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Rassegna di giurisprudenza europea

Rassegna di giurisprudenza europea: Corte europea dei diritti umani

Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti

Nel caso M.A. c. Belgio (Corte EDU, sentenza del 27.10.2020) la Corte EDU è chiamata a esaminare la violazione dell’art. 3 CEDU lamentata da un cittadino sudanese che era stato allontanato nel suo Paese nonostante il denunciato rischio di venire esposto a trattamenti inumani e degradanti.

 

Il ricorrente era stato fermato senza titolo di soggiorno e, dopo aver ricevuto un ordine di allontanamento, era stato trasferito presso il Centro di trattenimento situato nei pressi dell’aeroporto di Bruxelles in vista della sua esecuzione. Pur comprendendo solo l’arabo, al sig. M.A. veniva chiesto in inglese, con l’interpretazione affidata a un co-detenuto, se vi fossero eventuali ragioni che ne ostacolassero l’allontanamento in Sudan. Poco dopo, nonostante il ricorrente avesse presentato richiesta di protezione internazionale, veniva anche organizzato un incontro con personale dell’Ambasciata sudanese a Bruxelles senza la presenza di un avvocato. Ottenuto il titolo di viaggio, le autorità competenti procedevano con il trasferimento in aeroporto facendo firmare al sig. M.A. una dichiarazione di partenza volontaria anche se un giudice interno avesse ordinato di non procedere con l’allontanamento fino a quando i ricorsi instaurati dal ricorrente si fossero conclusi. La Corte EDU rigetta innanzitutto l’obiezione dello Stato convenuto in merito alla qualità di vittima del sig. M.A. ai sensi dell’art. 34 CEDU. Per la Corte, l’allontanamento non poteva, in modo inequivocabile, essere considerato volontario tenuto conto del contesto in cui era stata rilasciata la citata dichiarazione, peraltro in inglese e senza la presenza di un interprete. Venendo al merito, la Corte EDU osserva come, nonostante il ricorrente avesse chiaramente espresso in vario modo i timori circa il suo rientro in Sudan, le autorità interne non si erano attivate per verificarne l’attendibilità (diversamente da Corte EDU, 2.06.2020, S.A. c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XXII, 3, 2020). In primo luogo, anche se nel Sudan non si riscontra una situazione generale di violenza particolarmente grave (Corte EDU, 30.05.2017, A.I. v. Svizzera e N.A. c. Svizzera, in questa Rivista, XIX, 3, 2017), non si può comunque escludere in astratto il pericolo di violazione dell’art. 3 CEDU senza previa considerazione della condizione personale dell’individuo da allontanare. In secondo luogo, affinché un individuo possa esporre effettivamente i suoi timori sotto il profilo dell’art. 3 CEDU, una serie di misure procedurali devono essere garantite dagli Stati parte (cfr. Corte EDU, 11.06.2020, M.S. c. Slovacchia e Ucraina, in questa Rivista, XXII, 3, 2020). Nel caso del ricorrente, tutto ciò non era avvenuto. Ad esempio, all’arrivo nel Centro di trattenimento il sig. M.A. riceveva una brochure che non conteneva indicazioni su come presentare una domanda di protezione internazionale, né gli era stato garantito accesso a un avvocato o a un interprete. Il funzionario competente non aveva nemmeno poste domande specifiche sulla sua situazione personale nel corso del primo colloquio. Anche l’incontro con l’Ambasciata sudanese, organizzato senza tutele per il ricorrente nonostante la richiesta di protezione internazionale già presentata, risultava molto problematica. In ragione di queste lacune procedurali, nel caso del sig. M.A., per la Corte EDU vi è stata una violazione dell’art. 3 CEDU. Inoltre, tenuto anche conto del mancato rispetto della decisione del giudice interno di non procedere con l’allontanamento in Sudan prima dell’esame dei ricorsi presentati dal ricorrente, i ricorsi a disposizione del ricorrente sono stati privati di ogni effettività. Pertanto, vi è stata anche una violazione dell’art. 13, letto in combinato con l’art. 3 CEDU.

