzo 2020, 19 novembre 2020; CPT, Rapporto relativo alla visita in Grecia dal 20 novembre al 1° dicembre 2023, 12 luglio 2024; Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR Concerned by Pushback Reports Calls for Protection of Refugees and Asylum Seekers, 21 agosto 2020; Working Group on Arbitrary Detention, Rapporto sulla visita in Grecia, 29 luglio 2020, UN doc. A/HRC/45/16/Add.1; Special Rapporteur sui diritti delle persone migranti, Human Rights Violations at International Borders: Trends, Prevention and Responsibility, 26 aprile 2022, UN doc. A/HRC/50/31). Da un lato, il Governo greco non ha avanzato elementi per confutare tali rapporti o i fatti specifici riportati dalla ricorrente. Dall’altro, il resoconto di quest’ultima risultava coerente con tale documentazione e con i riscontri successivi delle autorità turche rispetto al respingimento della stessa, mentre le prove audio-video fornite non risultavano false e si riferivano esattamente al giorno in cui sarebbe avvenuto il push-back, come dimostrato anche dall’inchiesta condotta dal gruppo di ricerca Forensic Architecture. Per queste ragioni, per la Corte EDU le doglianze sollevate dalla sig.ra A.R.E. risultano veritiere al di là di ogni ragionevole dubbio (diversamente dal caso molto simile G.R.J. c. Grecia, in cui la Corte EDU ha ritenuto che le prove audio-video prodotte dal ricorrente non riguardavano i fatti da lui denunciati tanto da rigettare il suo ricorso come inammissibile: v. Corte EDU, decisione del 7.01.2025). Nel merito, in ragione dell’analisi precedentemente condotta, la Corte conclude quanto segue: le autorità greche hanno ignorato il bisogno di protezione internazionale espresso dalla ricorrente e l’hanno trasferita in Turchia senza un esame dettagliato della sua situazione personale in violazione dell’art. 3 e dell’art. 13, letto in combinato con l’art. 3, CEDU; la ricorrente è stata privata della propria libertà in modo arbitrario in vista del suo trasferimento illegale in Turchia in violazione dell’art. 5, par. 1, 2, 4, CEDU; non era a disposizione della ricorrente un mezzo di ricorso effettivo per lamentare il rischio di essere esposta a violazioni del diritto alla vita e del divieto di tortura in vista dell’allontanamento. Non potendo, invece, affermare al di là di ogni ragionevole dubbio che la sig.ra A.R.E. abbia rischiato la vita o abusi durante il trasferimento attraverso il fiume Evros in Turchia per mancanza di prove specifiche, non vi è infine stata violazione degli artt. 2 e 3 sotto tale specifico profilo.
Nel caso A.B. e Y.W. c. Malta (Corte EDU, sentenza del 4.2.2025) una coppia di cittadini cinesi arrivava, nel 2017, a Malta con un permesso di soggiorno della durata di tre mesi e qui chiedevano protezione internazionale per il timore di subire persecuzioni nel loro Paese di origine dato il trattamento riservato alla minoranza uigura in Cina, cui dicevano di appartenere. Ritenendo che nel loro caso non sussistesse il rischio di subire persecuzioni, anche per il fatto di aver ottenuto un passaporto, di essere stati liberi di lasciare il loro Paese, di non aver subito precedenti abusi, di resoconti tutto sommato generici e di non essere figure politiche dissidenti o attivisti di primo piano, le autorità maltesi negavano loro la protezione richiesta. I ricorrenti rimanevano comunque, in modo irregolare, nello Stato convenuto fino a quando nel 2022, in occasione di un controllo, venivano identificati. Veniva quindi ordinato il loro allontanamento per infrazione della legge in materia di immigrazione. Nel ricorso contro tale misura, i ricorrenti facevano nuovamente valere il rischio di refoulement se rinviati in Cina. I giudici interni negavano l’esistenza di un rischio siffatto sulla base dell’esito della precedente procedura di asilo. L’allontanamento veniva, intanto, sospeso per l’indicazione di misure provvisorie da parte della Corte EDU ai sensi dell’art. 39 del suo regolamento interno. Rigettate tutte le obiezioni circa l’ammissibilità del ricorso, la Corte EDU è stata chiamata a verificare se lo Stato convenuto, nel caso in cui allontanasse i ricorrenti, possa essere responsabile di una violazione dell’art. 3 CEDU. A tal fine, la Corte ricorda l’importanza di svolgere un’indagine attuale del pericolo cui potrebbero essere esposte le persone da allontanare e ciò anche quando sia possibile, come nel caso dei ricorrenti, una ricollocazione interna (tra le altre, Corte EDU, 24.10.2023, A.M.A. c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XXVI, 1, 2024; Grande Camera, 23.08.2016, J.K. e altri c. Svezia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017; Grande Camera, F.G. c. Svezia, 23.03.2016, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). A tal proposito, la Corte EDU nota che la situazione dei ricorrenti era stata valutata dalle autorità interne solo al momento della loro richiesta di asilo nel 2017 e non anche nell’ambito del procedimento relativo al loro possibile allontanamento nel 2022, nonostante la disponibilità di informazioni aggiornate sul trattamento degli uiguri in Cina dopo il loro arrivo a Malta. Pertanto, per la Corte EDU, le autorità maltesi sono venute meno agli obblighi procedurali derivanti dall’art. 3 CEDU e, in assenza di un esame attuale della loro situazione specifica, il loro allontanamento darebbe origine a una violazione del divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti.
