Penale

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In relazione al delitto di cui all’art. 13, co. 13 TU (illecito reingresso dello straniero espulso), si segnalano in particolare due decisioni di legittimità di un qualche interesse per il lettore.

La prima (Cass., sez. I, 17.3.2017, n. 13130, ud. 9.2.2017) affronta il problema, da tempo oggetto di attenzione in giurisprudenza, della soluzione da adottare nel caso di soggetti che siano stati destinatari di un divieto di reingresso decennale, e che abbiano fatto rientro in Italia prima del decorso di tale termine, ma passati cinque anni dal rimpatrio.

 Il termine di cinque anni rappresenta, secondo il disposto dell’art. 11, dir. 2008/115/CE, il termine massimo applicabile di norma ai divieti di rimpatrio, e corrisponde del resto a quanto attualmente previsto all’art. 13, co. 14 TU, così come modificato con la legge di trasposizione della direttiva (l. 129/2011): secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, in caso di provvedimenti espulsivi emanati prima del 2011, quando il divieto di reingresso aveva di norma durata decennale, il reato di cui all’art. 13 co. 13 deve ritenersi insussistente quando al momento del reingresso, pur avvenuto prima della scadenza del termine, siano trascorsi almeno cinque anni dal rimpatrio (per la pacifica configurabilità del reato nel caso invece di reingresso infra-quinquennale, cfr. da ultimo Cass., sez. I, 31.3.2017, n. 16412, ud. 10.6.2016). Nel caso di specie, lo straniero si trovava esattamente in tale situazione (rientro in Italia dopo nove anni dal rimpatrio, prima della scadenza del divieto decennale di reingresso), con la peculiarità che l’espulsione cui era associato il divieto era stata disposta ex art. 16 TU come sanzione sostitutiva della pena di due anni di reclusione inflitta per violazioni alla disciplina in materia di stupefacenti. La Corte d’appello dell’Aquila, cui era stato richiesto dalla Procura generale di revocare in qualità di giudice dell’esecuzione la sanzione sostitutiva e di ripristinare la pena detentiva, aveva accolto la richiesta, in ragione del fatto che l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva avrebbe natura di sanzione penale, e sarebbe per ciò sottratta al limite di cinque anni fissato dalla direttiva per i divieti di reingresso disposti in sede ammnistrativa. La Cassazione conferma tale conclusione, affermando che «la limitazione a soli cinque anni dell’efficacia dell’espulsione, ostativa al rientro nel paese dal quale lo straniero sia stato coattivamente allontanato, è riferibile soltanto all’espulsione disposta in via amministrativa, come indicato chiaramente nell’intitolazione dell’art. 13 d.lgs. 286/98, richiamato dal successivo art. 16, quindi non è applicabile ai casi in cui il provvedimento sia adottato in sostituzione della pena detentiva, quale sanzione penale, ipotesi per la quale sussiste la specifica regolamentazione contenuta nel citato art. 16». La Cassazione non tralascia di ricordare che la Corte Costituzionale, chiamata a vagliare nel 1999 la costituzionalità dell’allora vigente figura di espulsione a titolo sostitutiva, ne aveva affermato la natura amministrativa e non penale (C. cost., 369/1999), e tuttavia ritiene che l’attuale disciplina della misura, diversa da quella oggetto di scrutinio quasi vent’anni fa, conduca al contrario a derivarne la natura penale. La Cassazione adotta quindi, in relazione alla questione della natura amministrativa o penale dell’espulsione disposta a titolo di sanzione sostitutiva di pena detentiva (ed all’associato divieto di reingresso), una soluzione opposta a quella della Corte costituzionale, che peraltro proprio sull’assunto della sua natura amministrativa e non penale aveva ritenuto inammissibili le questioni di costituzionalità sollevate in particolare per la violazione del principio della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, co. 3 Cost.; venendo meno la qualificazione come amministrativa, riacquistano rilievo i profili di incostituzionalità non esaminati nel 1999, sicché sarebbe auspicabile una più attenta riflessione sulla costituzionalità della misura alla luce della nuova qualificazione proposta dalla Cassazione.