Il caso B. e C. c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 17.11.2020) riguarda una coppia dello stesso sesso formata da un cittadino svizzero e il suo partner che aveva richiesto asilo, in due diverse occasioni, per la persecuzione subita in Gambia in ragione del suo orientamento sessuale. Tali richieste venivano rigettate per mancanza di credibilità e, in ogni caso, per l’assenza in Gambia di una situazione tale per cui appartenenti a minoranze sessuali potessero qualificarsi come rifugiati. Infatti, anche quando la credibilità del richiedente non era stata più messa in discussione, le autorità svizzere ritenevano comunque contraddittorio il suo racconto e che non vi fossero elementi utili per sostenere che le autorità ghanesi fossero a conoscenza del suo orientamento sessuale. Dopo aver visto rigettati anche i ricorsi relativi all’impossibilità di rimanere in Svizzera durante la procedura di ricongiungimento familiare, presentata sulla base dell’unione civile con il secondo ricorrente, il sig. B. rimaneva in Svizzera in virtù delle misure provvisorie applicate dalla Corte EDU (art. 39 del suo regolamento). Attraverso due diversi ricorsi, esaminati unitamente dalla Corte con la sentenza in esame, il sig. B. lamentava, da un lato, una violazione dell’art. 3 CEDU in ragione dei rischi cui sarebbe esposto in Gambia e dall’altro, insieme al suo partner, anche una violazione dell’art. 8 CEDU, per l’interferenza nel godimento del diritto al rispetto per la loro vita familiare causata dall’eventuale allontanamento. Quanto alla prima, la Corte EDU nota come, negli ultimi anni, la situazione generale dei diritti umani in Gambia sia migliorata per cui non ostacolerebbe per se l’allontanamento del sig. B. Venendo alle circostanze personali, la Corte EDU ricorda come sia oramai accettato tra le parti che il sig. B. sia omosessuale e condivide la posizione della Corte di giustizia dell’Unione in merito alla necessità di verificare che la criminalizzazione dell’omosessualità nel Paese di destinazione sia concretamente applicata per ritenere che esista un rischio effettivo di maltrattamenti in caso di allontanamento (CGUE, 7 novembre 2013, X, Y e Z, cause riunite C-199/12, C-200/12 e C-201/12, in questa Rivista, XV, 4, 2013, p. 107). Posto che nessun individuo può essere costretto a rinunciare a una parte così fondamentale per la sua identità come l’orientamento sessuale (Corte EDU, 18.01.2018, I.K. c. Svizzera (dec.), in questa Rivista, XX, 2, 2018; sul tema, M. Balboni, La protezione internazionale in ragione del genere, dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, Torino, Giappichelli, 2012; C. Danisi, M. Dustin, N. Ferreira, N. Held, Queering Asylum in Europe, Berlino, 2021), la Corte EDU non ritiene centrale nella valutazione del rischio di violazione dell’art. 3 CEDU il fatto che le autorità del Gambia non siano a conoscenza della situazione personale del ricorrente, come invece sostenuto dallo Stato convenuto. Infatti, non solo il suo orientamento sessuale potrebbe venire scoperto una volta allontanato ma, considerata la diffusa omofobia nel Paese di origine, il pericolo di persecuzione deriva anche da attori non statali. A tal proposito, la Corte EDU nota come lo Stato convenuto non abbia adeguatamente verificato se le autorità del Gambia offrano protezione alle minoranze sessuali contro attori non statali, in linea con le informazioni disponibili su quel Paese (ad es. UK Home Office, The Gambia: Sexual orientation and gender identity or expression, 2019). In assenza di un esame siffatto, per la Corte l’allontanamento del sig. B. darebbe pertanto luogo alla violazione dell’art. 3 CEDU. Quanto alla presunta violazione dell’art. 8 CEDU, la prematura scomparsa del sig. C. ha comportato la radiazione dal ruolo di quest’ultimo e fatto venire meno la questione dell’eventuale separazione tra i due ricorrenti in caso di allontanamento. La Corte EDU ha quindi ritenuto non necessario pronunciarsi in merito.

