Art. 2: Diritto alla vita
In Alkhatib e altri c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 16.01.2024) tre cittadini siriani lamentavano una violazione del diritto alla vita, letto sia sotto il profilo procedurale sia sotto quello sostanziale, che sarebbe stata originata da un uso eccessivo della forza da parte della guardia costiera greca durante un’operazione di controllo dell’imbarcazione con cui un loro familiare era giunto in Grecia via mare dalla Turchia. A causa di numerosi colpi sparati verso l’imbarcazione per fermare il conducente, il quale aveva tentato di sfuggire al controllo speronando la vedetta greca, il loro familiare era rimasto gravemente ferito e, poco più di un anno dopo, era deceduto.
Nonostante le competenti autorità greche avessero avviato indagini per accertare la dinamica dei fatti e l’eventuale responsabilità degli agenti coinvolti, tutti i procedimenti si chiudevano sostanzialmente a loro favore mentre, in relazione agli stessi eventi, venivano condannati due cittadini turchi per trasporto illegale di cittadini di Paesi terzi. Ritenendo l’art. 2 CEDU applicabile poiché la forza utilizzata dalla guardia costiera ha comportato, se non la morte, un grave rischio alla vita del familiare dei ricorrenti, e rigettando le obiezioni sull’ammissibilità del ricorso avanzate dallo Stato convenuto, la Corte EDU esamina innanzitutto la presunta violazione degli obblighi procedurali derivanti dal rispetto del diritto alla vita. A tal proposito, la Corte ribadisce che l’art. 2 impone alle Parti di rispondere in modo efficace a ogni possibile utilizzo della forza che rischi di comportare la perdita di vite umane attraverso l’avvio, anche d’ufficio, di indagini rapide e indipendenti che assicurino la raccolta di tutte le prove e testimonianze in grado di far luce sulle circostanze del caso specifico. Pur trattandosi di obblighi di condotta e non di risultato, l’appartenenza al sistema convenzionale richiede alle Parti di fare quanto ragionevolmente possibile per identificare eventuali responsabili e sanzionarli (v. Corte EDU, 14.09.2021, M.D. e altri c. Russia, in questa Rivista, XXIV, 1.2022; 19.09.2017, Ranđelović e altri c. Montenegro, in questa Rivista, XX, 1.2018). Nel caso dei ricorrenti, la Corte nota come le competenti autorità greche non abbiano condotto un’inchiesta approfondita. Ad esempio, nonostante fossero state raccolte alcune testimonianze tra i passeggeri dell’imbarcazione, il loro resoconto dei fatti appariva stereotipato e sbilanciato a favore della versione dei fatti avanzata dalla guardia costiera, secondo la quale avevano sparato senza accorgersi che vi fossero migranti a bordo oltre i due cittadini turchi. Inoltre, mentre indagini specifiche sulle imbarcazioni coinvolte o sulle traiettorie balistiche non erano state effettuate, le autorità investigative non avevano tentato di chiarire se la forza utilizzata dalla guardia costiera contro l’imbarcazione con a bordo persone migranti fosse assolutamente necessaria e proporzionale allo scopo perseguito. Tutto ciò fa dire alla Corte EDU che, nel caso dei ricorrenti, vi è stata violazione dell’art. 2 CEDU letto sotto il profilo procedurale (cfr. Corte EDU, 7.07.2022, Safi e altri c. Grecia, in questa Rivista, XXIV, 3.2022). Per quanto riguarda la lamentata violazione sostanziale dello stesso diritto alla vita, la Corte riconosce la difficoltà di esaminare il ricorso per via delle lacune in merito all’esatta dinamica degli eventi. Tuttavia, con le informazioni a sua disposizione, essa riesce comunque ad accertare la violazione per tre ragioni. In primo luogo, lo Stato convenuto non si è dotato di un quadro normativo e amministrativo che regoli adeguatamente l’uso della forza da parte della guardia costiera. In secondo luogo, l’operato degli agenti non ha tenuto conto dei rischi connessi all’uso della forza contro un’imbarcazione che, con significative probabilità, trasportava persone migranti ancorché non immediatamente visibili. Infine, considerato che il conducente non era armato e non aveva messo in pericolo la vita degli agenti, il suo arresto e il fermo dell’imbarcazione non poteva giustificare il tipo di forza da loro utilizzato, esistendo mezzi alternativi per raggiungere le stesse finalità. Non potendo ritenere, pertanto, che il ricorso alla forza risulta assolutamente necessario ai sensi dell’art. 2, par. 2, nelle circostanze del caso, per la Corte EDU vi è stata una violazione del diritto alla vita anche sotto il profilo sostanziale.
Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti
a) non-refoulement
Con il caso Sherov e altri c. Polonia (Corte EDU, sentenza del 4.04.2024) la Corte EDU è nuovamente chiamata a valutare la conformità dei rinvii sommari di migranti al confine polacco con l’art. 3 CEDU (v., in precedenza, Corte EDU, 23.07.2020, M.K. e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXII, 3.2020). Tra dicembre 2016 e gennaio 2017, quattro richiedenti asilo del Tagikistan si erano recati ripetutamente ai checkpoint polacchi di Medyka o di Dołchobyczów per presentare richiesta di protezione internazionale ma, senza ottenere la registrazione delle loro domande, erano stati velocemente allontanati verso l’Ucraina poiché identificati come migranti economici. Vedendosi rifiutata anche la possibilità di ricorrere contro le decisioni amministrative con le quali era stato vietato loro l’ingresso in Polonia, i ricorrenti decidevano di avviare, per posta, un ricorso contro i rispettivi dinieghi. Questi ricorsi culminavano in altrettante decisioni della Corte suprema amministrativa polacca la quale, in sostanza, riconosceva le irregolarità commesse dalla polizia al confine nell’ambito di una prassi consolidata di rinvii senza alcun approfondimento delle situazioni individuali dei migranti. Nonostante questo riconoscimento, la situazione dei ricorrenti rimaneva immutata non avendo quella Corte il potere di ammettere i ricorrenti in territorio polacco ai fini della registrazione e valutazione delle loro domande di asilo. Per la Corte EDU, così come nel caso M.K. e altri c. Polonia (v. sopra), il sig. Sherov e gli altri ricorrenti avevano manifestato in modo evidente il rischio di refoulement, diretto e indiretto, alla polizia di confine. Tuttavia, diversamente da quanto avrebbe richiesto il rispetto degli obblighi derivanti dall’art. 3 CEDU, gli agenti polacchi non avevano tutelato la loro sicurezza consentendo loro di rimanere nel territorio dello Stato convenuto fino a un esame completo dei loro casi oppure procedendo a un esame sulla situazione del Paese terzo verso cui sarebbero stati allontanati e se in esso potessero accedere a una procedura di asilo effettiva al fine di scongiurare il rischio di chain refoulement (cfr. anche Corte EDU, 15.09.2022, O.M. e D.S. c. Ucraina, in questa Rivista, XXV, 1.2023). Vi è stata dunque una violazione dell’art. 3 CEDU letto sotto il profilo procedurale. Inoltre, anche se sono state adottate decisioni individuali per negare ai ricorrenti l’ingresso in Polonia, per la Corte non si può affermare che quelle decisioni fossero basate su un esame effettivo e non stereotipato della loro situazione personale, in linea con una prassi di allontanamenti collettivi da parte dello Stato convenuto in violazione del divieto di espulsioni collettive (art. 4, Prot. 4) (cfr. anche Corte EDU, Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, 1.2012; 21.10.2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia, in questa Rivista, XVI, 3-4.2014; 12.10.2023, S.S. e altri c. Ungheria, in questa Rivista, XXVI, 1.2024). Infine, in assenza di un mezzo di ricorso avente carattere sospensivo delle decisioni controverse, attraverso cui i ricorrenti avrebbero potuto far valere i rischi di refoulement individuale e di espulsione collettiva, per la Corte EDU si è prodotta anche una violazione del diritto a un ricorso effettivo (art. 13 CEDU), letto in combinato agli artt. 3 CEDU e 4, Prot. 4, CEDU.
In J.A. e altri c. Turchia (Corte EDU, sentenza del 6.02.2024) una coppia di cittadini iracheni, con quattro figli, sostenevano di essere fuggiti in Turchia a causa delle violenze perpetrate dall’ISIS nella regione di Ninewa e di non ricevere protezione dal loro Stato in quanto mussulmani sunniti. Dopo aver fatto ingresso cin Turchia con un visto turistico, i ricorrenti venivano, successivamente, arrestati e privati della loro libertà personale in vista del loro allontanamento. Anche se riuscivano a ottenere misure restrittive alternative, i ricorsi mossi contro l’ordine di allontanamento venivano rigettati. In particolare, la Corte costituzionale turca aveva ritenuto che, nonostante un allontanamento in Iraq avrebbe potuto idealmente comportare dei rischi per la loro vita o la loro integrità psicofisica, i ricorrenti non avevano avanzato prove o informazioni sufficienti che, data la loro situazione personale, sarebbero stati effettivamente esposti a tali rischi. Esaminando il caso non solo sotto il profilo dell’art. 3 CEDU ma anche del diritto alla vita (art. 2) e superate le obiezioni dello Stato convenuto circa l’ammissibilità del ricorso, la Corte EDU concorda con i giudici interni in merito alla scarsità di elementi prodotti dai ricorrenti per supportare il loro resoconto dei fatti. Tuttavia, è anche vero che le loro dichiarazioni vertevano su aspetti specifici della situazione in Iraq che risultavano in linea con i rapporti internazionali disponibili all’epoca dei fatti, da cui emerge un contesto di insicurezza grave, specie nelle zone liberate dall’ISIS (tra gli altri, UNHCR, Position on Returns to Iraq, 14.11.2016; Amnesty International, Banished and Dispossessed: Forced Displacement and Deliberate Destruction in Northern Iraq e Punished for Daesh’s Crimes – Displaced Iraqis Abused by Militias and Government Forces, entrambi del 2016). La loro stessa provenienza non poteva essere dubbia avendo presentato, alle stesse autorità turche, un passaporto rilasciato in una regione dell’Iraq dove si erano effettivamente concentrati gli scontri con l’ISIS. Ciò imponeva ai giudici interni di effettuare quantomeno un esame approfondito dei timori avanzati dai ricorrenti di cui non si è, invece, traccia. Le stesse richieste di asilo presentate dai ricorrenti non erano state valutate. Di conseguenza, senza una previa verifica ex nunc dei rischi cui sarebbero esposti in Iraq (sulla base di informazioni attualizzate, come European Union Agency for Asylum, Country Guidance on Iraq, 29.06.2022), l’allontanamento dei ricorrenti darebbe luogo a una violazione degli artt. 2 e 3 considerati sotto il profilo procedurale.
Nel caso B.S. c. Turchia (Corte EDU, sentenza del 21.03.2024) una cittadina iraniana, arrivata in Turchia in modo irregolare, chiedeva protezione internazionale in ragione del timore di persecuzione originato dalle minacce di violenza da parte del marito. Al momento della domanda, dichiarava di essere musulmana e di osservarne le pratiche. Le autorità competenti turche le negavano protezione poiché il resoconto della ricorrente risultava generico e non supportato da precise informazioni o fatti. Ne veniva quindi ordinato l’allontanamento. Poco dopo, la ricorrente dichiarava di essersi convertita alla religione cristiana e, di conseguenza, di rischiare la morte o maltrattamenti in caso di rientro in Iran. L’ordine di allontanamento veniva ciononostante confermato. Valutando congiuntamente il caso sotto due profili, ossia del divieto di respingimento (art. 3) e del diritto alla vita (art. 2), la Corte EDU nota come, nonostante dichiarasse di essersi convertita in seguito al suo arrivo in Turchia, la sig.ra B.S. si fosse battezzata solo dopo la notifica dell’ordine di allontanamento (sul tema delle conversioni religiose sur place, cfr. Corte EDU, Grande Camera, F.G. c. Svezia, 23.03.2016, in questa Rivista, XIX, 1.2017). Se la Corte accetta che le autorità interne non avrebbero potuto effettivamente valutare il rischio lamentato dalla ricorrente fino a quando questa non ne aveva fatto menzione producendo un certificato di battesimo, essa nondimeno afferma che, subito dopo, gravava sulle autorità interne l’obbligo di verificare se tale conversione fosse genuina secondo i criteri emersi nella giurisprudenza della stessa Corte EDU (v. anche Corte EDU, 5.11.2019, A.A. c. Svizzera, in questa Rivista, XXII, 1.2020) e se, di conseguenza, sussistesse un rischio effettivo di violazione degli artt. 2 e 3 CEDU in caso di allontanamento in Iran. Poiché non vi è traccia di una verifica siffatta a livello interno, per la Corte EDU si produrrebbe una violazione di entrambe queste disposizioni convenzionali, lette sotto il profilo procedurale, laddove la ricorrente venisse allontanata nel suo Paese di origine senza una previa verifica della sua situazione personale concernente la sua – vera o presunta – conversione religiosa.
