Rassegna di giurisprudenza europea

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Corte europea dei diritti umani (a cura di Marco Balboni e Carmelo Danisi)

Corte di giustizia dell'Unione europea (a cura di Marco Borraccetti e Federico Ferri)

 

Corte europea dei diritti umani

Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti
a) non-refoulement
Nel caso D.A. e altri c. Polonia (Corte Edu, sentenza dell’8.7.2021) tre cittadini siriani raggiungevano il confine tra Polonia e Bielorussia in cinque diverse occasioni manifestando sempre, secondo la loro versione dei fatti, la volontà di chiedere protezione internazionale alle forze di polizia polacche.
Nonostante avessero spiegato a queste ultime i motivi per cui temevano di subire persecuzioni in Siria, in ogni occasione veniva negato loro l’ingresso con conseguente allontanamento in Bielorussia. Ciò accadeva anche dopo aver ottenuto misure cautelari dalla Corte Edu, ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento, attraverso le quali si indicava alla Polonia di non allontanare i ricorrenti in Bielorussia e di permetterne la permanenza nel suo territorio durante la valutazione della loro situazione personale. Tenuto anche conto di tali misure cautelari e delle evidenti lacune procedurali che emergevano dai rapporti redatti dalle forze di polizia al confine (ad es., assenza di interpreti e mancata indicazione delle domande poste ai ricorrenti), il Tribunale amministrativo regionale di Varsavia concordava con i ricorrenti che il loro caso avrebbe dovuto essere esaminato più attentamente. Tuttavia, lo stesso Tribunale rigettava la richiesta di annullamento della decisione impugnata con la quale si vietava loro l’ingresso in Polonia in una di tali occasioni poiché tale decisione era stata immediatamente eseguita e i ricorrenti non si trovavano più al confine polacco. La Corte Edu rigetta innanzitutto tutte le obiezioni presentate dallo Stato convenuto, specie in relazione alla presunta assenza di giurisdizione (art. 1 Cedu). A tal proposito, la Corte ritiene che sussiste giurisdizione poiché i fatti lamentati dai ricorrenti erano tutti riconducibili alle autorità polacche, le quali avevano certamente il controllo esclusivo di quanto accadeva al confine (Corte Edu, 11.12.2018, M.A. e altri c. Lituania, in questa Rivista, XXI, n. 1, 2019). Rispetto al merito della lamentata violazione dell’art. 3 Cedu, la Corte Edu ricorda come gli Stati parte della Convenzione devono in particolare assicurarsi, nel caso di allontanamento di uno straniero in uno Stato terzo, che nello Stato di destinazione la persona interessata abbia accesso a un sistema di asilo effettivo in modo da tutelarla contro il rischio di refoulement indiretto (Corte Edu, Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c.Ungheria, in questa Rivista, XXII, n. 1, 2020). Nel caso specifico dei ricorrenti, mentre non pare credibile che non avessero manifestato la volontà di chiedere asilo tenendo anche conto dei precedenti riscontri in merito a una prassi consolidata di rinvii immediati al confine polacco (Corte Edu, 23.7.2020, M.K. e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXII, n. 3, 2020), non si può negare che lo Stato convenuto fosse comunque a conoscenza delle loro circostanze personali quanto meno a partire dall’indicazione delle misure cautelari da parte della stessa Corte. Ciononostante, le autorità polacche non hanno proceduto a un esame individualizzato né hanno permesso loro di rimanere in Polonia fino alla valutazione dei relativi ricorsi. Ciò è sufficiente alla Corte Edu per ritenere che, nel caso dei ricorrenti, il divieto di ingresso e il contestuale allontanamento in Bielorussia ha dato origine a una violazione dell’art. 3 Cedu. Nonostante l’adozione a tal fine di decisioni apparentemente individualizzate per ciascun ricorrente, la mancata valutazione delle loro circostanze personali ha dato vita anche a una violazione del divieto di espulsioni collettive (art. 4, Prot. 4 Cedu). Inoltre, poiché i ricorrenti non hanno avuto a disposizione un ricorso attraverso cui far valere il rischio di refoulement diretto e indiretto e di espulsione collettive avente carattere sospensivo dell’allontanamento, nel loro caso vi è stata violazione dell’art. 13 Cedu (diritto a un ricorso effettivo), letto in combinato con gli artt. 3 e 4, Prot. 4, Cedu. Infine, tenuto conto del mancato rispetto delle misure cautelari indicate, lo Stato convenuto è venuto meno agli obblighi derivanti dall’art. 34 Cedu, relativo al diritto di presentare ricorso dinanzi la Corte Edu.
 

In D c. Bulgaria (Corte Edu, sentenza del 20.7.2021) un giornalista turco, ritenuto vicino all’opposizione e per questo motivo già licenziato dal giornale per cui lavorava, lamentava una violazione degli artt. 3 (divieto di tortura) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) Cedu poiché, nonostante i rischi cui sarebbe stato esposto in Turchia in seguito al tentato colpo di Stato del 2016, veniva consegnato alla polizia turca. In Turchia, il ricorrente veniva condannato per appartenenza a un’organizzazione terroristica ed è tuttora detenuto. Se le versioni delle parti divergono circa l’effettiva manifestazione alle autorità bulgare della volontà di richiedere asilo, la Corte Edu ritiene centrale comprendere se, dagli elementi a sua disposizione, si possa affermare che il ricorrente abbia esposto la sua situazione personale allo Stato convenuto indipendentemente dalla presentazione formale di una domanda di asilo e se i suoi agenti abbiano condotto un esame conforme alla Cedu prima di consegnarlo alle autorità turche. A tal fine la Corte nota come, in occasione del suo fermo e durante il trattenimento e il successivo accompagnamento alla frontiera turca, il ricorrente non abbia mai avuto a disposizione un interprete che potesse, ad esempio, tradurgli i documenti che aveva dovuto firmare o anche semplicemente facilitare la comunicazione con le forze di polizia bulgare. Inoltre, da un rapporto redatto a livello interno in bulgaro emerge come il ricorrente avesse affermato di essere un giornalista e di essere fuggito dal suo Paese perché ricercato dalla polizia. Se è vero, per la Corte Edu, che la volontà di chiedere asilo non necessita di essere manifestata in una forma specifica né che sia menzionata la stessa parola «asilo», le autorità dello Stato convenuto non potevano non essere a conoscenza di quanto stava accadendo in Turchia, specie ai giornalisti ritenuti vicini all’opposizione, data anche la risonanza mediatica del tentato colpo di Stato. Nonostante il ricorrente avesse pertanto avanzato elementi sufficienti da cui si poteva desumere la sua appartenenza a un gruppo esposto nel suo Paese a rischi di violazione dell’art. 3 Cedu, nessuna delle autorità interne intervenute in vario modo nel suo caso ha ritenuto opportuno verificare eventuali rischi o fornirgli informazioni sulla possibilità di chiedere protezione internazionale. Inoltre, data la rapidità con cui è avvenuto l’allontanamento, anche contrariamente alla procedura prevista dal diritto interno, il ricorrente non ha avuto accesso a un mezzo di ricorso effettivo contro l’ordine di allontanamento in Turchia. Pertanto, nel suo caso, vi è stata violazione degli artt. 3 e 13 Cedu.