Nel caso B.G. e altri c. Francia (Corte EDU, sentenza del 10.09.2020) diciassette richiedenti asilo di varia provenienza lamentavano una violazione dell’art. 3 CEDU poiché le autorità francesi, anziché garantire loro le misure di accoglienza previste dal diritto interno, li avevano costretti a vivere in un accampamento di fortuna a Metz esponendoli così a trattamenti inumani e degradanti. Dopo aver radiato dal ruolo i ricorrenti che non avevano più dimostrato interesse a proseguire il ricorso essendo venuti meno i contatti con il loro avvocato, la Corte EDU esamina la situazione dei rimanenti cinque ricorrenti appartenenti a una famiglia, di cui tre minori, che aveva vissuto nell’accampamento menzionato per oltre tre mesi (29 giugno-9 ottobre 2013) prima di essere accolti in una struttura dedicata. La Corte ricorda innanzitutto la sua consolidata giurisprudenza secondo cui, anche in situazioni di significativo afflusso di richiedenti asilo, gli Stati parte devono rispettare gli obblighi derivanti dall’art. 3 CEDU alla luce della loro condizione di vulnerabilità per il percorso migratorio e le esperienze traumatiche cui sono stati esposti. A tal fine, devono prestare particolare attenzione al principio del preminente interesse del minore e, anche se non obbligati a garantire un particolare standard di vita, devono adottare le misure necessarie nell’eventualità in cui le persone interessate dipendano totalmente dall’aiuto statale (cfr. Corte EDU, 2.07.2020, N.H. e altri c. Francia, in questa Rivista, XXII, 3, 2020; 9.1.2020, B.L. e altri c. Francia, in questa Rivista, XXII, 2, 2020). Alla luce di tali principi, la Corte EDU nota come, nonostante le condizioni dell’accampamento risultassero effettivamente precarie e i ricorrenti fossero stati costretti a vivere in una tenda, le autorità francesi non erano rimaste totalmente indifferenti e avevano comunque soddisfatto i loro bisogni essenziali. Oltre a fornire loro un corrispettivo di 4 euro al giorno a persona, lo Stato convenuto aveva garantito le cure necessarie e l’accesso all’istruzione ai minori coinvolti e aveva trasferito tutti i ricorrenti in una struttura adeguata in un tempo relativamente breve, potendo per la Corte ritenersi tale un periodo di attesa pari a tre mesi in ragione dell’elevato numero di richiedenti asilo bisognosi di accoglienza. Tenuto conto anche della mancata produzione da parte dei ricorrenti di elementi specifici da cui la Corte EDU potesse desumere diversamente, nel loro caso non vi è stata violazione dell’art. 3 CEDU.

Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza

Con il caso Shiksaitov c. Slovacchia (Corte EDU, sentenza del 10.12.2020) la Corte EDU esamina congiuntamente due ricorsi attraverso cui un cittadino russo di origine cecena, che aveva ottenuto lo status di rifugiato in Svezia, lamentava la violazione dell’art. 5 CEDU per essere stato illegittimamente arrestato e privato della libertà in Slovacchia in vista del suo eventuale allontanamento in Russia. I fatti erano accaduti in occasione di un viaggio in Ucraina quando, al confine slovacco, le autorità competenti avevano identificato il sig. Shiksaitov come una persona su cui pendeva un mandato di arresto internazionale e ritenevano, inizialmente, che l’ottenimento della protezione internazionale in Svezia non precludesse la sua eventuale estradizione in Russia. Ciò giustificava, in sostanza, anche il suo trattenimento. Dopo quasi due anni, in seguito alla decisione della Corte suprema slovacca di non dare seguito alla richiesta delle autorità russe anche in ragione dello status di cui godeva il sig. Shiksaitov nel territorio dell’Unione europea, il ricorrente veniva rilasciato e poco dopo allontanato in Svezia. Secondo la Corte EDU, si può affermare che l’arresto e iniziale trattenimento del ricorrente non possa qualificarsi come arbitrario poiché non era nota la sua condizione personale alle autorità slovacche. Più problematica risulta, invece, la successiva privazione della libertà. A tal proposito, la Corte EDU nota come il riconoscimento dello status di rifugiato in Svezia non escludesse automaticamente la possibilità per lo Stato convenuto di verificare l’esistenza di circostanze eccezionali, quale la sopravvenuta applicazione delle cause di esclusione dallo status di rifugiato di cui all’art. 1F della Convenzione di Ginevra del 1951, per le quali il sig. Shiksaitov potesse essere allontanato in Russia. Ciò è vero soprattutto in ragione del mancato controllo da parte delle autorità svedesi dei motivi per cui già pendesse sul ricorrente un mandato di arresto internazionale. Di conseguenza, oltre a essere conforme alla legge, il trattenimento poteva risultare in via di principio necessario. Tuttavia, considerata la sua lunga durata, non si può affermare che le autorità abbiano agito con la dovuta diligenza per verificare rapidamente la situazione personale del ricorrente. Le informazioni necessarie per valutare la domanda di estradizione presentata dalla Russia erano già disponibili pochi mesi dopo l’arresto del sig. Shiksaitov, ma quest’ultimo veniva rilasciato solo oltre un anno e mezzo dopo. Pertanto, il trattenimento subito dal sig. Shiksaitov non poteva ritenersi giustificato per l’intero periodo con la conseguente violazione dell’art. 5, para. 1, CEDU. Inoltre, tenuto conto dell’impossibilità di ottenere un risarcimento per la privazione illegittima della sua libertà, nel caso del ricorrente vi è anche stata una violazione dell’art. 5, para. 5, CEDU.

Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare

Nel caso Usmanov c. Russia (Corte EDU, sentenza del 22.12.2020) un migrante originario del Tagikistan, trasferitosi con la famiglia in Russia acquisendone la cittadinanza, lamentava una violazione dell’art. 8 CEDU come conseguenza delle decisioni delle autorità russe di revocargli la cittadinanza e di allontanarlo nel suo Paese di origine. Al ricorrente veniva contestato di aver dichiarato il falso all’epoca della richiesta di cittadinanza per non aver indicato la lista completa dei suoi familiari. Contestualmente, veniva anche adottato nei suoi confronti un divieto di reingresso in Russia per un periodo di 35 anni, in ragione del presunto rischio da lui posto alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico. Tutte queste misure venivano confermate dai giudici interni senza, o comunque molto limitata, considerazione della situazione personale del sig. Usmanov. In virtù dell’applicazione delle misure provvisorie indicate dalla Corte EDU ex art. 39 del suo regolamento, da dicembre del 2018 il ricorrente rimaneva in Russia ma in un Centro di trattenimento in vista del suo allontanamento. La Corte EDU ricorda, innanzitutto, che la Convenzione e i suoi Protocolli non garantiscono un diritto alla cittadinanza in quanto tale ma, attraverso l’art. 8 CEDU, ogni individuo trova protezione contro privazioni arbitrarie della stessa e dalle contestuali conseguenze (Corte EDU, 21.06.2016, Ramadan c. Malta, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). In particolare, per verificare l’arbitrarietà di una revoca della cittadinanza, occorre esaminare se una misura siffatta sia prevista dalla legge e se sia accompagnata da adeguate garanzie procedurali. Nel caso del ricorrente, la Corte adotta un approccio più analitico dei precedenti che identifica, in primo luogo, le conseguenze della revoca della cittadinanza e, in secondo luogo, ne verifica l’arbitrarietà. Quanto alle conseguenze, per la Corte EDU risulta evidente che il ricorrente abbia subito un’interferenza del godimento del diritto al rispetto per la sua vita privata e familiare, essendo stato tra l’altro privato di ogni documento di identità con conseguenze notevoli anche nella quotidianità nel particolare contesto russo. Quanto all’arbitrarietà, nonostante la revoca fosse prevista dalla legge, non si può affermare per la Corte EDU che il diritto interno contenga norme chiare e garanzie procedurali sufficienti per gli individui interessati. Mentre non è evidente la rilevanza dell’informazione non fornita dal ricorrente ai fini dell’ottenimento della cittadinanza, contestata peraltro nove anni dopo, le autorità interne non erano tenute e non avevano esaminato le ragioni per l’accaduto e tutte le circostanze del caso. Pertanto, in assenza di qualsiasi bilanciamento tra interessi in gioco, la revoca della cittadinanza del sig. Usmanov ha dato origine a una violazione dell’art. 8 CEDU. Lo stesso può dirsi in relazione all’ordine di allontanamento, quale interferenza nel godimento del ricorrente del diritto al rispetto per la sua vita familiare che la Corte EDU non ha ritenuto necessaria in una società democratica. Infatti, non solo le autorità russe non avevano spiegato per quali ragioni il ricorrente costituisse un pericolo per la sicurezza nazionale, ma in nessun procedimento interno era stata considerata in modo appropriato la sua situazione personale alla luce dei criteri consolidati nella giurisprudenza della Corte EDU (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, 2, 2015). Pertanto, anche sotto questo profilo, nel caso del sig. Usmanov vi è stata una violazione dell’art. 8 CEDU.