In Kunshugarov c. Turchia (Corte EDU, sentenza del 14.01.2025) un cittadino kazako lamentava varie violazioni della CEDU connesse al suo allontanamento avvenuto nel 2018, a seguito di una richiesta di estradizione motivata dal suo coinvolgimento in attività terroristiche in Kazakistan. Dinanzi le autorità interne il ricorrente denunciava i rischi per la vita e per la sua integrità fisica cui sarebbe stato esposto in caso di estradizione, in particolare per via della sua possibile condanna a morte. Ciononostante, la richiesta di estradizione veniva accolta dallo Stato convenuto dopo la presentazione di opportune garanzie diplomatiche da parte delle autorità kazake, secondo le quali il ricorrente sarebbe stato trattato in modo conforme agli standard internazionali in materia di diritti umani. Le stesse autorità kazake informavano le controparti turche circa l’adozione di una moratoria sulle esecuzioni delle pene di morte già a partire dal 2003 e garantivano l’accesso ai loro rappresentanti alle strutture in cui il sig. Kunshugarov sarebbe stato detenuto al fine di verificare gli impegni presi. La Corte EDU innanzitutto rigetta la parte del ricorso relativa all’art. 2 CEDU (diritto alla vita) in ragione della successiva abolizione della pena di morte in Kazakistan, per cui il ricorrente non poteva più ritenersi vittima ai sensi dell’art. 34 CEDU sotto quello specifico profilo. In secondo luogo, ha ritenuto che non vi sia stata violazione dell’art. 13, letto in combinato con l’art. 2 CEDU, per l’esistenza di un mezzo di ricorso indipendente e con effetti sospensivi che era a disposizione del ricorrente per far valere il rischio di violazione del diritto alla vita prima del suo allontanamento. In terzo luogo, in merito alla compatibilità dell’estradizione con il divieto di refoulement, la Corte EDU osserva come in Kazakistan non esista una situazione particolarmente grave tale da impedire qualsiasi trasferimento da uno Stato parte della CEDU e ciò nonostante i rilevanti rapporti internazionali indichino forti preoccupazioni sull’effettiva tutela dei diritti fondamentali (ad es. Special Rapporteur on the Promotion and Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms while Countering Terrorism, rapporto relativo alla visita in Kazakistan (10-17 maggio 2019, UN doc. A/HRC/43/46/Add.1, 2020). Tuttavia, da questi stessi rapporti doveva essere già evidente alle autorità interne che le persone incriminate per attività terroristiche in Kazakistan costituiscono un gruppo di solito esposto a maltrattamenti (Corte EDU, Grande Camera, 29.04.2022, Khasanov e Rakhmanov c. Russia, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022). Per questa ragione, anziché basarsi superficialmente sulle garanzie diplomatiche ricevute dal Kazakistan, esse avrebbero dovuto approfondire il loro contenuto alla luce dei rischi specifici lamentati dal ricorrente. A tal proposito, la Corte ricorda che ai fini di questo approfondimento, è necessario valutare chi presta tali garanzie, se esse siano formulate in modo generico o specifico rispetto alle circostanze del caso, se prevedano la possibilità di accesso ai luoghi di privazione della libertà e se, nel Paese che le fornisce, esistano meccanismi effettivi di tutela contro la tortura in grado di cooperare con gli organi di monitoraggio internazionale, specie quando lo Stato di destinazione non è parte del Consiglio d’Europa. Nel caso del ricorrente, poiché le garanzie diplomatiche non erano state prestate da un organo in grado di vincolare il Paese, era formulate in termini generici e facevano riferimenti altrettanto generici alle convenzioni ratificate dallo stesso Paese, per la Corte EDU le garanzie diplomatiche che avevano motivato l’accoglimento della richiesta di estradizione non potevano esser considerate sufficienti a eliminare il rischio che il sig. Kunshugarov fosse esposto nel suo Paese di origine a trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU. Nel suo caso, vi è stata dunque una violazione di questa disposizione. A ciò si aggiunge, sulla base degli esiti di casi precedenti (Corte EDU, 17.10.2019, G.B. e altri c. Turchia, in questa Rivista, XXII, 1, 2020) una violazione dello stesso divieto di tortura per le gravi condizioni materiali in cui era stato trattenuto nel Centro di espulsione di Kumkapi per quasi sette mesi, tra il 2015 e 2016, e una violazione dell’art. 5, par. 4, per l’assenza di un mezzo effettivo e rapido attraverso cui lamentare la legittimità della sua detenzione e, nel caso, essere liberato, tenuto conto che l’esame dei ricorsi avviati dal ricorrente dinanzi la Corte costituzionale aveva richiesto ben tre anni.
Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza
In Mansouri c. Italia (Corte EDU, Grande Camera, decisione del 29.4.2025) la Grande Camera ritiene inammissibile il ricorso presentato da un cittadino tunisino già soggiornante in Italia che, giunto a Palermo dopo aver visitato il suo Paese, risultava sprovvisto di permesso di soggiorno valido e, per tale ragione, veniva respinto alla frontiera. Affidato alla responsabilità del comandante della nave, appartenente alla compagnia italiana Grandi Navi Veloci, veniva ricondotto a Tunisi. Durante il tragitto, durato sette giorni, il ricorrente riteneva di essere stato privato della propria libertà in ragione del confinamento in un cella dalla quale non poteva uscire liberamente. Dalla nave riusciva comunque a mettersi in contatto telefonicamente con il suo avvocato, il quale chiedeva invano la revoca della misura presa nei suoi confronti, prima alla polizia di frontiera e poi allo stesso Ministro dell’Interno. Il ricorrente riteneva, in particolare, di essere stato vittima di una violazione del suo diritto alla libertà e alla sicurezza personale (par. 1, 2, 4 e 5 dell’art. 5 CEDU), del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3) per via delle condizioni materiali durante il viaggio e del diritto a un ricorso effettivo per l’assenza di un mezzo attraverso cui denunciare le condizioni di viaggio (art. 13, letto in combinato con l’art. 3 CEDU). Per la Corte non vi sono problemi a ritenere che il ricorrente si trovasse sotto la giurisdizione italiana ai fini dell’applicazione della CEDU (art. 1, su cui Corte EDU, Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, 1, 2012), tenuto conto che la nave che lo ospitava batteva bandiera italiana, e che il trattamento subito fosse attribuibile all’Italia, dato che il comandante della stessa, il cui operato era governato dalla legge italiana, ne aveva assunto il controllo esercitando funzioni pubbliche. Tuttavia, dato il mancato esaurimento dei ricorsi interni, per la Corte il ricorso del sig. Mansouri è inammissibile (sui principi in materia, si veda recentemente Corte EDU, Grande Camera, 9.04.2024, Duarte Agostinho e altri c. Portogallo e altri). Infatti, dopo aver ricordato che un ricorso è effettivo ai sensi dell’art. 5 CEDU solo se può condurre al rilascio della persona privata della sua libertà e che nel caso di respingimento alla frontiera subito dal ricorrente non è prevista una procedura di convalida come quella disposta dalla legge per la detenzione amministrativa (v. art. 14 del D.lgs. n. 286/1998), per la Corte EDU non si può affermare che il ricorrente fosse privo di mezzi attraverso cui lamentare di essere soggetto a una privazione della libertà in violazione dell’art. 5 CEDU. A tal fine, come dimostra la giurisprudenza indicata dal Governo italiano in materia di risarcimento del danno da illegittimo trattenimento (v. Corte d’appello di Roma, sentenze n. 7206/2019, 2454/2021 e 2958/2024, successive ai fatti di specie), secondo la Corte il ricorrente avrebbe potuto, ad esempio, avviare un ricorso fondato sull’art. 2043 del codice civile. A tal proposito, essa precisa che, anche se al tempo dei fatti non esisteva una giurisprudenza in materia, il mancato esercizio di certi ricorsi non può essere giustificato dall’inesistenza di precedenti o da dubbi relativi alla loro efficacia. Peraltro, il ricorrente era in contatto con il proprio avvocato durante il suo viaggio, per cui non vi erano impedimenti oggettivi per avviare tutti i ricorsi potenzialmente disponibili nell’ordinamento italiano e cioè anche quelli non ancora sperimentati in una situazione come la sua. Accogliendo, di conseguenza, le obiezioni del Governo italiano, la Corte ha rigettato la parte del ricorso relativo all’art. 5 CEDU. Essa ha altresì ritenuto manifestamente infondata la parte del ricorso relativa alle condizioni materiali di viaggio poiché, non essendo un individuo vulnerabile e visto l’accesso a tutti i beni e servizi essenziali, il trattamento subito dal ricorrente risulta al di sotto della soglia di gravità richiesta per rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 3 CEDU.
