Ammissione e soggiorno

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Rinnovo del permesso di soggiorno per attesa occupazione
La sentenza n. 5176/2018 del Consiglio di Stato esamina una controversia originata da un provvedimento con cui il questore di Verona aveva negato ad una cittadina straniera il rinnovo del permesso di soggiorno, per attesa occupazione,
 
stante l’assenza di un reddito minimo per un biennio e la prolungata disoccupazione; decisione amministrativa confermata dal Tar Veneto e oggetto di appello. Il Consiglio di Stato, dopo avere ritenuto irrilevante la circostanza della convivenza di fatto ex art. 1, co. 36, l. 76/2016 con cittadino straniero titolare di PSUE, perché dedotta per la prima volta in appello, analizza la condizione giuridica del lavoratore straniero che perda il posto di lavoro alla luce dei principi giurisprudenziali. In proposito, l’Alto Consesso ribadisce la necessità del possesso di un reddito minimo, «requisito soggettivo non eludibile ai fini del rilascio e del rinnovo del permesso di soggiorno, in quanto attinente alla sostenibilità dell’ingresso dello straniero nella comunità nazionale, al suo inserimento nel contesto lavorativo e alla capacità di contribuire con il proprio impegno allo sviluppo economico e sociale del paese (cfr., tra le tante, Cons. St., III, n. 2558/2018; n. 1971/2017; n. 1524/2017)». Requisito che non è indeterminato e valutabile caso per caso ma rapportato, quanto al lavoro subordinato, all’art. 29, co. 3, lett. b), TU, richiamato anche dall’art. 22, co. 11 del medesimo TU, e quanto al lavoro autonomo all’art. 26, co. 3, TU.
Precisa il Consiglio di Stato che non è necessaria la dimostrazione del possesso «in modo assoluto ed ininterrotto» di tale reddito, dovendosi tener conto anche di elementi nuovi sopravvenuti che facciano presumere «una prospettiva di continuità per il futuro» (Cons. St. n. 3655/2018, n. 2335/2018, n. 2585/2017).
Precisa, altresì, il giudice amministrativo d’appello che la tutela riservata al lavoratore straniero che perda il lavoro di mantenere il permesso di soggiorno per attesa occupazione, comporta che egli si debba attivare fin dall’inizio a cercare un’altra occupazione lavorativa, in quanto «ai cittadini extracomunitari è richiesto, infatti, un atteggiamento attivo nella ricerca di un lavoro regolare (o nell’avvio di un’attività autonoma), e non è ammissibile il rinnovo del titolo di soggiorno quando la condizione di disoccupazione o di occupazione irregolare si prolunghi oltre limiti ragionevoli (cfr. Cons. St., III, n. 2399/2017)», tenuto conto che «la spettanza di un periodo di attesa occupazione (non trattandosi di una misura di carattere umanitario o puramente solidaristico) riposa sul presupposto tacito secondo il quale, chi ha dimostrato in passato di poter reperire una legittima ed adeguata occupazione, può ritenersi di regola in grado di reperirne una nuova entro il lasso di tempo concesso dalla norma; tuttavia, perché la presunzione risulti giustificata, occorre che nel periodo precedente, cioè in costanza del permesso di soggiorno per lavoro, un’attività lavorativa sia stata effettivamente svolta, ed abbia prodotto un reddito adeguato (cfr. Cons. St., III, n. 1068/2015 e n. 2645/2015)».
Secondo la pronuncia in esame, infine, la disoccupazione rileva anche se avviene in costanza di permesso rilasciato per lavoro, non potendo ammettersi la spettanza di un ulteriore periodo di attesa occupazione «avendo lo straniero già fruito di un anno di permanenza, utile a trovare un lavoro (cfr. Cons. St., III, n. 4237/2018, oltre a n. 1068/2015 e n. 2645/2015, cit.)».
Nel caso di specie, il Consiglio di Stato ha confermato la legittimità del provvedimento di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno perché la ricorrente non aveva dimostrato di essersi attivata in tal modo, essendosi iscritta al Centro per l’impiego «soltanto in vista della scadenza del titolo» e non avendo prodotto alcun reddito per un biennio.
 