Il caso Unuane c. Regno Unito (Corte EDU, sentenza del 24.11.2020) è relativo a un cittadino nigeriano che viveva nel Regno Unito con la moglie e tre figli, di cui uno cittadino britannico con una malattia congenita al cuore, fino al momento in cui veniva allontanato nel suo Paese di origine. Il ricorrente e la moglie erano stati condannati per aver falsificato alcuni documenti e, in virtù di una legge che prevedeva l’allontanamento per coloro che avevano subito una condanna di almeno dodici mesi di detenzione, veniva ordinato il loro rientro in Nigeria. Nell’ambito dei procedimenti interni, la Corte di appello effettuava un’importante distinzione. Se il principio del preminente interesse del minore richiedeva che i minori rimanessero nel Regno Unito, anche in ragione delle cure mediche necessarie per il figlio più piccolo non facilmente disponibili in Nigeria, l’eventuale separazione dalla madre avrebbe causato loro un grave danno. Di conseguenza, mentre alla moglie del ricorrente e ai figli veniva permesso di rimanere in territorio britannico, ad avviso dei giudici interni non esistevano ragioni particolarmente serie per non allontanare il sig. Unuane in Nigeria. Nell’esaminare la lamentata violazione dell’art. 8 CEDU, la Corte EDU ritiene che l’interferenza subita dal ricorrente fosse prevista dalla legge e perseguisse fini legittimi ai sensi del para. 2 dell’art. 8 CEDU. Quanto alla necessità dell’allontanamento in una società democratica, per la Corte i giudici interni non avevano condotto anche nei confronti del ricorrente un bilanciamento degli interessi in gioco tenendo conto della giurisprudenza consolidata in materia (Corte EDU, 6.06.2013, Uner c. Svizzera, in questa Rivista, XV, 2, 2013, p. 89). Nell’effettuare essa stessa tale bilanciamento, la Corte EDU osserva come il reato commesso dal sig. Unuane non fosse così grave da giustificarne l’allontanamento e che non esistevano ragioni sufficienti per non applicare le medesime considerazioni effettuate a livello interno nei confronti della moglie, anche in relazione al rapporto con i figli, a beneficio del ricorrente. Pertanto, nel caso del sig. Unuane vi è stata una violazione dell’art. 8 CEDU.