Art. 8: Diritto al rispetto per la vita privata e familiare
Il caso A.C. c. Francia (Corte EDU, sentenza del 16.01.2025) riguarda un migrante proveniente dalla Guinea che, all’arrivo nello Stato convenuto nel 2020, dichiarava di essere un minore non accompagnato. Se inizialmente le autorità francesi gli garantivano l’accoglienza dedicata a tale categoria di migranti in base alla presunzione che fosse realmente un minore, a seguito di un esame medico-forense che lo identificava come adulto il trattamento inizialmente previsto veniva revocato. Nessun altro beneficio gli veniva accordato, lasciando il ricorrente privo di accesso a servizi essenziali in un periodo in cui, nello Stato convenuto, vigevano misure restrittive per il contrasto della pandemia da Covid-19. Grazie all’indicazione di misure provvisorie da parte della stessa Corte EDU, volte ad assicurare un’accoglienza adeguata alla situazione del ricorrente durante il lockdown in Francia, veniva alloggiato in una struttura alberghiera. Revocate le restrizioni pandemiche, il sig. A.C. era nuovamente abbandonato a sé stesso fino a quando veniva accolto, in appello, il ricorso contro la decisione iniziale di non riconoscergli i servizi dedicati ai minori non accompagnati. Dinanzi la Corte EDU lamentava, in particolare, una violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti) per essere stato esposto a condizioni di vita contrari agli standard convenzionali e una violazione dell’art. 8 CEDU in ragione delle conseguenze del mancato riconoscimento della sua minore età. Mentre la prima parte del ricorso è stata rigettata come manifestamente infondata per l’assenza di informazioni dettagliate sulle effettive condizioni di vita del ricorrente durante i periodi in cui non era stato preso in carico dalle autorità interne, la Corte EDU ritiene invece ammissibile il ricorso relativo all’art. 8 CEDU. Infatti, poiché il concetto di vita privata, componente essenziale dell’art. 8 CEDU, copre anche l’integrità fisica e piscologica e l’età come alcuni dei molteplici aspetti dell’identità di un individuo, per la Corte EDU il diritto al rispetto per la vita privata trova applicazione nella situazione del ricorrente (già Corte EDU, 21.07.2022, Darboe e Camara c. Italia, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022). A tal fine, la Corte ricorda alcuni principi fondamentali per le situazioni in cui sono coinvolte persone minori d’età in ambito migratorio, a partire dall’obbligo di tenere conto del loro preminente interesse e dall’adozione di una serie di garanzie sostanziali e procedurali durante la procedura di accertamento dell’età (per tutti i riferimenti, cfr. anche C. Danisi, Il principio del preminente interesse del minore in ambito migratorio: verso una convergenza?, in Migration and International Law: Beyond Emergency?, a cura di G. Nesi, Napoli, 2018). Al contempo, però, la Corte riconosce la difficoltà degli Stati parte della CEDU di contrastare possibili truffe al fine di beneficiare di servizi di accoglienza più avanzati e altre misure specificamente dedicate alle persone migranti minori d’età. Per queste ragioni, da un lato la Corte ricorda innanzitutto che il diritto al rispetto per la vita privata non impone alcun obbligo di risultato circa le condizioni materiali da garantire ai minori non accompagnati e, dall’altro, concentra l’analisi del caso del ricorrente sul rispetto degli obblighi positivi derivanti dall’art. 8 CEDU. A tal fine, essa verifica due aspetti specifici, ossia se nello Stato convenuto vige una legislazione adeguata rispetto a questa categoria di persone particolarmente vulnerabili (ad es., Corte EDU, 5.04.2011, Rahimi c. Grecia), e se, nel caso specifico del sig. A.C., sono state osservate le necessarie garanzie procedurali durante l’accertamento della sua età. Rispetto al primo punto, la Corte non rileva particolari problemi perché lo Stato convenuto prevede, tra l’altro, il principio di presunzione della minore età per tutti coloro che si dichiarano minori non accompagnati, un’intervista multidisciplinare condotta da personale opportunamente formato, nonché il ricorso a esami radiologici solo in caso di dubbi, previo consenso della persona interessata e dopo una decisione positiva da parte di un giudice. Tuttavia, rispetto al secondo punto, la Corte EDU nota come le garanzie procedurali previste a tutela dei minori non accompagnati non siano state effettivamente applicate nel caso del ricorrente. Quest’ultimo non aveva, ad esempio, ricevuto alcuna decisione con l’esito dell’esame psicologico che aveva stabilito la sua maggiore età, né aveva ottenuto informazioni precise sulle modalità attraverso cui presentare ricorso, al di là di decisioni stereotipate adottate da alcune autorità interne nel revocargli i servizi inizialmente previsti. Per queste ragioni e tenuto conto che lo Stato convenuto non ha agito con la dovuta diligenza rispetto a un caso in cui doveva essere applicato il principio di presunzione della minore età, per la Corte EDU vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU. Non vi è stata invece, nel suo caso specifico, una violazione del diritto a un mezzo di ricorso effettivo (art. 13 CEDU) per lamentare la presunta violazione del diritto al rispetto al diritto alla vita privata poiché il sig. A.C. aveva avuto acceso a ricorsi attraverso cui aveva fornito ulteriori documenti a supporto della sua minore età, inclusa una copia dell’estratto dell’atto di nascita, e grazie ai quali aveva infine ottenuto i benefici previsti per i minori non accompagnati.