Il caso Khachaturov c. Armenia (Corte Edu, sentenza del 24.6.2021) riguarda un ricorrente di origine armena che aveva soggiornato per anni in Russia, ove aveva ricoperto importanti cariche amministrative, e che era rientrato in Armenia poco dopo essere accusato di corruzione. Le autorità russe ne chiedevano l’estradizione, alla quale il ricorrente si opponeva adducendo gravi rischi per la sua vita viste le sue precarie condizioni di salute. Nonostante vari pareri medici segnalassero una situazione clinica particolarmente compromessa, tale per cui lo stesso trasferimento del sig. Khachaturov in Russia ne poteva compromettere la vita stessa, lo Stato convenuto accoglieva la richiesta delle autorità russe ritenendo di fatto sufficienti le specifiche garanzie da esse prestate sia contro il rischio di esporlo a torture o altri trattamenti inumani o degradanti sia rispetto alla disponibilità di un monitoraggio medico durante il trasporto e all’arrivo in Russia. Se i giudici interni confermavano la decisione di estradarlo, il ricorrente non veniva infine trasferito per via delle misure cautelari indicate dalla Corte Edu all’Armenia ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento. Nell’esaminare il merito del caso, la Corte Edu ricorda innanzitutto la sua giurisprudenza in materia di persone malate soggette a misure di allontanamento per ribadire come il rischio di subire trattamenti inumani o degradanti possa derivare anche dall’esposizione a viaggi rischiosi per la loro vita o a situazioni di privazione delle cure necessarie conducendoli a morte prematura o a un rapido declino dello stato di salute (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 13.12.2016, Paposhvili c. Belgio, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017; Corte Edu, 1.10.2019, Savran c. Danimarca, in questa Rivista, XX, n. 1, 2018; Corte Edu, 13.11.2012, Imamovic c. Svezia (dec.)). Per evitare tali rischi e la conseguente violazione dell’art. 3 Cedu, per la Corte Edu è necessario che gli Stati parti conducano un esame individualizzato in merito alle condizioni di salute della persona soggetta ad allontanamento e ai rischi che quest’ultima potrebbe correre alla luce delle specifiche condizioni di trasporto attraverso cui sarebbe trasferita nello Stato di destinazione. Nel caso del sig. Khachaturov, la Corte nota come fosse stata prodotta una molteplicità di opinioni di esperti contrari al trasferimento e la cui autenticità non era mai stata messa in discussione dallo Stato convenuto. Inoltre, i giudici interni avevano basato la loro valutazione soprattutto sulle garanzie prestate dalla Russia negando, invece, la richiesta di nominare un esperto che potesse verificare, in modo indipendente, le condizioni di salute del ricorrente. Così facendo, i rischi cui avrebbe potuto essere esposto il sig. Khachaturov non erano stati di fatto esaminati. Per la Corte Edu, i pericoli per la vita del ricorrente sussistono essendo stati, peraltro, confermati da un panel di esperti nominati dal Ministero della Salute armeno in seguito all’esaurimento dei ricorsi interni. Le assicurazioni avanzate dalle autorità russe non possono essere sufficienti per evitare tali rischi, poiché al sig. Khachaturov non basterebbe il semplice accompagnamento di un medico durante il trasferimento considerato il pericolo di un aggravamento improvviso della sua condizione clinica. Pertanto, in assenza di una previa valutazione individualizzata del rischio cui sarebbe esposto il ricorrente nell’eventualità della sua estradizione in Russia, per la Corte il suo allontanamento darebbe luogo a un trattamento vietato dall’art. 3 Cedu.

In E.H. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 22.7.2021), la Corte Edu esamina la presunta violazione dell’art. 3 Cedu subita da un attivista sahrawi come conseguenza del suo allontanamento in Marocco, ove denunciava di essere già stato maltrattato dalla polizia in occasione di manifestazioni a favore del Sahara Occidentale. Giunto in Francia per via aerea con un passaporto marocchino e un permesso di soggiorno per motivi di studio rilasciato dalle autorità consolari ucraine a Rabat, gli veniva negato l’ingresso nel territorio francese rimanendo trattenuto nella zona di transito dell’aeroporto ai fini della valutazione della sua richiesta di presentare protezione internazionale in Francia. Dopo un colloquio con l’autorità competente in materia d’asilo, la sua richiesta veniva ritenuta manifestamente infondata. Considerata la mancata cooperazione a tal fine da parte del sig. E.H., veniva esteso il suo trattenimento fino al suo effettivo allontanamento. Anche una successiva domanda di asilo, esaminata attraverso una procedura accelerata, veniva rigettata in ragione di dichiarazioni non circostanziate e poco convincenti rispetto al suo personale coinvolgimento nella causa sahrawi e dei rischi cui sarebbe potuto essere esposto in Marocco. Sulla base della consolidata giurisprudenza in materia (ad es. Corte Edu, 26.6.2014, M.E. c. Svezia, in questa Rivista, XV, n. 2, 2013), la Corte Edu ricorda come le autorità statali siano meglio posizionate per valutare la credibilità dei richiedenti asilo, ai quali spetta avanzare ogni elemento utile in loro possesso per esaminare l’effettivo bisogno di protezione internazionale come, ad esempio, la loro appartenenza a un gruppo sistematicamente esposto al rischio di maltrattamenti contrari all’art. 3 Cedu nel Paese di destinazione. Ove la valutazione circa il rischio di refoulement, diretto e indiretto, venga effettivamente compiuta dalle autorità interne, spetta alla Corte Edu verificare se l’esame da queste ultime condotto sia adeguato e fondato su elementi oggettivi. Rispetto alla situazione del sig. E.H., secondo la Corte Edu è vero che le persone che militano a favore dell’indipendenza del Sahara Occidentale possono essere esposte in Marocco al rischio di trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu (ad es. Declaration of the Working Group of the United Nations on Arbitrary Detention, 7 febbraio 2020). Tuttavia, nei diversi procedimenti avviati dal ricorrente, tutti i giudici interni hanno valutato come generici e scarsamente fondati gli elementi da lui avanzati per dimostrare sia il suo personale coinvolgimento rispetto alla causa saharawi sia i maltrattamenti subiti. Nel procedimento dinanzi la stessa Corte Edu, non sono emersi altri elementi utili a tal fine mentre permangono, ad avviso della Corte, incoerenze significative nel racconto, come quelle relative alle circostanze del rilascio del passaporto da parte delle autorità marocchine, del visto e della fuga in aereo nonostante il presunto interesse di queste ultime nei confronti del ricorrente. Pertanto, ritenendo che le decisioni interne siano state sufficientemente motivate per escludere un rischio di refoulement, per la Corte Edu l’allontanamento del sig. E.H. non ha dato luogo a una violazione dell’art. 3 Cedu. Inoltre, poiché il ricorrente ha potuto effettivamente far valutare il rischio di subire in Marocco torture o altri maltrattamenti contrari all’art. 3 Cedu attraverso una pluralità di procedimenti interni aventi carattere sospensivo, ha ottenuto le informazioni utili a tal fine nella sua lingua, è stato supportato da un avvocato e da interpreti ed è stato direttamente ascoltato dai giudici interni in più occasioni, per la Corte Edu non vi è stata alcuna violazione dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo), letto in combinato all’art. 3, Cedu.