In M.M. c. Svizzera (Corte EDU, sentenza dell’8.12.2020) la Corte EDU si pronuncia in merito al ricorso presentato da un cittadino spagnolo che, nato e vissuto in Svizzera fino al momento del suo allontanamento avvenuto a seguito di condanne per reati sessuali contro minori e consumo di stupefacenti, lamentava una violazione dell’art. 8 CEDU. Per le autorità interne, la misura adottata nei confronti del ricorrente era proporzionale tenuto conto, in particolare, della sua difficile integrazione in Svizzera, dell’assenza di legami familiari, sociali o professionali, e della gravità dei reati commessi. Ritenendo che il caso del ricorrente, privo di familiari in Svizzera, andasse esaminato sotto il profilo della vita privata quale migrante di lungo periodo nello Stato convenuto (Corte EDU, 13.10.2016, B.A.C. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), per la Corte EDU non vi è dubbio che il sig. M.M. abbia subito un’ingerenza nel diritto protetto dall’art. 8 CEDU, che questa fosse prevista dalla legge e che perseguisse un fine legittimo, quale la tutela dell’ordine pubblico. Quanto alla proporzionalità e alla necessità dell’allontanamento, la Corte condivide il bilanciamento tra interesse pubblico e interessi personali del ricorrente effettuato a livello interno. Infatti, nonostante il sig. M.M. avesse trascorso gran parte della sua vita in Svizzera, esistevano ragioni particolarmente serie per il suo allontanamento. Pesava anche il rischio di recidiva dato il continuo possesso e la ricerca di materiale pedopornografico. Non avendo il ricorrente avanzato argomenti utili a rimettere in discussione l’esame condotto dai giudici svizzeri, per la Corte EDU il suo allontanamento risultava dunque necessario in una società democratica ai sensi del para. 2 dell’art. 8 CEDU. Pertanto, nel suo caso, non vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU.

Anche il caso J.A. c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 22.12.2020) riguarda un cittadino spagnolo nato in Svizzera al quale veniva ordinato di lasciare il Paese a seguito di condanne per reati sessuali contro minori. Per le autorità svizzere i legami familiari del ricorrente non ostavano al suo allontanamento, data l’età adulta del figlio e la possibilità della moglie di seguirlo in Spagna, dove aveva peraltro mantenuto alcuni legami. Dopo aver richiamato i noti criteri per valutare la conformità di un allontanamento all’art. 8 CEDU (Corte EDU, 6.06.2013, Uner c. Svizzera, in questa Rivista, XV, 2, 2013, p. 89), anche in questo caso la Corte EDU ritiene che non vi sia stata alcuna violazione. Infatti, le autorità interne avevano condotto un esame approfondito della situazione del ricorrente facendo correttamente prevalere, specie in ragione della gravità dei reati commessi, l’interesse generale di tutela della sicurezza pubblica e di prevenzione del crimine sugli interessi individuali del sig. J.A. La revoca del permesso di soggiorno permanente del ricorrente e il suo allontanamento risultavano quindi necessari in una società democratica ai sensi dell’art. 8, para. 2, CEDU.

Art. 14: Divieto di discriminazione

Nel caso R.R. e R.D. c. Slovacchia (Corte EDU, sentenza dell’1.12.2020) due ricorrenti di origine Rom lamentavano molteplici violazioni della CEDU in ragione dei maltrattamenti subiti dalla polizia nell’ambito di un’operazione condotta in un quartiere caratterizzato da una forte presenza della comunità Rom e delle lacune emerse nella conduzione delle indagini per accertare eventuali responsabilità. In particolare, veniva lamentata una violazione dell’art. 14 CEDU, letto in combinato al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU), poiché ad avviso dei ricorrenti sia i maltrattamenti sia il discutibile approccio delle autorità nella conduzione delle indagini successive erano motivati dalla loro origine Rom. Dopo aver ritenuto non giustificato l’utilizzo di misure implicanti la forza nei confronti dei ricorrenti e non adeguate le indagini sui maltrattamenti da loro subiti, in violazione dell’art. 3 CEDU letto in senso sia sostanziale sia procedurale, la Corte EDU si concentra sulla parte del ricorso relativo al divieto di discriminazione. In linea con la giurisprudenza precedente, la Corte ricorda come la violenza basata sull’odio razziale rappresenti un grave affronto alla dignità umana e richieda una reazione vigorosa da parte delle autorità statali (Corte EDU, 27.01.2015, Ciorcan e altri c. Romania, in questa Rivista, XVII, 2, 2015, p. 125; 16.10.2018, Lingurar e altri c. Romania, in questa Rivista, XXI, 1, 2019). Ciò significa che gli Stati parti debbano attivarsi per chiarire il ruolo di eventuali motivi d’odio nel caso in cui siano presentate denunce che possono ritenersi credibili alla luce del contesto in cui si collocano. Dinanzi le autorità interne i ricorrenti avevano sollevato dubbi sulla pianificazione dell’operazione di polizia come sostanzialmente diretta nei confronti della comunità Rom presente nell’area e non per le dichiarate ragioni di ordine pubblico. Tuttavia, contrariamente ai denunciati motivi d’odio per il ricorso ingiustificato alla forza nei confronti dei ricorrenti che erano stati esaminati nell’indagine aperta a livello interno con appositi interrogatori e perizie psicologiche, i denunciati dubbi in merito alla pianificazione dell’operazione non erano stati considerati. Pertanto, in relazione a questo specifico aspetto, nel caso dei ricorrenti le autorità interne sono venute meno agli obblighi positivi derivanti dalla CEDU dando origine a una violazione dell’art. 14, letto in combinato all’art. 3 CEDU. 