Contributo per il rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno
La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 4564/2018 ha confermato l’ordinanza di 1^ grado che ha ritenuto discriminatoria l’imposizione della tassa di soggiorno per i cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno ordinario nella misura indicata dal d.m. del Ministero dell’economia e delle finanze 6.10.2011 (€ 80,00 per permessi di durata inferiore ad 1 anno, € 100,00 per permessi di durata inferiore a 2 anni ed € 200,00 per PSUE).
Appellata la pronuncia dall’Amministrazione dello Stato, il giudice d’appello milanese ha confermato la discriminazione rispetto a quanto previsto per i cittadini italiani per documenti analoghi (carta di identità), rigettando l’argomentazione dello Stato secondo cui la sentenza della Corte di giustizia 2.9.2015 causa C-309/2014 – che ha dichiarato contraria alla direttiva 2003/109/CE relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo l’imposizione della tassa di € 200,00 (e in base alla quale il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4487/2016 ha confermato la sentenza del Tar Lazio, Roma, n. 6095/2016 che ha dichiarato illegittimo il d.m. 6.10.2011) – si riferirebbe esclusivamente a detta categoria e non indistintamente ai permessi ordinari, non potendo valere ultra partes.
Tesi che, ricorda la Corte d’appello, è stata già censurata dal Consiglio di Stato con la pronuncia n. 4487/2016 che, esaminando compiutamente la decisione della Corte di giustizia, ha in essa rinvenuto principi che escludono la compatibilità della tassazione italiana sul permesso di soggiorno non solo con la direttiva 2003/109/CE ma con la libertà di stabilimento da essa perseguita, riguardante tutti i cittadini di Paesi terzi che intendono acquisire uno status di soggiorno permanente, per raggiungere il quale sono costretti a rinnovare di frequente il titolo di soggiorno corrispondendo costi che tale aspirazione comprimono. Secondo il Consiglio di Stato, poiché il d.m. 2011 «pone una serie di ostacoli sproporzionati rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva – l’inserimento dei lungosoggiornanti – e costituenti un ostacolo all’esercizio dei diritti che essa loro conferisce», confligge con il principio fondamentale dell’Unione europea di garantire l’effetto utile perseguito dal diritto europeo, imponendosi, dunque, «che il giudice nazionale debba disapplicare qualsiasi disposizione di legge (anche di diritto penale, tradizionalmente rientrante nelle attribuzioni degli Stati membri), quando essa frustri gli obiettivi della legislazione eurounitaria e li privi del loro effetto utile».
La Corte d’appello di Milano condivide tale interpretazione e sottolinea come «per il cd. effetto utile, la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva è un limite invalicabile al potere discrezionale degli Stati membri nella determinazione dei contributi anche con riferimento ai permessi di soggiorno di breve periodo».
Ribadisce, altresì, che l’attività amministrativa sottesa al rilascio della carta d’identità non è diversa da quella afferente il rilascio del permesso di soggiorno, né le Amministrazioni dello Stato hanno spiegato la ragione della differenza di tassazione dei singoli permessi, atteso che l’istruttoria è analoga.
La sentenza in esame definisce, dunque, discriminatoria l’imposizione di una tassa di soggiorno che crea una situazione di svantaggio per i cittadini di Paesi terzi, impedendo il realizzarsi dell’effetto utile perseguito dalle disposizioni europee.
 
L’ostatività delle condanne
Con sentenza n. 898/2018 il Tribunale amministrativo per la Toscana censura il provvedimento con cui il questore di Arezzo aveva diniegato a cittadino straniero il rinnovo del permesso di soggiorno in conseguenza di una condanna per spaccio di sostanze stupefacenti (art. 73, co. 1 e 5 d.p.r. n. 309), ritenuta automaticamente ostativa ex art. 4, co. 3, TU 286/98. L’impugnazione era stata proposta per violazione dell’obbligo di tenere conto dell’esistenza di vincoli familiari, impeditivi all’automatica ostatività della condanna, in quanto l’autorità di P.S. non aveva considerato la convivenza con cittadina comunitaria regolarmente soggiornante e pertanto omesso di applicare analogicamente quanto previsto dall’art. 3, co. 2, lett. b), d.lgs. n. 30 del 2007 («partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale»), richiamando, al riguardo, la decisione del Consiglio di Stato n. 5040/2017.
Il Tar Toscana annulla il provvedimento questorile ma sotto un diverso punto di vista, ovverosia ritenendo applicabili i principi espressi dalla giurisprudenza in materia di non automaticità preclusiva delle condanne qualora vengano in rilievo vincoli familiari in Italia ex art. 5, co. 5, TU 286/98 ed equiparando il matrimonio alle convivenze di fatto registrate anagraficamente ai sensi dell’art. 1, co. 36 e 37, l. n. 76/2016 («si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile»).
Nel caso di specie, infatti, il ricorrente aveva prodotto in giudizio il «certificato anagrafico del Comune di Arezzo, dal quale si evince non solo la coabitazione tra i due soggetti, ma l’esistenza di un rapporto di convivenza» e dunque l’esistenza di una famiglia anagrafica ex art. 4, d.p.r. 223/1989. Secondo il Tar toscano, ai fini della necessaria applicazione dell’art. 5, co. 5, TU 286/98, non è necessario un contratto di convivenza ai sensi degli artt. 4 e 13, d.p.r. 223/1989, che riguarda le coppie dello stesso sesso (Unioni civili), mentre è sufficiente, la «convivenza di fatto tra due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia», dovendo pertanto il questore valutare imprescindibilmente la rilevanza dei vincoli familiari, escluso ogni automatismo preclusivo, trattandosi di diritti fondamentali della persona (Cons. St. n. 969/2018, n. 1826/2018, n. 2654/2018).