Con la decisione A.B. e altri c. Finlandia (Corte Edu, decisione del 27.5.2021), la Corte Edu ha esaminato il ricorso presentato da una coppia libica con cinque figli che lamentava l’eventuale violazione dell’art. 3 Cedu nel caso in cui venisse trasferita in Italia, quale Stato responsabile della valutazione della loro domanda di asilo ai sensi del Regolamento Ue cd. di Dublino (III), a causa delle condizioni di accoglienza da loro ritenute non adatte al loro nucleo familiare. Innanzitutto la Corte Edu distingue la situazione italiana da quella greca al momento della valutazione del caso M.S.S. c. Belgio e Grecia (Corte Edu, Grande Camera, 21.1.2011, in questa Rivista, XXIII, 2011, n. 4), ritenendo così che le condizioni di accoglienza non sono di per sé un ostacolo a qualsiasi trasferimento in Italia. Inoltre, la Corte nota come, a seguito delle modifiche apportate dal decreto legge n. 130/2020 al sistema di accoglienza introdotto dal precedente decreto cd. Salvini, la situazione in Italia sia senz’altro migliorata e persone come i ricorrenti verrebbero considerati come richiedenti asilo in una condizione di vulnerabilità. Se si tiene anche conto della lettera inviata l’8 febbraio 2021 dall’Italia ai Paesi cui si applica il menzionato Regolamento per presentare il nuovo sistema di accoglienza SAI (Sistema di accoglienza e integrazione) e il trattamento che sarebbe riservato ai nuclei familiari una volta trasferiti in Italia, tutto ciò suggerisce alla Corte Edu che non vi siano motivi specifici per ritenere che i bisogni dei ricorrenti, comprese le esigenze mediche di uno dei figli, non verrebbero presi in considerazione dalle autorità italiane sulla base delle informazioni che le autorità finlandesi fornirebbero loro durante la pianificazione del trasferimento (diversamente, Corte Edu, Grande Camera, 4.11.2014, Tarakhel c. Svizzera, in questa Rivista, XVII, n. 2, 2015). Per queste ragioni, per la Corte non esistono rischi sufficientemente circostanziati e imminenti per poter dire che i ricorrenti, una volta trasferiti in Italia, possano subire trattamenti contrari all’art. 3 Cedu. Ritenendo pertanto il ricorso dei ricorrenti manifestamente infondato, è stato rigettato dalla Corte Edu come inammissibile.

Si segnala, inoltre, che la Corte Edu ha rivisto il caso N.A. c. Finlandia (Corte Edu, sentenza (revision) del 13.7.2021). Il ricorso si era concluso nel 2019 con la constatazione di una violazione degli artt. 2 e 3 Cedu, che era stata lamentata dalla ricorrente di origine irachena come conseguenza dell’allontanamento e della morte in Iraq del padre, dopo aver visto rigettata la sua domanda di protezione internazionale (cfr. Corte Edu, 14.11.2019, N.A. c. Finlandia, in questa Rivista, XXII, 1, 2020). In seguito a alcune indagini interne successive alla valutazione del caso, le autorità finlandesi hanno scoperto che la ricorrente aveva falsificato i documenti provanti la morte del padre, il quale è invece vivo e risiede tuttora in Iraq. Tenuto conto della centralità di tali prove per la constatazione della violazione degli artt. 2 e 3 Cedu nel 2019, ai sensi dell’art. 80 del suo Regolamento interno la Corte ha accolto la richiesta di revisione presentata dalla Finlandia annullando la precedente sentenza e ha rigettato il ricorso come abusivo ai sensi dell’art. 35 Cedu.

b) condizioni materiali

In M.D. e A.D. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 22.7.2021) due cittadine del Mali, una madre e la figlia nata in Francia poco dopo l’arrivo, lamentavano una violazione dell’art. 3 Cedu per essere state trattenute, nel contesto di un trasferimento verso l’Italia in applicazione del Regolamento Ue di Dublino (III), in un centro di detenzione ritenuto non adatto a una bambina di appena quattro mesi. Tale trattenimento si era prolungato per undici giorni a causa del rifiuto della prima ricorrente di imbarcarsi su un volo per l’Italia fino al rilascio, avvenuto su indicazione della Corte Edu ex art. 39 del suo Regolamento interno, e la presa in carico da parte dei servizi competenti. La Corte ricorda come il trattenimento di minori possa comportare una violazione dell’art. 3 Cedu sulla base dell’interazione tra tre fattori specifici: l’età del minore, le condizioni del centro di trattenimento e la durata dello stesso (cfr., tra gli altri, i casi R.M. e altri c. Francia, A.B. e altri c. Francia, A.M. e altri c. Francia, R.K. e altri c. Francia e R.C. e V.C. c. Francia decisi dalla Corte Edu il 12.7.2016, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). Indipendentemente dal fatto che la minore nel caso in esame fosse accompagnata, la Corte Edu nota come le condizioni del centro collocato vicino alle piste dell’aeroporto di Parigi-Charles de Gaulle fossero inadatte per ospitare una bambina neonata, con effetti potenzialmente gravi sul suo sviluppo, e sua madre. Inoltre, ritiene particolarmente significativa la durata del trattenimento, la quale non può essere imputato al comportamento della madre considerato anche il carattere assoluto degli obblighi derivanti dall’art. 3 Cedu. Pertanto, se il trattenimento della minore ha certamente superato la soglia di gravità per essere ritenuto contrario all’art. 3 Cedu, lo speciale legame esistente tra una madre e la figlia durante l’età dell’allattamento fa sì che lo Stato convenuto sia responsabile, secondo la Corte, di una violazione del divieto di tortura o trattamenti inumani o degradanti nei confronti di entrambe le ricorrenti. Inoltre, poiché le autorità interne non hanno verificato l’esistenza di alternative al trattenimento, il quale veniva giustificato essenzialmente dal paventato rischio di fuga delle ricorrenti, e i giudici hanno confermato ed esteso tale misura senza tenere conto della situazione specifica della minore alla luce delle condizioni del centro, vi è stata anche una violazione dell’art. 5, parr. 1 e 4, Cedu, relativamente al diritto alla loro libertà personale e alla disponibilità di un ricorso effettivo attraverso cui contestare la legittimità del trattenimento subito.

Il caso Monir Lotfy c. Cipro (Corte Edu, sentenza del 29.6.2021) riguarda un cittadino egiziano che, dopo aver visto revocata la cittadinanza cipriota ed essere stato allontanato nel suo Paese, rientrava irregolarmente a Cipro nel 2012. Essendo stato trattenuto oltre i cinque mesi previsti dalla legge, la Corte suprema ne ordinava l’immediato rilascio. Tuttavia, lo stesso giorno, quando si trovava ancora nei pressi della Corte suprema, il ricorrente veniva nuovamente arrestato per presenza irregolare sul territorio dello Stato convenuto e trattenuto. Il periodo di trattenimento veniva più volte esteso, in ragione della mancata cooperazione del sig. Monir Lotfy al rilascio dei documenti di viaggio, fino al suo definitivo allontanamento in Egitto nel luglio 2014. Mentre i giudici interni rigettavano i ricorsi presentati dal ricorrente successivamente al giudizio della Corte suprema ritenendo il trattenimento, in sostanza, necessario alla luce del presunto rischio di fuga, anche la richiesta di asilo veniva negata per mancanza di credibilità. Il sig. Monir Lotfy lamentava quindi una violazione dell’art. 3 Cedu a causa delle presunte precarie condizioni materiali di trattenimento, del mancato accesso a cure mediche adeguate e di alcuni maltrattamenti a suo dire subiti. La Corte Edu ritiene tale parte del ricorso manifestamente infondata. Infatti, rispetto ai vari episodi di maltrattamenti denunciati dal ricorrente, le accuse risultano sostanzialmente vaghe e non supportate dai referti medici a disposizione della Corte né da altre prove. In particolare, quanto al denunciato obbligo di docciarsi dinanzi le guardie del centro di trattenimento prima di recarsi all’esterno per cure mediche, la Corte Edu ritiene che non sia stata superata la soglia minima di severità richiesta affinché un trattamento possa qualificarsi come degradante ai fini dell’art. 3 Cedu in assenza di abusi verbali o fisici o di ispezioni corporali. Inoltre, mentre i dati forniti dallo Stato convenuto dimostrano come le sue condizioni di salute fossero state regolarmente monitorate avendo sempre accesso a cure mediche sia all’interno sia all’esterno del centro di detenzione, il ricorrente non ha fornito alcun dettaglio specifico circa le denunciate condizioni materiali di trattenimento. Tenuto conto che, secondo i dati generali forniti dallo Stato convenuto, tali condizioni non appaiono contrarie all’art. 3 Cedu, la Corte Edu rigetta tutta questa parte del ricorso come inammissibile. Invece, rispetto al trattenimento subito dal sig. Monir Lotfy nel centro di trattenimento di Menoyia in due diversi periodi (18 febbraio-6 luglio 2013 e 30 settembre 2013-8 luglio 2014), la Corte giunge a una diversa conclusione alla luce dei report del Comitato per la Prevenzione della Tortura (CPT) che denunciavano spazi personali insufficienti (CPT, Report on its visit to Cyprus, 2014). Infatti, nonostante l’assenza di dati da parte del ricorrente, lo Stato convenuto non ha fornito elementi utili per ritenere che al sig. Monir Lotfy sia stato effettivamente garantito uno spazio personale di poco oltre i due metri quadrati nel centro di Menoyia, e cioè contrariamente a quanto si desume dai riscontri del CPT. Pertanto, per la Corte Edu, relativamente ai periodi in cui è stato ospitato in quel centro, il ricorrente ha subito un trattamento degradante in violazione dell’art. 3 Cedu. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 5, para. 1, poiché le autorità cipriote, anziché rilasciare immediatamente il ricorrente a seguito della decisione della Corte suprema che aveva ritenuto illegittima la sua detenzione, ne hanno ordinato nuovamente il trattenimento in linea con una prassi già denunciata a livello internazionale (cfr. Amnesty International, 2012) e contrariamente a quanto prevedesse la legge interna (cfr. Corte Edu, 26.03.2019, Haghilo c. Cipro, in questa Rivista, XXI, n. 2, 2019).

Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare

In M.A. c. Danimarca (Corte Edu, Grande Camera, sentenza del 9.7.2021) un cittadino siriano, cui era stata riconosciuta una protezione temporanea di un anno a seguito della sua richiesta di asilo, lamentava una violazione dell’art. 8 Cedu, relativo al diritto al rispetto della vita privata e familiare, letto isolatamente o in combinato con il divieto di discriminazione (art. 14 Cedu), come conseguenza del rigetto della sua domanda di ricongiungimento con la moglie rimasta in Siria. Secondo il ricorrente, la violazione sarebbe stata generata dal diverso trattamento riservato ai titolari di protezione temporanea, i quali potevano presentare domanda di ricongiungimento solo dopo tre anni di permanenza in Danimarca, rispetto ai rifugiati o altri titolari di protezione internazionale che non dovevano attendere tale periodo. I giudici interni confermavano il rigetto ritenendo, da un lato, che non erano presenti circostanze personali eccezionali legate, ad esempio, allo stato di salute della moglie che consentissero di derogare all’applicazione di tale requisito temporale e, dall’altro, che andavano bilanciati le ragioni del ricorrente con gli interessi collettivi della società danese. Questi consistevano nell’evitare, in sostanza, un aumento esponenziale delle domande di ricongiungimento familiare a seguito dell’arrivo di molti rifugiati siriani cui era stata garantita una protezione temporanea come quella riconosciuta al ricorrente. Sulla base di vari fattori, come l’assenza di legami della moglie del ricorrente con la Danimarca, la temporaneità della separazione, la possibilità che il ricorrente rientrasse in Siria nel caso in cui la situazione fosse migliorata e l’ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati parte della Cedu in materia di ricongiungimento familiare, i giudici danesi concludevano che la misura riservata al sig. M.A. fosse conforme all’art. 8 Cedu. Inoltre, date le diverse esigenze di protezione del ricorrente rispetto ai rifugiati e a coloro che risultavano destinatari di status di lungo periodo, la misura contestata dal ricorrente non presentava profili discriminatori. Dovendo esaminare per la prima volta se un requisito temporale come quello previsto dalla legislazione danese sia conforme alla Cedu, la Corte Edu ricorda innanzitutto come l’art. 8 non imponga un obbligo generale alle Parti di autorizzare il ricongiungimento familiare, le quali devono essere tuttavia valutate rispetto alle particolari circostanze del caso e decise sulla base di un bilanciamento tra tutti gli interessi in gioco (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014). La Corte Edu ricorda anche come, nella sua giurisprudenza, sia stata propensa a affermare un obbligo positivo per gli Stati convenuti quando la persona interessata aveva già stabilito forti legami con il Paese ospitante, quando la vita familiare era stata formata alla luce di ragionevoli prospettive di rimanere nel Paese ospitante, quando tutte le persone interessate dal ricongiungimento erano già presenti nel Paese ospitante, quando occorreva tenere conto del preminente interesse dei minori coinvolti o quando vi erano insormontabili difficoltà a condurre la vita familiare dei ricorrenti nel Paese di origine (per tutti i riferimenti, cfr. parr. 134-136 della sentenza). Inoltre, a livello procedurale, la protezione offerta dall’art. 8 Cedu impone un meccanismo di valutazione delle richieste di ricongiungimento che sia rapido, effettivo e sufficientemente flessibile (cfr., ad es., Corte Edu, 10.7.2014, Senigo Longue e altri c. Francia, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014). Quanto al margine di apprezzamento delle Parti rispetto alla questione temporale sollevata dal caso, la Corte ritiene come non vi sia una tendenza consolidata a livello nazionale, europeo o internazionale sul periodo di permanenza nel Paese ospitante prima di poter presentare richiesta di ricongiungimento familiare. Tuttavia, essa nota come la Direttiva sul ricongiungimento familiare dell’Unione europea (Direttiva n. 2003/86/EC del 22 settembre 2003) abbia in realtà previsto per gli Stati membri dell’Ue la possibilità di introdurre un periodo di attesa di due anni ai fini del ricongiungimento per tutti gli stranieri non titolari dello status di rifugiato (cfr. artt. 8 e 12 della Direttiva). Se tali elementi depongono nel senso del riconoscimento di un margine di apprezzamento piuttosto ampio, non viene comunque meno per la Corte Edu l’esigenza di un corretto bilanciamento tra gli interessi in gioco nel caso concreto. Su questo punto, nonostante la Corte non metta in dubbio la legittimità della distinzione operata dal legislatore danese tra titolari di diverse forme di protezione internazionale e il fatto che un periodo di attesa possa essere necessario per tutelare il benessere socio-economico di uno Stato e per garantire un livello di integrazione che faciliti la coesione sociale, essa ritiene che un periodo di tre anni sia comunque un lasso di tempo eccessivamente lungo. Infatti, un periodo di attesa di tre anni, che potrebbe alla fine risultare anche superiore per ragioni legate allo svolgimento della procedura, crea un particolare impatto nella vita coniugale, specie in uno dei suoi tratti essenziali quale è la coabitazione. Ciò risulta particolarmente vero quando esistono seri ostacoli al godimento del diritto al rispetto della propria vita familiare nel Paese di origine, ad esempio a causa di una situazione di grave violenza come accade in Siria. Nel caso del ricorrente, l’applicazione di tale requisito formale non ha di fatto permesso alle autorità interne di valutare le sue circostanze individuali, come la durata del matrimonio, la situazione generale in Siria e l’effettiva temporaneità della separazione, le difficoltà oggettive di ricongiungersi nel loro Paese, e di bilanciare effettivamente gli interessi personali del sig. M.A. e quelli dello Stato convenuto. Come afferma la Corte Edu, dopo un periodo di attesa di due anni che può essere ritenuto tutto sommato ragionevole (parr. 192 ss., ma cfr. sul punto l’opinione dissenziente del giudice Mourou-Vikstrom allegata alla sentenza), si impone una maggiore considerazione degli interessi individuali rispetto a quello operato in astratto dal legislatore. Venendo meno tale bilanciamento nel caso concreto del ricorrente, per la Corte vi è stata dunque una violazione dell’art. 8 Cedu. Alla luce di tale conclusione, la Corte ha ritenuto non necessario valutare anche la violazione del divieto di discriminazione nel godimento del diritto al rispetto della vita familiare lamentata dal ricorrente.