Il caso K.J. e altri c. Russia (Corte EDU, sentenza del 19.03.2024) è relativo a tre cittadini della Corea del Nord che lamentavano, in particolare, una violazione degli artt. 2 e 3 CEDU se rinviati nel loro Paese di origine. Prendiamo in esame solo i fatti relativi al sig. S.K. tenuto conto che i ricorsi degli altri ricorrenti, avendo trovato successivamente rifugio in Corea del Sud con la conseguenza di non correre più il rischio di essere allontanati verso Pyongyang, sono stati radiati dal ruolo. Il sig. S.K. era uno studente che, nel 2019, aveva ricevuto un visto per frequentare l’Università in Russia nella regione di Vladivostock, sotto il continuo controllo di ufficiali del suo Paese. Alla fine del primo anno, tuttavia, decideva di non voler più tornare in Corea del Nord e di chiedere asilo in Russia. Poco dopo, il 10 settembre 2020, veniva trattenuto dalla polizia locale e, secondo quanto riportato dagli agenti presenti, veniva affidato agli agenti consolari del suo Paese. Da quel momento, non si hanno più notizie precise sulla sua sorte. Il suo ricorso a Strasburgo è stato, di conseguenza, presentato dall’Institute for Human Rights (IHI), per cui la Corte EDU ha dovuto in via preliminare verificarne la ricevibilità. Date le particolari circostanze della sparizione del sig. S.K. e l’assenza di conflitti di interessi tra l’IHI e quest’ultimo, la Corte ha ammesso la possibilità che l’IHI abbia agito per suo conto al fine di non privarlo della protezione offerta dalla CEDU. Del resto, l’IHI aveva già rappresentato il ricorrente a livello interno e richiesto alla stessa Corte EDU di indicare misure provvisorie ex art. 39 del suo regolamento interno. Rigettate pertanto le obiezioni dello Stato convenuto sull’ammissibilità del ricorso, la Corte nota come, all’epoca dei fatti, le autorità russe avevano accesso a sufficienti informazioni sui rischi cui poteva essere esposto il sig. S.K. dopo aver deciso di non fare ritorno nel suo Paese (v. Human Rights Watch, Worth Less Than an Animal: Abuses and Due Process Violations in Pretrial Detention in North Korea, 2020; UN Special Rapporteur on the Situation of Human Rights in North Korea, rapporti del 17.03.2022 (UN doc. A/HRC/49/74) e del 12.10.2023 (UN doc. A/78/526)). Ciononostante, prima di trasferirlo agli agenti della Corea del Nord, nessuna autorità interna ha esaminato la situazione del ricorrente rispetto alla possibile violazione degli artt. 2 e 3 CEDU, né ha avviato indagini per fare luce sulla sua sparizione. Per queste ragioni, la Corte EDU conclude che, nel caso del sig. S.K., ha avuto luogo una violazione del diritto alla vita e del divieto di tortura, cui si aggiunge anche una violazione del diritto alla libertà personale (art. 5 CEDU) in ragione del trattenimento subito dallo stesso il 10 settembre 2020 in assenza di una qualsiasi base giuridica.
In U. c. Francia (Corte EDU, sentenza del 15.02.2024) un cittadino russo di origine cecena otteneva nel 2012 lo status di rifugiato in Francia in ragione del suo attivismo in un’associazione di promozione dei diritti umani e dei maltrattamenti subiti di conseguenza. Qualche anno dopo veniva condannato per terrorismo, cui seguiva un’interdizione definitiva dal territorio francese e la revoca dello status di rifugiato. La Federazione russa veniva identificata come il Paese verso cui allontanarlo, nonostante il ricorrente sostenesse di rischiare maltrattamenti vietati dall’art. 3 CEDU per via delle sue passate attività in Cecenia, le stesse alla base del riconoscimento, dieci anni prima, della protezione internazionale. Pur sottolineando la gravità della minaccia posta oggi dal terrorismo internazionale e le difficoltà che le Parti devono affrontare per fronteggiarla in modo effettivo, la Corte EDU ricorda la natura assoluta del divieto di refoulement e dei trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU quale espressione di uno dei valori fondamentali di una società democratica (cfr. Corte EDU, 19.04.2018, A.S. c. Francia, in questa Rivista, XX, 2.2018; 7.11.2017, X c. Germania, dec., in questa Rivista, XX, 1.2018). Inoltre, in un caso come quello del ricorrente, per la Corte occorre effettuare un’analisi ben precisa al fine di stabilire se l’allontanamento esporrebbe una persona al rischio di subire torture o altri trattamenti inumani o degradanti. In breve, questa analisi consiste nel verificare la situazione generale del Paese di destinazione, l’eventuale ricorrenza di abusi sistematici contro un particolare gruppo o minoranza, l’eventuale appartenenza della persona da allontanare a quel gruppo o minoranza sistematicamente abusata, l’eventuale presenza di altri motivi personali da cui si possa comunque dedurre un rischio per la sua vita e/o l’integrità (Corte EDU, Grande Camera, 29.04.2022, Khasanov e Rakhmanov c. Russia, in questa Rivista, XXIV, 3.2022; 29.04.2019, A.M. c. Francia, in questa Rivista, XXI, 3.2019). Infine, secondo la Corte, spetta al ricorrente avanzare elementi sufficienti da cui si possa dedurre sia l’esistenza di abusi sistematici contro un particolare gruppo sociale nel Paese di destinazione, sia la sua appartenenza a quel gruppo specifico, nonché l’esistenza di altri motivi legati alle circostanze personali. Sulla base di questi principi, per la Corte EDU non si può innanzitutto affermare che, nonostante le serie violazioni dei diritti umani in Cecenia, esista una situazione generale di violenza per cui ogni allontanamento verso quella regione della Federazione russa sia contrario per se all’art. 3 CEDU (cfr. Corte EDU, 15.04.2021, K.I. c. Francia, in questa Rivista, XXIII, 2.2021; 30.08.2022, R. c. Francia, in questa Rivista, XXIV, 3.2022). Inoltre, come già riscontrato in casi precedenti, dai rapporti internazionali disponibili in materia non emerge un uso sistematico di torture e altri trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU nei confronti di gruppi sociali particolari come le persone legate, direttamente o indirettamente, alla resistenza cecena o coloro che sono stati condannati o sono sospettati di terrorismo. Venendo a eventuali motivi legati alla storia personale del ricorrente, la Corte EDU nota che i giudici interni hanno effettuato un esame completo e approfondito della sua situazione ritenendo che non vi fossero motivi da cui si potesse desumere una violazione dell’art. 3 CEDU. In effetti, il ricorrente non aveva prodotto alcuna prova ulteriore rispetto a quelle legate al suo precedente attivismo in materia di diritti umani, già avanzato per ottenere la protezione internazionale in Francia. Non vi erano nemmeno indicazioni circa l’esistenza di un interesse specifico da parte delle autorità russe nei confronti del ricorrente per quelle medesime attività, come dimostrava l’assenza di qualsiasi richiesta di estradizione da parte di Mosca. Attraverso una valutazione ex nunc del rischio lamentato dal ricorrente, la Corte EDU giunge alla medesima conclusione evidenziando, alla luce della mancata produzione di ulteriori prove da parte del ricorrente, l’inesistenza del menzionato specifico interesse da parte russa anche a seguito dei contatti intercorsi tra le autorità francesi e le autorità consolari della Federazione russa per organizzare il suo allontanamento. Su tali basi, la Corte EDU conclude che l’allontanamento del ricorrente nel suo Paese di origine non sarebbe contrario all’art. 3 CEDU.
b) condizioni materiali
Il caso O.R. c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 23.01.2024) riguarda un minore non accompagnato che, giunto in Grecia nel 2018, presentava domanda di protezione internazionale sostenendo di non voler tornare nel suo Paese di origine per via delle violenze domestiche subite dal padre e di volersi ricongiungere con la madre che si trovava in Germania. Nonostante venisse subito allertato il servizio nazionale per l’attribuzione di un alloggio e l’autorità competente del Pireo per i minori, il ricorrente non riceveva alcun tipo di sostegno per circa sei mesi. Durante questo periodo, trovava riparo in alloggi di fortuna e, seppur informalmente, nel Centro di accoglienza di Malakasa, in cui era anche stato vittima di molestie sessuali. Per il trattamento riservatogli fino alla sua collocazione in un Centro adeguato alla sua situazione, lamentava dinanzi la CEDU una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3) e del diritto al rispetto per la vita privata (art. 8). Dopo aver ritenuto appropriato esaminare il ricorso sotto il profilo del solo art. 3 CEDU e rigettate le obiezioni sulla sua ammissibilità, la Corte EDU ricorda che sulle Parti grava l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per evitare che le persone sotto la loro giurisdizione possano subire trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU, anche in materia di accoglienza di persone migranti (su tutte, Corte EDU, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1.2017; Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria, in questa Rivista, XXII, 1.2020), specie se minori di età (tra le altre, v. Corte EDU, 17.10.2023, A.D. c. Malta, in questa Rivista, XXVI, 1.2024; 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, 1.2018). Nel caso del ricorrente, la gravissima situazione materiale e di insicurezza cui è stato esposto per un lungo periodo, comprese la mancata nomina di un tutore e la totale assenza di ogni supporto per soddisfare i bisogni fisici e psicologici essenziali, risulta per la Corte incompatibile con l’essenza stessa della dignità umana (v. Corte EDU, Grande Camera, 21.1.2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, in questa Rivista, XXIII, 4.2011). Alla luce di una situazione generale all’epoca dei fatti già molto difficile (CPT, Rapport relatif à la visite effectuée en Grèce du 10 au 19 avril 2018, 19.02.2019; Comitato europeo dei diritti sociali, 26.01.2021, CIJ e ECRE c. Grecia, n. 173/2018), secondo la Corte il ricorrente ha subito un trattamento inumano e degradante contrario all’art. 3 CEDU con la conseguente violazione di tale disposizione.
Con A.R. e altri c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 18.04.2024) la Corte EDU riunisce tre ricorsi relativi a richiedenti asilo, giunti in diverse isole greche nel 2019, che lamentavano la violazione dell’art. 3 CEDU per essere stati privati di assistenza materiale e/o accesso a cure mediche adeguate alla loro salute nonostante le autorità competenti fossero a conoscenza della loro situazione personale. In particolare, la sig.ra A.R. era stata costretta a rimanere nell’isola di Kos e, senza ricevere alcun sostegno abitativo o accesso a servizi basilari, aveva vissuto come senzatetto per sei settimane. La seconda ricorrente, M.A., dell’età di 79 anni con seri problemi di salute, era stata collocata in una tenda e, successivamente, in un container in una situazione di grave sovraffollamento senza accesso a cure mediche adeguate per oltre un anno, nonostante la diagnosi ricevuta al momento del suo arrivo nel Centro di Chios Vial. Allo stesso modo, il terzo ricorrente W.A., affetto da epatite B, aveva vissuto nel Centro di Samos per quasi un anno in condizioni di grave sovraffollamento con impossibilità di accesso a servizi medici e sanitari, di scarsità di cibo e di insicurezza fino al suo trasferimento in una struttura ospedaliera nel Grecia continentale. Rispetto a tutti questi ricorsi, nella sua composizione di comitato di tre giudici, la Corte EDU ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’art. 3 CEDU e, con riferimento alla ricorrente A.R., anche una violazione del diritto alla libertà e sicurezza personale per non essere stata informata, in una lingua a lei comprensibile, sulle ragioni alla base del suo trattenimento (art. 5, par. 2, CEDU).
Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza
Con il caso M.H. e S.B. c. Ungheria (Corte EDU, sentenza del 22.02.2014) la Corte EDU è chiamata a valutare la presunta violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5 CEDU) lamentata da due richiedenti asilo che, dopo essere entrati irregolarmente in Ungheria ed essersi identificati come adulti, venivano trattenuti in vista del loro allontanamento. Pochi giorni dopo, entrambi i ricorrenti dichiaravano di essere in realtà minori d’età e chiedevano, invano, di essere rilasciati e posti in una struttura adeguata alla loro condizione. Se da un lato le autorità competenti estendevano a più riprese il trattenimento ignorando l’autoidentificazione dei ricorrenti, dall’altro li invitavano a provare la loro minore età fornendo documenti di identità originali oppure sottoponendosi, a loro spese, a una procedura per la determinazione dell’età. Entrambi venivano rilasciati qualche mese dopo quando veniva dimostrata la loro minore età, in seguito alla produzione di un documento di identità originale nel primo caso e dell’esito della procedura per l’accertamento dell’età nel secondo. Dopo aver riunito i due ricorsi, la Corte EDU ribadisce come, nonostante l’art. 5, par. 1, lett. f) permetta una restrizione della libertà personale per prevenire l’ingresso irregolare nel territorio delle Parti, quando si tratta di persone minori di età la loro condizione di vulnerabilità deve prevalere su considerazioni basate sul loro status migratorio (per tutti i riferimenti, cfr. C. Danisi, Il principio del preminente interesse del minore in ambito migratorio: verso una convergenza?, in Migration and International Law: Beyond Emergency?, a cura di G. Nesi, Napoli, 2018). Ciò significa che il loro trattenimento deve essere, in via di principio, evitato e solo una privazione della loro libertà personale per un brevissimo periodo, in condizioni adeguate, può risultare compatibile con la CEDU, sempre che le autorità competenti dimostrino di avere comunque escluso l’esistenza di misure alternative a tale trattenimento (tra le altre, Corte EDU, 30.03.2023, J.A. e altri c. Italia, in questa Rivista, XXV, 2.2023; 17.10.2023, A.D. c. Malta, in questa Rivista, XXVI, 1.2024). Nel caso dei ricorrenti, secondo la Corte EDU non si può rimproverare allo Stato convenuto di non aver subito creduto alle loro dichiarazioni, avendo rivelato la loro minore età solo dopo essere stati trattenuti. Tuttavia, l’iniziale legittima preoccupazione sulla veridicità di tali dichiarazioni non giustifica i ritardi successivi con cui si sono mosse le autorità interne. Non solo non avevano adottato alcuna misura volta a accertare la loro reale età in tempi brevi. Non era stata nemmeno verificata la possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione. Inoltre, anziché concedere loro il beneficio del dubbio, hanno ritenuto che l’onere di provare la loro minore età incombesse proprio sui ricorrenti contrariamente a quanto richiederebbe un approccio basato sul principio del preminente interesse del fanciullo (ad es., Corte EDU, 31.08.2023, M.A. c. Italia, in questa Rivista, XXV, 3.2023). Per tutte queste ragioni, secondo la Corte EDU, lo Stato convenuto non ha agito in buona fede e non ha dato prova della diligenza dovuta in casi riguardanti presunti minori (v. anche Corte EDU, 21.07.2022, Darboe e Camara c. Italia, in questa Rivista, XXIV, 2.2022). Tenuto quindi conto dell’arbitrarietà del trattenimento, nel caso dei ricorrenti vi è stata violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU.
In M.B. c. Paesi bassi (Corte EDU, sentenza del 23.04.2024) un richiedente asilo siriano, mentre era ospite di un Centro di accoglienza, veniva arrestato e condannato per la sua presunta partecipazione ad attività terroristiche. Una volta rilasciato, in attesa che la sua domanda di asilo venisse esaminata, il sig. M.B. veniva posto in stato di detenzione poiché, per le autorità interne, costituiva un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale e, per questa ragione, non potevano essere identificate misure alternative. Ritenendo tale privazione contraria alla CEDU, lamentava una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza personale. Dopo aver precisato che il trattenimento del ricorrente rientra nell’ambito di applicazione l’art. 5, par. 1, lett. f) (v. Corte EDU, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1.2017; Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria, in questa Rivista, XXII, 1.2020), in quanto volto a evitare il suo ingresso (de jure) non autorizzato nello Stato convenuto, per la Corte EDU esso risulta nondimeno arbitrario. Infatti, nonostante la durata del trattenimento (pari a circa un anno) fosse nel complesso ragionevole e le condizioni materiali fossero adeguate, la Corte non ritrova un legame sufficientemente stretto tra la privazione della libertà subita dal ricorrente e lo scopo per il quale tale misura era stata imposta. Lo dimostra il fatto che, durante l’intero periodo di trattenimento, le autorità interne non avevano intrapreso misure per valutare la sua domanda di asilo oppure, date la sua presunta pericolosità, non avevano verificato la sua eventuale esclusione dal riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi dell’art. 1F della Convenzione di Ginevra del 1951. Ciò significa, secondo la Corte EDU, che la misura cui è stato sottoposto il sig. M.B. è sproporzionata e non necessaria, non potendo essere giustificata unicamente da ragioni basate sulla tutela dell’ordine pubblico. Vi è stata pertanto una violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU.