Art. 1, Protocollo 1: Protezione della proprietà

Il caso Papachela e AMAZON S.A. c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 3.12.2020) riguarda un cittadino greco e la società da lui creata per gestire un hotel di sua proprietà che lamentavano una violazione dell’art.1, Prot. 1 CEDU. Nel 2016, nel momento di maggiore afflusso di migranti in Grecia, il sig. Papachela aveva concluso un pre-accordo con l’UNHCR per affittare il suo hotel come Centro di accoglienza. Poco dopo, l’hotel veniva occupato da migranti e gruppi a questi solidali e, per oltre tre anni, a causa dell’inerzia di talune autorità greche, i ricorrenti non ne avevano accesso. Ogni tentativo di rientrare in possesso della proprietà risultava vano. Continuavano tuttavia a essere comunque chiamati a pagare le tasse dovute e, per quanto illegale, il consumo di elettricità e acqua da parte degli occupanti. Né la polizia né le istituzioni competenti si attivavano per liberare l’hotel ritenendo che, anche dopo che il Tribunale ne aveva ordinato l’evacuazione, mancavano soluzioni alternative dove collocare i migranti e le altre persone occupanti. Dopo aver accertato che entrambi i ricorrenti possono essere qualificati come vittime ai sensi dell’art. 34 CEDU, essendo il sig. Papachela l’unico azionista della società per cui assumono due posizioni non distinguibili ai fini dell’applicazione della Convenzione (cfr. per i principi generali in materia, Corte EDU, Grande Camera, 7.07.2020, Albert e altri c. Ungheria), la Corte EDU rigetta le argomentazioni dello Stato convenuto volte a giustificare l’inerzia con ragioni di ordine pubblico e sociale. Per quanto riconosca un margine di apprezzamento significativo agli Stati parti in materia sociale e nella definizione dell’interesse pubblico, la Corte EDU comprende le possibili difficoltà iniziali delle autorità competenti nel pianificare l’evacuazione dell’hotel ma ritiene che la mancata adozione delle misure necessarie nel periodo successivo aveva arrecato danni significativi ai ricorrenti. Nel loro caso, lo Stato convenuto era dunque andato ben oltre il giusto equilibrio tra interesse pubblico e interessi privati. Pertanto, vi è stata una violazione dell’art. 1, Prot. 1 CEDU.