Il caso Khachatryan e Konovalova c. Russia (Corte Edu, sentenza del 24.6.2021) riguarda un ricorrente di origine armena, che aveva soggiornato in Russia per oltre dodici anni grazie a permessi triennali rinnovati a ogni scadenza, e sua moglie, cittadina russa. All’atto della richiesta per l’ennesimo rinnovo del permesso di soggiorno, il sig. Khachatryan forniva tutti i documenti necessari impegnandosi a produrre, nei tempi previsti, un certificato relativo al suo stato di salute comprovante, in particolare, l’assenza di HIV o di altre malattie infettive. Trascorsi i termini applicabili senza aver ricevuto dal ricorrente il certificato richiesto, le autorità russe rigettavano la richiesta di rinnovo. Tutti i ricorsi presentati dinanzi i giudici interni, nell’ambito dei quali il sig. Khachatryan faceva valere anche la violazione del diritto al rispetto della sua vita familiare, confermavano la decisione delle autorità amministrative. Se facevano prevalere l’esigenza collettiva di tutela della salute pubblica, non consideravano tuttavia gli effetti del mancato rinnovo sulla vita familiare dei ricorrenti. Il sig. Khachatryan veniva dunque costretto a lasciare a intervalli regolari la Russia fino al momento in cui è stato possibile riottenere, dopo circa un anno, un permesso di soggiorno di lungo periodo. Tenuto conto che vi era accordo tra le parti sull’avvenuta interferenza nel godimento del diritto di cui all’art. 8 Cedu, che questa fosse prevista dalla legge e perseguisse un fine legittimo ai sensi della stessa disposizione convenzionale (tutela della salute pubblica), la Corte Edu concentra il suo esame sul bilanciamento tra interessi collettivi e individuali operato a livello interno rispetto alle circostanze personali dei ricorrenti. Secondo la Corte, tutte le autorità intervenute nel caso avevano ignorato del tutto gli interessi individuali in gioco, incluso il preminente interesse del minore della coppia, e non avevano seguito i principi delineati nella giurisprudenza della stessa Corte Edu per effettuare tale bilanciamento (Corte Edu, Grande Camera, 18.10.2006, Üner c. Paesi Bassi, par. 57 ss.). Per la Corte, le autorità interne non avevano nemmeno verificato l’effettiva necessità di produrre il certificato medico richiesto per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, ignorando così sia la lunga permanenza del sig. Khachatryan in Russia sia i casi decisi dalla Corte Edu in merito alla discriminazione subita da coloro che avevano visto negato un permesso di soggiorno per ragioni legate al loro stato di sieropositività (Corte Edu, 15.03.2016, Novruk e altri c. Russia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). Del resto, anche quando tale certificato era stato prodotto dinanzi i giudici interni, non era stato comunque messo in discussione il diniego opposto al primo ricorrente. Pertanto, venendo meno una verifica puntuale della proporzionalità dell’interferenza subita e della sua necessità in una società democratica come richiede l’art. 8 Cedu, nel caso dei ricorrenti vi è stata una violazione del diritto al rispetto della vita familiare. 

Art. 4, Protocollo 4: divieto di espulsioni collettive

Con il caso Shahzad c. Ungheria (Corte Edu, sentenza dell’8.7.2021), un cittadino pachistano giunto in Grecia nel 2011 lamentava una violazione del divieto di espulsioni collettive per il suo trasferimento dall’Ungheria alla Serbia avvenuto senza alcun provvedimento formale da parte dello Stato convenuto. Dopo essere giunto in Serbia nel 2016 e aver tentato di chiedere asilo, il sig. Shahzad si recava in una delle zone di transito ungheresi dove si raccoglievano le domande di asilo secondo un meccanismo informale basato sull’ordine di una lista che veniva compilata sul posto da una persona migrante apparentemente individuata a tale scopo dalle forze di polizia serbe presenti al confine. Se le autorità ungheresi non accettavano più di quindici ingressi al giorno per zona di transito sulla base di tale lista, i tentativi di essere inserito in quest’ultima risultavano improduttivi venendo data assoluta priorità a nuclei familiari o donne con minori. Veniva dunque costretto a rimanere in un campo profughi in Serbia in condizioni materiali particolarmente precarie. Dopo essere riuscito a entrare illegalmente in Ungheria con altri undici connazionali, utilizzando un’apertura nella rete posta a protezione della zona di transito, il ricorrente veniva individuato da una pattuglia ungherese. Gli agenti rifiutavano di raccogliere la sua richiesta di asilo e lo riconducevano, insieme agli altri, vicino alla zona di transito per costringerli a rientrare, anche con maltrattamenti, in Serbia. Giunto nel campo profughi serbo più vicino, il ricorrente veniva condotto in ospedale e denunciava quanto accaduto alla polizia locale. Le indagini interne aperte in Ungheria a seguito della denuncia presentata dall’avvocato del ricorrente venivano frettolosamente chiuse, pur confermando la dinamica dei fatti. Dal canto suo, dopo essere stato allontanato dalla Serbia in Macedonia del Nord, il sig. Shahzad tornava volontariamente in Pakistan. Innanzitutto, la Corte Edu rigetta le obiezioni mosse dall’Ungheria sull’assenza di elementi che dimostrassero in modo chiaro che il ricorrente avesse subito il trattamento lamentato sulla base dell’esistenza di prove video che avevano documentato l’accaduto. La Corte si occupa dopo dell’applicabilità dell’art. 4 del quarto Protocollo addizionale alla Cedu al caso del ricorrente (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 13.02.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, n. 2, 2020). Secondo la Corte Edu, indipendentemente da quanto dispone la legge dello Stato convenuto, il trattamento subito dal sig. Shahzad rientra nella nozione di «espulsione» di tale disposizione poiché l’allontanamento del ricorrente, pur avvenuto attraverso una zona di transito che è parte integrante del territorio ungherese, aveva il chiaro scopo di farlo uscire dal territorio statale. Infatti, solo se interpretata in questo modo, tale disposizione può assicurare una tutela effettiva e non illusoria contro allontanamenti collettivi e, al contempo, tenere conto di quanto accade realmente nelle zone di transito istituite per proteggere e gestire le frontiere esterne dello Stato convenuto. Venendo al merito del caso, la Corte Edu osserva come il ricorrente non fosse stato identificato né la sua situazione individuale fosse stata esaminata dalle autorità ungheresi. Ciò può effettivamente condurre di per sé a constatare un’espulsione collettiva ai sensi dell’art. 4, Prot. 4 Cedu (ad es., Corte Edu, Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, n. 1, 2012) a meno che, afferma la Corte, il mancato esame individualizzato sia sostanzialmente dovuto alla condotta dello stesso ricorrente (il tentativo di riconciliare quanto affermato in Corte Edu, Grande Camera, N.D. e N.T. c. Spagna, cit. supra, è evidente). A tal fine, la Corte Edu nota come lo Stato convenuto non si trovasse in una situazione di particolare afflusso di migranti tale da renderne impossibile il controllo o da mettere in pericolo la sicurezza pubblica. Le prove video dimostrano come le forze di polizia abbiano circondato il ricorrente e i suoi connazionali e abbiano gestito il caso senza particolari difficoltà. Se è vero che il sig. Shahzad è entrato illegalmente in Ungheria, per la Corte Edu era di fatto impossibile riuscire a entrarvi legalmente e chiedere asilo dati il numero di accessi limitati consentiti e il discutibile sistema informale basato sulle liste. Non solo tale gestione era stata criticata come poco trasparente dall’UNHCR e dal rappresentante speciale del Segretario del Consiglio d’Europa per la migrazione e i rifugiati. Il ricorrente quale uomo single senza alcun visibile profilo di vulnerabilità non poteva ragionevolmente riuscire a usufruire di tale canale. Pertanto, tenuto conto della mancata identificazione e della condotta del ricorrente, nel caso del sig. Shahzad vi è stata violazione dell’art. 4 del quarto Protocollo addizionale alla Cedu.