Art. 8: Diritto al rispetto per la vita privata e familiare
In Nguyen c. Danimarca (Corte EDU, sentenza del 9.04.2024) una cittadina vietnamita, giunta nel 1989 con i genitori in Danimarca dove risiede in modo permanente dal 1994, lamentava una violazione dell’art. 8 CEDU per via dell’allontanamento impostole dopo una condanna per possesso di sostanze stupefacenti destinate alla vendita, con contestuale divieto di re-ingresso permanente nello Stato convenuto. Nell’ambito dei ricorsi interni contro tali misure, la Corte Suprema danese riconosceva la limitata responsabilità della ricorrente per i fatti a lei ascritti ma, ritenendo prevalenti gli interessi collettivi in base ai criteri emersi nella rilevante giurisprudenza della Corte Edu (tra le altre, Corte EDU, Grande Camera, 18.10.2006, Üner c. Paesi Bassi; 1.02.2022, Johansen c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, 2.2022), confermava sia l’ordine di allontanamento sia il divieto di re-ingresso, pur riducendolo a dodici anni. Per la Corte EDU, non vi sono dubbi che la ricorrente abbia subito un’interferenza nella sua vita privata e familiare, che tale interferenza fosse prevista dalla legge interna e che perseguisse almeno uno tra gli interessi legittimi previsti dall’art. 8, par. 2, CEDU, ossia la prevenzione del crimine. Per quanto riguarda il requisito della necessità di tale interferenza in una società democratica, la Corte EDU si sofferma sull’esistenza di “ragioni particolarmente serie” che, per consolidata giurisprudenza, sono richieste al fine di giustificare l’allontanamento di persone lungo soggiornanti come la ricorrente, la quale ha vissuto gran parte della sua vita in Danimarca. Se la Corte EDU nota come i giudici interni abbiano tenuto conto dei criteri emersi nella sua giurisprudenza per l’adozione delle loro decisioni, essi avevano comunque attribuito un peso eccessivo alla gravità del crimine commesso dalla sig.ra Nguyen nel bilanciamento tra interessi collettivi e individuali. In effetti, oltre ai forti legami instaurati con la Danimarca se comparata alla debole relazione mantenuta con il Paese di origine, la Corte Suprema aveva ad esempio trascurato del tutto le conseguenze dell’allontanamento rispetto ai rapporti con i tre figli, dei quali una di età minore e un’altra dipendente dalle sue cure per problemi di salute psico-fisica. Alla luce di questi elementi, data anche l’assenza di una storia criminale e la limitata entità della condanna (pari a un anno e mezzo di detenzione), per la Corte EDU l’interferenza subita dalla ricorrente risulta sproporzionata al fine perseguito dallo Stato convenuto (cfr. Corte EDU, 5.09.2023, Sharifi c. Danimarca, in questa Rivista, XXVI, 1.2024) dando così luogo a una violazione dell’art. 8 CEDU.
Allo stesso modo, nel caso Sarac c. Danimarca (Corte EDU, sentenza del 9.04.2024) relativo a un cittadino della Bosnia ed Erzegovina soggiornante dall’età di 7 anni in Danimarca, al quale era stato ordinato l’allontanamento e imposto un divieto di re-ingresso permanente per via di alcune condanne per droga e detenzione illegale di armi, la Corte EDU ritiene che non siano state avanzate ragioni particolarmente serie per giustificare l’interferenza nella sua vita privata. Infatti, pur non mettendo in dubbio la serietà dei reati commessi dal sig. Sarac, quest’ultimo non aveva mai costituito un pericolo all’ordine pubblico, né era stato mai avvertito del rischio di allontanamento, specie alla luce delle difficoltà che avrebbe sperimentato in caso di ricollocazione nel Paese di origine e il carattere permanente del divieto di re-ingresso in Danimarca. In ragione della non proporzionalità delle misure adottate nei confronti del ricorrente, vi è stata anche in questo caso una violazione dell’art. 8 CEDU.
In Wangthan c. Danimarca (Corte EDU, sentenza del 9.04.2024), una cittadina tailandese, giunta nello Stato convenuto all’età di 37 anni con due figli, otteneva un permesso di soggiorno dopo aver sposato un cittadino danese. Qualche anno dopo, veniva condannata per aver tentato di accoltellare il marito e per altri episodi di violenza nei confronti del figlio, cui seguiva un ordine di allontanamento con contestuale divieto di re-ingresso in Danimarca per un periodo di sei anni. Applicando i noti criteri emersi nella rilevante giurisprudenza della Corte EDU (oltre ai riferimenti già menzionati, v. anche Corte EDU, 5.09.2023, Noorzae c. Danimarca, in questa Rivista, XXVI, 1.2024), i giudici interni evidenziavano, in particolare, l’inesistenza di forti legami con lo Stato convenuto data la limitata durata del suo soggiorno e la relativa facilità di ricollocazione dei figli, di età minore, in Vietnam, nonché la serietà dei reati commessi dalla ricorrente. Diversamente dai casi precedenti, non trattandosi di una persona lungo soggiornante, per la Corte EDU le ragioni addotte dallo Stato convenuto sono effettivamente sufficienti per ritenere conforme all’art. 8, par. 2, CEDU l’interferenza subita dalla sig.ra Wangthan nel godimento del diritto al rispetto per la sua vita privata e familiare (così come in Corte EDU, 5.09.2023. Al-Masudi c. Danimarca e Goma c. Danimarca, in questa Rivista, XXVI, 1.2024), tenuto anche conto dell’accurato esame della sua situazione personale da parte di autorità indipendenti e imparziali e della limitata durata del divieto di re-ingresso. Nel suo caso, quindi, non vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU.