Art. 1, Protocollo 7: Diritto a garanzie procedurali in caso di allontanamento

Il caso Muhammad e Muhammad c. Romania (Corte EDU, Grande Camera, sentenza del 15.10.2020) riguarda due cittadini pakistani che, giunti in Romania con permessi studio, venivano arrestati su iniziativa dei servizi segreti rumeni e allontanati verso il loro Paese di origine per sospetti legami con organizzazioni terroristiche. Nel corso dei procedimenti interni, i ricorrenti non avevano accesso ai documenti relativi alle accuse mosse nei loro confronti poiché secretati. Le stesse accuse erano formulate in termini generici rendendo loro molto difficile ogni tentativo di difesa. Tenuto conto della regolarità del loro soggiorno in Romania, i ricorrenti lamentavano, tra l’altro, una violazione del diritto a garanzie procedurali ai sensi dell’art. 1, Protocollo 7 CEDU, specie in merito al diritto di essere pienamente informati dei motivi alla base dell’allontanamento e di poter accedere alle prove sulla loro pericolosità per la sicurezza nazionale. Esaminando il ricorso unicamente sotto il profilo dell’art. 1, Protocollo 7 CEDU, la Corte EDU ricorda come questo diritto sia diretto a proteggere i cittadini stranieri che soggiornano legalmente in uno Stato parte da ogni allontanamento arbitrario (Corte EDU, 17.05.2018, Ljatifi c. Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, in questa Rivista, XX, 3, 2018). Per essere conforme a tale disposizione, ogni allontanamento deve essere previsto dalla legge e corredato quantomeno dalle seguenti garanzie procedurali: poter avanzare opportune ragioni contro l’allontanamento, poter ricorrere contro l’ordine di allontanamento e poter essere rappresentati dinanzi le autorità competenti. Su tali basi, la Corte EDU riconosce che le specifiche garanzie procedurali richiamate nelle argomentazioni dei ricorrenti siano coperte dall’art. 1, Protocollo 7 CEDU, seppur da questo non espressamente previste. Infatti, affinché uno straniero soggiornante legalmente in uno Stato parte possa avanzare opportune ragioni contro l’allontanamento, deve poter essere adeguatamente informato sulle accuse e aver accesso alle informazioni contenute nei documenti su cui queste ultime si basano. Per quanto questi diritti procedurali non siano assoluti, per la Corte non possono essere limitati eccessivamente tali da renderli ineffettivi. Nel caso in cui vengano limitati a tutela dell’interesse pubblico, devono essere predisposte adeguati controbilanciamenti, non solo attraverso l’accesso indiretto alle fonti da parte del rappresentante legale ma anche attraverso le specifiche procedure seguite dalle autorità interne per disporre o esaminare l’allontanamento. Ad esempio, può risultare rilevante che, in assenza di accesso diretto alle informazioni secretate da parte delle persone interessate, queste informazioni siano accessibili e valutate, sia in merito alla loro veridicità sia in un’ottica di bilanciamento degli interessi in gioco, da un’autorità giudiziaria indipendente, la quale sia peraltro in grado anche di esaminare l’effettività necessità che tali informazioni rimangano secretate. Nel caso dei ricorrenti, la Corte EDU osserva come i giudici interni non avessero condiviso con loro alcuna informazione utile, né avessero mosso accuse specifiche, se non indicare le disposizioni di legge in virtù delle quali era stato deciso il loro allontanamento. Non è chiaro nemmeno se i giudici interni, per quanto indipendenti, avessero avuto accesso alla documentazione relativa ai fatti contestati ai ricorrenti e ne avessero valutato la credibilità. In ogni caso, è significativo il fatto che gli stessi giudici non potessero decidere di desecretare le prove garantendone l’accesso agli accusati e/o ai loro rappresentanti. Tutto ciò appare ancora più controverso perché, nel caso di specie, le autorità competenti avevano rilasciato, dopo la conclusione della procedura di appello, un comunicato stampa contenente maggiori elementi sulle circostanze del caso di quelli forniti ai ricorrenti dall’inizio dei procedimenti dinanzi i giudici. Tenuto conto dell’assenza di controbilanciamenti, inclusa la mancata informazione circa il diritto dei ricorrenti di poter essere rappresentati da avvocati in possesso della necessaria autorizzazione ad accedere a documenti secretati, l’impossibilità dei sigg. Muhammad e Muhammad di difendersi adeguatamente ha dato origine a una violazione dell’art. 1 del Protocollo 7 CEDU.

 

La rassegna relativa agli artt. 3-5 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 8-art.1, Protocollo 7 di C. Danisi.

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Rubrica di Questione Giustizia & Diritto, Immigrazione e Cittadinanza

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