La rassegna relativa all’art. 3 (non-refoulement) è di M. Balboni; la rassegna relativa agli art. 3 (condizioni materiali) e art. 4, Prot. 4 è di C. Danisi.

Si segnala inoltre che, il 1° Agosto 2021, è entrato in vigore il Protocollo addizionale alla Cedu n. 15. Oltre a inserire un richiamo diretto al principio di sussidiarietà e al margine di apprezzamento nel preambolo della Convenzione, il Protocollo n. 15 ha modificato l’art. 35, par. 1, Cedu relativo alle condizioni di ricevibilità come segue: «La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di quattro mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva» (corsivo nostro). Pertanto, secondo quanto disposto dallo stesso Protocollo, a partire dal 1° Febbraio 2022 la Corte dovrà essere adita entro quattro mesi dalla data della decisione interna definitiva, anziché gli attuali sei.

 

Corte di giustizia dell'Unione europea

Domanda reiterata: casi di prima richiesta presentata in Paese terzo che applica il regolamento Dublino III

Nel caso L.R. (C-8/20, sentenza del 20.5.2021), è stata vagliata la possibilità di considerare come reiterata o meno una domanda di protezione internazionale presentata in un Stato membro a seguito del respingimento di analoga domanda in Norvegia. Ciò era accaduto a L.R., cittadino iraniano, che, dopo avere subito il rigetto della propria domanda di asilo in Norvegia, aveva presentato la stessa richiesta in Germania; tuttavia, le autorità tedesche competenti avevano ritenuto che quella di L.R. fosse una domanda reiterata ai sensi dell’art. 33, par. 2, lett. d), della direttiva 2013/32 («direttiva procedure»). La decisione era stata presa nel rispetto del diritto tedesco vigente, che considerava la Norvegia come Paese terzo sicuro che applica il regolamento 604/2013 («Dublino III») sulla base di un apposito accordo concluso con l’Unione. Il giudice adito da L.R. per ottenere la riforma della decisione sfavorevole chiedeva alla Corte di giustizia se l’art. 33, par. 2, lett. d), della direttiva procedure – letto in combinato disposto con l’art. 2, lett. q), della stessa – autorizzasse uno Stato membro a considerare come reiterata una domanda di protezione internazionale che replica una richiesta rigettata in Norvegia. La Corte fa leva sulla nozione di «domanda di protezione internazionale», definita all’art. 2, lett. b), della direttiva 2013/32, notando che è tale se rivolta a uno Stato membro. Ne deriva che una domanda presentata in uno Stato terzo non è da intendersi come domanda di protezione internazionale con riferimento alla direttiva qualifiche. Pertanto, una domanda presentata prima in Norvegia non può, ancorché rigettata, essere dichiarata reiterata se viene successivamente proposta anche in Germania. L’Accordo UE-Norvegia non altera questa regola, potendo al massimo consentire a uno Stato membro di chiedere alla Norvegia di riprendere in carico il richiedente nel rispetto del regolamento Dublino III.

Protezione sussidiaria: valutazione del contesto di provenienza dell’interessato ai fini della determinazione del danno grave

Nel caso CF (C-901/19, sentenza del 10.6.2021) la Corte di giustizia ha chiarito il significato dell’espressione «minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale», che integra le casistiche di «danno grave» in base al quale si può beneficiare della protezione sussidiaria. Tale espressione, prevista dall’art. 15, lett. c), della direttiva 2011/95 («direttiva qualifiche») veniva interpretata restrittivamente dalla normativa tedesca applicabile, per la quale una simile tipologia di danno grave sussisterebbe solo se è già stato accertato un numero minimo di vittime civili (morti e feriti) nella regione interessata e se viene raggiunta una determinata proporzione tra vittime e individui che compongono la popolazione di appartenenza. In ragione di ciò, CF e altri civili afgani non avrebbero verosimilmente potuto essere riconosciuti come beneficiari di protezione sussidiaria ai sensi del diritto tedesco, nonostante fossero fuggiti da un contesto caratterizzato da una situazione di forte insicurezza generale. Di conseguenza, il giudice nazionale adito da CF chiedeva alla Corte di giustizia come dovesse essere interpretato l’art. 15, lett. c), della direttiva qualifiche. La Corte offre un’interpretazione molto diversa da quanto previsto dalla normativa tedesca. Per i giudici di Lussemburgo è chiaro che l’enunciato criterio del rapporto proporzionale non può essere l’unico su cui basarsi per verificare se sussiste la minaccia ex art. 15, lett. c), della direttiva. Diversamente, e anche se la disposizione accenna all’individualità della minaccia, è necessario considerare una serie molto più ampia di elementi, perché potenzialmente rilevano tutte le circostanze del caso di specie. Se, al contrario, si accogliesse l’interpretazione che fonda la normativa nazionale controversa, ci si allontanerebbe dall’esigenza di rispettare le finalità della direttiva qualifiche, che mira a conferire la protezione sussidiaria a chiunque abbia bisogno di una siffatta protezione. Inoltre, sarebbe altamente pregiudicata la necessità di avere criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale. Nello specifico, il risultato sarebbe che l’interessato si sentirebbe incentivato a presentare la propria domanda di protezione sussidiaria in Stati membri che applicano regimi più favorevoli rispetto alla Germania, dove invece la decisione di status dipende dall’esistenza di un requisito unico ed eccessivamente rigido; tuttavia, come noto, il diritto UE in materia di asilo è strutturato di modo da evitare il rischio di forum shopping.