Il caso Dabo c. Svezia (Corte EDU, sentenza del 18.01.2024) riguarda un cittadino siriano che aveva ottenuto, insieme alla sua seconda moglie, protezione internazionale nello Stato convenuto. Ricorreva alla Corte EDU per lamentare una violazione del diritto al rispetto per la vita privata e familiare che sarebbe stata originata dal rigetto della domanda di ricongiungimento familiare attraverso cui avrebbe potuto riunirsi con la prima moglie e i loro cinque figli, i quali avevano temporaneamente trovato protezione attraverso l’UNHCR in Giordania. Le autorità interne avevano rigettato la richiesta poiché il sig. Dabo non possedeva risorse sufficienti per il mantenimento della famiglia con cui intendeva ricongiungersi, né un alloggio adeguato a ospitarli. Ad avviso del ricorrente, in realtà questi requisiti non si sarebbero dovuti applicare al suo caso poiché rientrava in una situazione specificamente prevista dalla legge applicabile che esentava i rifugiati che agivano come sponsor per richieste di ricongiungimento familiare entro tre mesi a partire dal riconoscimento dello status dal dovere dimostrare l’esistenza di tali requisiti economici o abitativi. Secondo le autorità interne, invece, il ricorrente non poteva godere di tale deroga poiché, se è vero che la prima moglie e i figli avevano contattato l’Ambasciata svedese in Giordania entro i tre mesi previsti, la loro domanda di ricongiungimento era stata poi effettivamente presentata dopo otto mesi dal riconoscimento dello status di rifugiato al ricorrente. Inoltre, negavano che tale rifiuto potesse dare origine a una violazione dell’art. 8 CEDU. La Corte EDU ricorda, innanzitutto, come questa disposizione non imponga un obbligo generale alle Parti di autorizzare il ricongiungimento familiare, le quali devono essere tuttavia valutate rispetto alle particolari circostanze del caso concreto e decise sulla base di un bilanciamento tra tutti gli interessi in gioco (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, 3-4.2014). Inoltre, nella sua giurisprudenza, essa è stata propensa a affermare un obbligo positivo per gli Stati convenuti unicamente quando la persona da ricongiungere avesse già stabilito forti legami con il Paese ospitante, oppure quando la vita familiare fosse stata formata alla luce di ragionevoli prospettive di rimanere nel Paese ospitante, o ancora quando tutte le persone interessate dal ricongiungimento fossero già presenti nel Paese ospitante, nonché quando occorresse tenere conto del preminente interesse dei minori coinvolti nel caso concreto oppure quando vi fossero difficoltà insormontabili a condurre la vita familiare nel Paese di origine delle persone interessate (per tutti i riferimenti, Corte EDU, Grande Camera, 9.7.2021, M.A. c. Danimarca, in questa Rivista, XXIII, 3.2021, specie parr. 134-136). Inoltre, l’art. 8 CEDU impone anche in materia di ricongiungimento la garanzia di un meccanismo di valutazione delle richieste che sia rapido, effettivo e sufficientemente flessibile e che assicuri un esame individualizzato alla luce delle circostanze specifiche delle persone interessate. Nel caso in esame, venendo in rilievo un obbligo positivo, la Corte EDU ritiene di dover verificare se sia stato effettuato un corretto bilanciamento tra gli interessi in gioco alla luce di un ampio margine di apprezzamento di cui godono le Parti della CEDU in materia, non emergendo circostanze particolari volte a restringere la discrezionalità riconosciuta alle autorità interne (come, ad esempio, nel caso di elementi discriminatori presenti nella legislazione interna applicabile: cfr. Corte EDU, 4.7.2023, B.F. e altri c. Svizzera, in questa Rivista, XXIII, 3.2023). A tal proposito, per la Corte EDU non è irragionevole prevedere che anche i rifugiati, dopo un periodo iniziale in cui siano dispensati dal soddisfare particolari requisiti, debbano provare di avere risorse a sufficienza per mantenere economicamente le persone da ricongiungere, senza così pesare sui servizi di welfare dello Stato ospitante. Nel caso del sig. Dabo, la Corte ritiene corretta la valutazione dei giudici interni circa l’inapplicabilità della deroga prevista dalla legge e, soprattutto, che la normativa interna è sufficientemente flessibile da poter ottenere una nuova valutazione appena il ricorrente sarà in grado di soddisfare i requisiti previsti. Non si può, in effetti, affermare che la legge impedisca valutazioni individualizzate delle richieste, né che il ricorrente sia impossibilitato a soddisfare i criteri da essa imposti in futuro, essendo un medico con buone prospettive di integrazione nel sistema sanitario svedese. Poiché nel frattempo può mantenere i contatti con la prima moglie e i figli anche attraverso visite in Giordania o in altri Paesi (diversamente da quanto sarebbe accaduto se fossero rimasti in Siria) e non essendo questi ultimi mai stati in Svezia né in un rapporto di particolare dipendenza con il ricorrente, lo Stato convenuto ha dato prova di un corretto bilanciamento tra i suoi interessi e quelli del sig. Dabo nel rigettare la sua domanda di ricongiungimento familiare. Tale rifiuto non ha dunque dato origine a una violazione dell’art. 8 CEDU.