Anche il caso F.B. c. Belgio (Corte EDU, sentenza del 6.03.2025) riguarda una cittadina della Guinea che, giunta in Belgio nel 2019 per chiedere protezione internazionale per via di circostanze legate a un matrimonio forzato, si dichiarava persona minore d’età. A tal fine, forniva alle autorità competenti copia non legalizzata del suo atto di nascita. Pur essendo collocata in una struttura dedicata a minori non accompagnati, le autorità interne nutrivano dubbi sulla veridicità delle sue dichiarazioni e delle informazioni fornite. Veniva dunque sottoposta a un triplice test osseo senza, secondo quanto affermato dalla ricorrente, essere stata adeguatamente informata né aver prestato il suo consenso. Poiché il risultato delle analisi non aveva confermato la sua minore età, le venivano revocate le misure di accoglienza inizialmente garantite e veniva trasferita in un Centro per persone migranti adulte, per poi comunque essere riconosciuta come rifugiata nel 2022. Ritenuto il ricorso ammissibile per le stesse ragioni già esposte sopra relativamente al caso A.C. c. Francia (Corte EDU, sentenza del 16.01.2025), la Corte EDU ritiene di doversi pronunciare sull’interferenza subita dalla ricorrente nel godimento del suo diritto al rispetto per la vita privata originata dalla decisione di revocarle l’accoglienza inizialmente prevista a seguito dell’esito della procedura di accertamento dell’età e non sugli obblighi positivi dello Stato convenuto (ibid). Dopo aver accertato che tale interferenza era prevista dalla legge interna e che perseguiva almeno uno tra gli interessi legittimi previsti dal par. 2 dell’art. 8 CEDU (tra le altre, Corte EDU, Grande Camera, 18.10.2006, Üner c. Paesi Bassi; 1.02.2022, Johansen c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022), ossia la difesa dell’ordine e della sicurezza pubblica e la protezione dei diritti altrui, la Corte EDU procede con la verifica della necessità di tale interferenza in una società democratica. A tal fine, essa nota innanzitutto come, nonostante l’impatto che un esame medico così invasivo possa avere su persone potenzialmente minori d’età e alla luce del principio di autodeterminazione personale tutelato egualmente dall’art. 8 CEDU, il formulario previsto dalle autorità belghe che era stato fornito alla ricorrente non prevede l’apposizione della firma della persona interessata per confermare il relativo consenso a sottoporsi al trattamento previsto. Appare poi rilevante per la Corte la circostanza per cui il test osseo sia realizzato immediatamente in caso di dubbi sull’età e non dopo aver tentato altri mezzi meno invasivi per accertare l’età effettiva delle persone interessate, come un’intervista a carattere multidisciplinare in cui fornire loro tutte le informazioni necessarie sulla stessa procedura (v. sopra, Corte EDU, A.C. c. Francia, cit.). Tenuto conto che l’intera procedura cui è stata sottoposta la ricorrente non è quindi stata accompagnata dal rispetto di adeguate garanzie procedurali, per la Corte EDU l’interferenza subita ha dato origine a una violazione dell’art. 8 CEDU, rigettando invece il resto del ricorso relativo agli artt. 13 e 14 CEDU, letti in combinato con lo stesso art. 8 CEDU, come manifestamente infondati.
1 La rassegna relativa agli artt. 3 e 5 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 2 e 8 è di C. Danisi.