Rimpatrio di cittadino di Stato terzo: rapporto tra divieto di ingresso e soggiorno e provvedimento di espulsione non attuato

Con il caso BZ (C-546/19, sentenza del 3.6.2021) la Corte si è espressa sul rapporto tra divieto di ingresso e soggiorno di un cittadino di Stato terzo in posizione irregolare e provvedimento di espulsione non attuato dalle autorità competenti. BZ, nato in Siria ma avente cittadinanza indeterminata, si trovava al centro di una situazione giudiziaria piuttosto complessa: era destinatario di un provvedimento di espulsione divenuto definitivo (adottato per motivi di pubblica sicurezza e di ordine pubblico sulla base di una precedente condanna penale) e accompagnato da un divieto di ingresso e di soggiorno nel territorio tedesco; tuttavia, la decisione di rimpatrio adottata nei suoi confronti era stata revocata in ossequio al principio di non respingimento. Rifacendosi alla direttiva 2008/115 («direttiva rimpatri»), il giudice tedesco trovatosi a pronunciarsi sulla vicenda di BZ si poneva, in particolare, il dubbio circa legittimità del mantenimento del divieto di ingresso e soggiorno in presenza di tali condizioni. La Corte, appositamente sollecitata dal giudice a quo, dapprima precisa che la direttiva rimpatri, in base all’art. 2, par. 1, si applica a qualsiasi cittadino di un Paese terzo che sia presente nel territorio di uno Stato membro senza soddisfare le condizioni d’ingresso, di soggiorno o di residenza da esso stabilite, indipendentemente dai motivi della presenza irregolare dell’interessato e dalle misure che possono essere adottate nei suoi confronti. Quindi, rappresenta che il divieto di ingresso e soggiorno dipende giocoforza dall’avvenuta esecuzione della decisione di rimpatrio dell’irregolare. La mancata partenza dell’interessato, specie al fine di assicurare il rispetto del principio di non respingimento, col contestuale permanere di un simile divieto, porterà lo stesso soggetto a trovarsi in una sorta di “limbo” giuridico. Al fine di evitare tale complessa situazione, pur se il provvedimento di espulsione è divenuto definitivo, la direttiva 2008/115 dovrà essere interpretata nel senso che la revoca della decisione di rimpatrio non consente allo Stato membro di mantenere in vigore un divieto di ingresso e di soggiorno.

Allontanamento del cittadino dell’Unione: criteri per appurarne la concretizzazione

La causa FS (C-719/19, sentenza del 22 giugno 2021) verte sull’effettività dell’allontanamento del cittadino dell’Unione europea divenuto soggiornante irregolare in uno Stato UE diverso da quello di cittadinanza. Il cittadino polacco FS non aveva più i requisiti per esercitare il diritto di rimanere nel territorio dei Paesi Bassi, tant’è che era stato disposto il suo allontanamento sulla base dell’art. 15, par. 1, della direttiva 2004/38. Dopo essere uscito volontariamente dal territorio dei Paesi Bassi entro il termine fissato nel provvedimento di allontanamento, egli vi aveva però fatto immediatamente ritorno. Nel procedimento interno avente ad oggetto, tra le altre cose, l’allontanamento, il giudice doveva altresì accertare se nel caso in esame il rientro avrebbe dato luogo a un nuovo diritto di soggiorno non superiore a tre mesi ex art. 6, par. 1, della direttiva 2004/38. La Corte di giustizia, investita a sua volta della questione, dichiara che l’ipotesi in discussione si configura solo qualora l’allontanamento del cittadino dell’Unione in posizione di soggiorno irregolare sia stato reale ed effettivo. Per soddisfare tale condizione non è sufficiente che l’interessato esca dal territorio dello Stato membro che ne ha disposto l’allontanamento; in effetti, talvolta è possibile che nemmeno l’uscita dal territorio determini la rottura dei legami con lo Stato membro, al punto che il soggiorno irregolare non potrebbe che apparire continuato. Se bastasse solo questo requisito, le finalità della direttiva ed il suo effetto utile sarebbero compromessi, poiché lo Stato membro ospitante si vedrebbe privato della possibilità effettiva di allontanare il cittadino dell’Unione che non beneficia più di un diritto di soggiorno secondo le regole previste dal diritto UE; tra l’altro, per il sistema sociale di quello Stato aumenterebbe il rischio di essere esposto a oneri eccessivi. A parere della Corte, per stabilire se l’allontanamento richiamato dall’art. 15, par. 1, della direttiva 2004/38 sia reale ed effettivo, il giudice del rinvio deve compiere una valutazione globale di tutte le circostanze pertinenti. Tra i vari elementi da considerare rileva anche il tempo di permanenza dell’interessato fuori dallo Stato membro che ne ha disposto l’allontanamento, fermo restando che questo requisito non può essere l’unico da considerare, né è giuridicamente ammissibile per il diritto UE determinare un termine minimo di riferimento per trarre una conclusione in tal senso. Da tutto ciò deriva che, in situazioni come quella appena riassunta, non vi sarà l’esigenza per le autorità nazionali competenti di adottare un nuovo provvedimento di allontanamento per i medesimi fatti che avevano giustificato l’allontanamento precedente. Viceversa, un mutamento concreto di circostanze potrebbe teoricamente consentire al cittadino dell’Unione – rientrato nello Stato membro che lo aveva allontanato – di soddisfare le condizioni previste dalla direttiva 2004/38 e di godere di un nuovo diritto di soggiorno.

Allontanamento del cittadino dell’Unione: possibilità di applicazione analogica di regole derivanti dalla direttiva 2008/115

Anche nel caso Ordre des barreaux francophones et germanophone (C-718/19, sentenza del 22.6 2021) la Corte si è pronunciata sul tema dell’allontanamento di cittadini dell’Unione. Tuttavia, il problema da risolvere, sollevato da un giudice belga, consisteva nella compatibilità con il diritto UE della normativa nazionale di attuazione della direttiva 2004/38 che, in sostanza, applicava per analogia certe disposizioni della normativa nazionale di attuazione della direttiva 2008/115. Per l’esattezza, alla base della vicenda vi era l’emissione di una decisione di allontanamento di alcuni cittadini dell’Unione per ragioni di ordine pubblico e pubblica sicurezza. Ebbene, stante tutto ciò, la Corte doveva stabilire se fosse in armonia con gli artt. 20 e 21 TFUE e con la direttiva 2004/38 una legge che prevedeva, in casi come questi, le seguenti ipotesi, tratte dalla disciplina che attua la direttiva rimpatri: da un lato, disposizioni volte ad evitare il rischio di fuga dei cittadini dell’Unione (o di loro familiari) in pendenza del termine concessogli per lasciare il territorio dello Stato membro ospitante o durante il periodo di proroga di tale termine; dall’altro, misure di trattenimento ai fini dell’allontanamento di questi soggetti, della durata massima di otto mesi, da applicare qualora i destinatari della decisione non vi si siano conformati entro il termine previsto. La Corte in primo luogo conferma che la disposizione di diritto UE più pertinente per il caso in esame è l’art. 27 della direttiva 2004/38, che ammette limitazioni alla libertà di circolazione di un cittadino dell’Unione (o di un suo familiare), per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. Tale disposizione aggiunge che i provvedimenti adottati per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza rispettano il principio di proporzionalità e sono adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale del destinatario della misura. Poiché l’art. 27 della direttiva 2004/38 non fornisce criteri particolarmente espliciti, gli Stati membri, in sede di attuazione della direttiva stessa, possono, in linea di principio, ispirarsi ad altri atti legislativi UE, tra i quali vi è anche la direttiva rimpatri. Ciononostante, e posto che le ipotesi in discussione costituiscono pur sempre limitazioni alla circolazione di cittadini dell’Unione, è necessario tenere a mente che le eccezioni alla regola vanno interpretate restrittivamente e che comunque il regime applicabile ai cittadini dell’Unione da allontanare non può essere più pregiudizievole di quello rivolto ai cittadini di Stati terzi che si trovino in una situazione paragonabile. Per quanto riguarda le due ipotesi controverse ammesse dal diritto belga, la Corte precisa che la prima non è di per sé contraria al diritto UE applicabile, a patto che non oltrepassi i limiti appena accennati. Discorso diverso per la seconda ipotesi, che accomunerebbe senza motivo la posizione del cittadino dell’Unione a quella del cittadino di Stato terzo. Infatti, mentre per l’allontanamento del cittadino di Stato terzo possono sorgere ostacoli fisiologici che giustificherebbero il suo trattenimento al fine di realizzare l’obiettivo della direttiva rimpatri (in particolare, un basso grado di cooperazione dello Stato ricevente), lo stesso non può dirsi per l’allontanamento del cittadino dell’Unione, a causa della presenza di meccanismi più efficaci tra Stati membri, i quali peraltro devono assistersi nel rispetto del principio di leale cooperazione.