Art. 10: Libertà di espressione
In Kirkorov c. Lituania (Corte EDU, decisione del 19.03.2024) la Corte EDU deve valutare le presunte violazioni della CEDU lamentate da un noto cantante russo in seguito alla sua inclusione nella lista di persone cui è fatto divieto di entrare in Lituania per motivi di sicurezza nazionale. Si riteneva, infatti, che il sig. Kirkorov fosse uno strumento del “soft-power” tramite cui la Russia influenza le popolazioni di altri Stati vicini, come peraltro dimostravano le sue posizioni a favore delle politiche espansionistiche russe e i concerti da lui organizzati in Crimea dopo l’annessione alla Federazione russa. Il ricorrente respingeva le accuse sostenendo, tra l’altro, di essere solo un artista le cui canzoni non avevano alcun carattere politico, che non vi fossero ragioni sufficienti per identificarlo come una minaccia alla sicurezza nazionale e che, in ogni caso, vietargli di entrare in Lituania per cinque anni costituiva una misura sproporzionata. Ritenendo applicabile l’art. 10 CEDU al caso del ricorrente, poiché le sue opinioni personali erano la ragione per l’adozione della misura controversa (in modo simile, cfr. Corte EDU, 27.04.1995, Piermont c. Francia, spec. parr. 51‑53; 3.02.2009, Women on Waves e altri c. Portogallo, par. 30), la Corte EDU verifica la conformità alla CEDU della giustificazione avanzata dalle autorità lituane per l’interferenza nel godimento della libertà di espressione del sig. Kirkorov. Sotto questo profilo, la Corte nota come tale misura sia prevista dalla legge, persegua evidentemente uno dei fini legittimi di cui al par. 2 dell’art. 10 CEDU e risulti anche necessaria in una società democratica. Infatti, la decisione dello Stato convenuto risiedeva su dati oggettivi e il ricorrente stesso non aveva negato di essere uno strumento della propaganda russa, la cui pericolosità è stata riconosciuta a più livelli. Inoltre, se è vero che la libertà di espressione è così fondamentale per una società democratica da essere difficilmente sottoposta a restrizioni, essa non può essere utilizzata per minare la sicurezza pubblica, interna o esterna delle Parti (su tale nozione, v. CGUE, 2.05.2018, K. v Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie and H.F. v Belgische Staat, C-331/16 e C-366/16, EU:C:2018:296). Per queste ragioni, secondo la Corte il divieto temporaneo di ingresso in Lituania non risulta arbitrario o manifestamente irragionevole ed è il risultato di un corretto bilanciamento tra interessi collettivi e interessi del ricorrente. Il suo ricorso è stato pertanto ritenuto manifestamente infondato e, di conseguenza, rigettato dalla Corte EDU come inammissibile.
Art. 14: Divieto di discriminazione
In Wa Baile c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 20.02.2024) un cittadino svizzero veniva fermato alla stazione di Zurigo per un controllo di identità mentre andava al lavoro all’École Polytechnique. Ritenendo di essere soggetto a tali controlli per via del colore della sua pelle, negava di fornire le sue generalità. Veniva così perquisito e multato. Mentre per i poliziotti autori del controllo non vi erano motivi razzisti alla base dell’accaduto, il ricorrente riteneva che nessun’altra persona dalla pelle bianca fosse stata sottoposta a controlli di identità nonostante il numero elevato di persone che transitava in stazione. Nella procedura penale avviata nei suoi confronti, il sig. Wa Baile chiedeva alle autorità interne di rendere disponibili dati attraverso cui provare l’assenza di elementi discriminatori nell’azione della polizia, come il materiale relativo alla formazione dei poliziotti circa le modalità di condurre controlli di identità, eventuali direttive interne in materia, statistiche circa le persone soggette a controlli. Tali richieste venivano tuttavia negate. Per i giudici interni, in sostanza, non c’erano motivi dai quali si potesse desumere che il controllo di identità fosse stato motivato da ragioni legate alla sua identità etnica, se non dal suo comportamento alla vista della polizia. Allo stesso modo, nel quadro della procedura amministrativa avviata dallo stesso ricorrente, la questione relativa al potenziale racial profiling veniva rigettata o non sufficientemente approfondita. La Corte EDU ritiene, innanzitutto, di dover valutare il caso solo sotto il profilo del divieto di discriminazione (art. 14 CEDU), in combinato al diritto al rispetto per la vita privata e familiare nel cui ambito di applicazione può rientrare, in termini di interferenza nella vita privata di una persona, anche un controllo di identità basato su specifiche caratteristiche fisiche o etniche, specie se in un luogo pubblico come una stazione (cfr. Corte EDU, 18.10.2022, Muhammad c. Spagna, in questa Rivista, XXV, 1.2023). La Corte ricorda poi come l’art. 14 CEDU imponga obblighi di carattere positivo proprio per eliminare una forma di discriminazione particolarmente grave come quella razziale. In tal senso, in presenza di una denuncia credibile, le autorità interne hanno l’obbligo di avviare indagini effettive sull’esistenza di eventuali motivi razzisti alla base dell’azione della polizia e per i giudici interni di motivare le loro decisioni in materia in modo adeguato (v. Corte EDU, 24.07.2012, B.S. c. Spagna, in questa Rivista, XIV, 4.2012; 31.10.2017, M.F. c. Ungheria, in questa Rivista, XX, 1.2018; 18.10.2022, Basu c. Germania, in questa Rivista, XXV, 1.2023), nonché l’obbligo di formazione della polizia per evitare casi di racial profiling (v. anche ECRI, General Policy Recommendation No. 11 on Combating Racism and Racial Discrimination in Policing, 29.6.2007, doc. CRI(2007)39 e, a livello universale, Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale, Raccomandazione generale n. 36, 17.12.2020). Nel caso in esame, è forza constatare come né nell’ambito della procedura penale né in quella di carattere amministrativo sia emerso un serio tentativo di approfondire le accuse mosse dal ricorrente nei confronti della polizia. Inoltre, nonostante sospetti credibili su una possibile motivazione razzista, il sig. Wa Baile non ha nemmeno beneficiato della parziale inversione dell’onere della prova tenuto, peraltro, conto che le autorità erano in possesso di dati che avrebbero potuto fare chiarezza sull’accaduto. Vi è stata dunque una violazione dell’art. 14 CEDU, letto in combinato all’art. 8, letto sotto il profilo procedurale. A essa si aggiunge anche una violazione del medesimo articolo sotto il profilo sostanziale. Infatti, per la Corte EDU, le circostanze vissute dal sig. Wa Baile generano un serio sospetto che il trattamento da lui subito fosse discriminatorio ma rispetto al quale il Governo svizzero non ha avanzato sufficienti ragioni per confutarlo, nonostante i richiami già espressi dal Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale e dall’ECRI sull’inesistenza di misure adeguate per evitare pratiche di racial profiling ad opera della polizia. Per le stesse ragioni relative alla violazione dell’art. 14 CEDU, letto sotto il profilo procedurale, la Corte EDU ritiene infine che il caso del ricorrente abbia dato anche origine a una violazione del diritto a un ricorso effettivo (art. 13 CEDU) rispetto alla lamentata violazione del combinato disposto artt. 14-8 CEDU.