Assegni di natalità e maternità a favore di cittadini stranieri titolari di un permesso unico di lavoro: riconducibilità delle prestazioni alla sicurezza sociale

La sentenza O.D. (C-350/20, sentenza del 2 settembre 2019) fa luce sulla natura degli assegni di natalità e maternità, in un contesto di parità di trattamento. Interviene in un contesto giuridico complesso, che contrassegna da tempo il diritto italiano. Alla base del procedimento interno vi è il diniego degli assegni di natalità e maternità da parte dell’INPS a cittadini stranieri legalmente soggiornanti in Italia e titolari solo di un permesso unico di lavoro previsto dal decreto legislativo di attuazione della direttiva 2011/98 (relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro). L’INPS riteneva, infatti, che gli interessati non potessero beneficiare di tali assegni, in quanto non erano soggiornanti di lungo periodo. Poiché la direttiva non si applica anche ai soggiornanti di lungo periodo, l’INPS riteneva di potere escludere dal beneficio delle prestazioni in questione i cittadini di Paesi terzi, tanto più che tali assegni di cui sopra avrebbero natura premiale e non sarebbero quindi da considerarsi prestazioni previdenziali. Dal canto loro, i ricorrenti ritenevano che la normativa interna, nella parte in cui subordina il riconoscimento degli assegni di natalità in favore di cittadini di Paesi terzi che siano titolari dello status di soggiornanti di lungo periodo, fosse incostituzionale e contraria all’art. 12, lett. e), della direttiva 2011/98. Quest’ultima si rivolge ai cittadini di Paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno per effetto del regolamento 1030/2002 del Consiglio (che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi terzi), e ai cittadini di Paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi. A costoro è garantita la parità di trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro ospitante, anche con riferimento ai settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento 883/2004 (relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale). Si trattava allora di capire se l’esclusione lamentata dai ricorrenti fosse in armonia con questa manifestazione della parità di trattamento, letta anche alla luce dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali, che riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali. Si precisa che la Corte di giustizia era stata interpellata dalla Corte costituzionale italiana, a sua volta azionata dalla Corte di cassazione. La Corte di giustizia parte due presupposti. Il primo è che lo Stato italiano non si è avvalso della facoltà offerta agli Stati membri di limitare la parità di trattamento come previsto all’art. 12, par. 2, lett. b), della direttiva 2011/98. Il secondo è che l’art. 12, lett. e), della direttiva concretizza, grazie al richiamo al regolamento 883/2004, il diritto fondamentale sancito all’art. 34 della Carta. La Corte osserva poi che l’art. 12 della direttiva non si limita a garantire la parità di trattamento ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma si applica anche ai titolari di un permesso di soggiorno per fini diversi dall’attività lavorativa che sono autorizzati a lavorare nello Stato membro ospitante. Perciò, per risolvere il quesito è necessario capire, in base agli elementi forniti dal giudice del rinvio, se gli assegni di natalità e maternità rientrino nei settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento 883/2004. Ricordando che una prestazione è riconducibile a tale regolamento a seconda delle finalità che la caratterizzano e dei presupposti per la sua concessione (quindi in virtù di elementi sostanziali, prima ancora che formali), la Corte si sofferma su due elementi: ritiene, cioè, determinante verificare i) se la prestazione è attribuita ai beneficiari, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita ex lege, e ii) se essa si riferisce ad uno dei rischi espressamente elencati all’art. 3, par. 1, del regolamento 883/2004. Al termine del suo ragionamento la Corte conclude che l’assegno di natalità rientra tra le «prestazioni familiari», menzionate all’art. 3, par. 1, del regolamento 883/2004; mentre l’assegno di maternità è concesso automaticamente alle madri che rispondono a determinati criteri obiettivi definiti ex lege, indipendentemente dagli esiti di valutazioni individuali e discrezionali delle esigenze personali dell’interessata. Pertanto, la normativa interna è contraria all’art. 12, lett. e), della direttiva 2011/98.

Sviluppo dell’associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia: limiti al diritto di accesso all’istruzione generale e alla formazione professionale dei figli di cittadini Turchi in uno Statomembro

Con il giudizio BY (C-194/20), sentenza del 3.7.2021 la Corte si è occupata di alcune disposizioni della decisione n. 1/80 del Consiglio di associazione, del 19 settembre 1980, relativa allo sviluppo dell’associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia. Al centro della vicenda vi era una famiglia di cittadini turchi che beneficiavano di permessi di soggiorno in Germania. Tali permessi erano poi scaduti e, contrariamente a quanto richiesto dagli interessati, non erano più stati rinnovati, né ne erano stati concessi di nuovi. I membri della famiglia ricorrevano dinnanzi al giudice competente per potersi avvalere di un diritto di soggiorno basato sull’art. 9, prima frase, della decisione n. 1/80, che dispone quanto segue: «(i) figli dei lavoratori turchi che sono o sono stati regolarmente occupati in uno Stato membro, regolarmente residenti con i loro genitori, sono ammessi in tale Stato ai corsi di insegnamento generale, di tirocinio e di formazione professionale alle stesse condizioni di ammissione richieste, in fatto di istruzione previa, ai figli dei cittadini degli Stati membri». Il giudice, in sostanza, chiedeva alla Corte come dovesse essere interpretata questa disposizione e se essa ammettesse un autonomo diritto di soggiorno per i figli nello Stato membro ospitante. Chiarito che il punto nodale della questione nel caso di specie è la sussistenza di una eventuale occupazione regolare dei genitori, la Corte afferma che l’art. 9 della decisione n. 1/80 va interpretato nel senso che uno dei genitori deve esercitare (o avere svolto) un’attività lavorativa subordinata nello Stato membro ospitante nel rispetto delle disposizioni più rilevanti della decisione, vale a dire gli artt. 6 e 7. Ora, l’art. 6 elenca le principali condizioni dalle quali dipende l’esercizio di un’attività lavorativa subordinata da parte dei cittadini turchi inseriti nel regolare mercato del lavoro di uno Stato membro per il rilascio e la proroga del permesso di lavoro, e presuppone che l’interessato abbia esercitato un lavoro regolare per un certo periodo di tempo; in particolare, come il lavoratore turco acquisisce il diritto di ottenere il rinnovo del permesso di lavoro al fine di continuare ad esercitare un’attività subordinata presso lo stesso datore di lavoro dopo un anno di regolare attività lavorativa. In aggiunta, l’inserimento del lavoratore turco nel «regolare mercato del lavoro» dello Stato membro ospitante implica l’esistenza di una situazione stabile e non precaria in tale ambiente. L’art. 7, invece, subordina l’acquisizione di un diritto proprio di accesso al mercato del lavoro dello Stato membro ospitante per i cittadini turchi a tre condizioni cumulative: essere un familiare di un lavoratore turco inserito nel regolare mercato del lavoro di quello Stato; essere stati autorizzati dalle autorità competenti a raggiungere il lavoratore di cui trattasi; risiedere regolarmente da un certo periodo nel territorio. Visto che – nel caso concreto – i ricorrenti non sono in grado di soddisfare i requisiti indicati dalla Corte, i figli non possono avvalersi del diritto di accesso all’istruzione generale e alla formazione professionale di cui all’articolo 9, prima frase, della decisione n. 1/80.