Una seconda decisione (Cass., sez. I, 5.7.2017, n. 32392, ud. 2.2.2017) si segnala per l’attenzione mostrata nei confronti dell’elemento soggettivo del reato, solitamente oggetto di frettolosa indagine nei processi per il delitto in questione. Il caso era quello di un cittadino albanese, espulso nel 2008, che si era presentato presso la Questura di Varese nel 2009, ed era stato rinviato a giudizio per il reato in esame: il Tribunale lo aveva assolto affermando «che non era provato il dolo ed era, invece, plausibile che l’imputato avesse agito con l’intento di esercitare il diritto all’unità familiare»; la Corte d’appello aveva riformato la sentenza di primo grado, condannando l’imputato ad un anno ed otto mesi di reclusione. La Cassazione, ricordati i principi in tema di colpevolezza affermati dalla Corte costituzionale nella storica decisione n. 364/88, annulla senza rinvio la decisione d’appello, in quanto «è pacifico che l’imputato è cittadino albanese e che la scoperta del suo avvenuto rientro nel territorio italiano, con il conseguente arresto, fu determinata proprio dalla sua spontanea presentazione all’Ufficio immigrazione della Questura di Varese, con la finalità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari in relazione alla nascita di una figlia. Se avesse svolto questa analisi, il giudice del merito avrebbe potuto apprezzare la valenza di tali elementi come indici rivelatori di ignoranza inevitabile del precetto penale, sulla base non della sola nazionalità dell’imputato, ma della convergenza di tale dato con quello della presentazione in Questura e con quello dello scopo di regolarizzazione sotteso al comportamento. Non è plausibile, infatti, ritenere che l’imputato si sarebbe presentato a detto Ufficio se avesse saputo che ciò non poteva fargli conseguire una regolarizzazione della sua posizione, ma esporlo all’incriminazione e all’arresto». L’applicazione dei principi generali in tema di imputazione soggettiva conduce dunque la Cassazione ad escludere la responsabilità dell’imputato, dal cui comportamento viene desunta l’ignoranza della propria condizione di irregolarità: l’auspicio è che tale decisione non rimanga isolata, e la giurisprudenza (di merito come di legittimità) inizi finalmente ad analizzare in modo scrupoloso la sussistenza dell’elemento soggettivo, che spesso nei processi aventi ad oggetto reati connessi alla condizione di irregolarità del soggiorno (in particolare nei giudizi davanti al giudice di pace) viene sostanzialmente considerata in re ipsa nel mero fatto del soggiorno irregolare, quando invece proprio la condizione di straniero ed il suo difficile inserimento sociale dovrebbero condurre a scrutinare con particolare acribia la possibilità per lo stesso di rendersi davvero conto dell’irregolarità della propria permanenza.

In relazione al delitto di compimento di atti diretti a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato (art. 12, co. 1, TU) si segnala, anche per la sua importanza pratica nella determinazione del trattamento sanzionatorio, una decisione della Cassazione secondo la quale le fattispecie disciplinate dal terzo comma dell’art. 12 TU hanno natura di circostanze aggravanti e non di ipotesi autonome di reato (Cass. pen. sez. I, 24.03.2017, n. 14654, ud. 29.11.2016). La sentenza (di annullamento con rinvio) riguarda il caso dell’ingresso di 87 migranti a bordo di un gommone, oggetto di un intervento di recupero e soccorso in mare della Guardia costiera italiana, che li aveva infine condotti nel porto di Catania. Sulla base delle testimonianze di alcuni trasportati erano stata ritenuta nel giudizio di merito la responsabilità per il delitto in oggetto di due minorenni, cui era stata concessa l’attenuante di cui all’art. 98 c.p. ritenuta equivalente alle contestate aggravanti del numero delle persone interessate e della loro esposizione a pericolo di vita o per la loro incolumità personale (art. 12, co. 3 bis, in relazione al co. 3 lett. a) e b) TU). Nell’irrogare la sanzione era stata considerata come pena base non la previsione edittale di cui al comma 1 (con un massimo di anni 5), ma quella di cui al comma 3, partendosi in concreto dalla misura di anni sei, sulla quale la Corte d’Appello competente aveva operato la diminuzione di un terzo per il rito abbreviato, così pervenendosi alla pena finale di anni 4 di reclusione. La Cassazione ha in primo luogo ribadito il suo orientamento in ordine all’irrilevanza del conseguimento del risultato dell’ingresso per la consumazione di questa fattispecie, per la quale sono sufficienti, secondo la sua descrizione tipica, gli atti finalisticamente diretti a procurarlo. È stato pertanto respinto il motivo di ricorso che spostava la consumazione del reato sul «procurato ingresso», con l’importante corollario dell’irrilevanza ai fini della configurazione del tentativo, auspicata dalla difesa, della particolare modalità di ingresso nel territorio dello Stato costituita dall’intervento finale della Capitaneria di porto, atteso il ritenuto indefettibile collegamento dello stesso con l’iniziale condotta di trasporto dei migranti in acque internazionali su natanti inadeguati a raggiungere le coste italiane. Nel ribadire la struttura di questa fattispecie come delitto a consumazione anticipata la sentenza in esame si è tuttavia posta in consapevole contrasto con un precedente orientamento secondo il quale l’effettività dell’ingresso, irrilevante ai sensi del comma 1 dell’art. 12, era invece determinante per integrare le ipotesi di cui ai commi 3 e 3 bis, da ritenersi titoli autonomi di reato rispetto alla prima fattispecie (Cass. pen., sez. I, 01.10.2014, n. 40624). La Cassazione giunge ora a diversa soluzione ragionando in primo luogo sul principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. e pervenendo alla conclusione che le previsioni di cui al comma 3 dell’art. 12 non modifichino alcuno degli elementi strutturali ed essenziali della condotta descritta al comma 1, ma si limitino ad inserire dei dati specializzanti (secondo tecnica di enumerazione progressiva), così operando in rapporto di specialità per aggiunta rispetto al genere costituito dal comma 1 medesimo. Anche il criterio interpretativo sistematico conduce la Corte nella stessa direzione laddove viene considerata l’identità del bene giuridico protetto dalle norme in esame, tutte si noti inserite nello stesso art. 12. Ragionando altrimenti si verrebbe a spezzettare, in base a condotte specifiche, un identico nucleo di offensività e così a tradire il principio di favor che ispira il sistema penale. Dunque si è in presenza di ipotesi aggravata da elementi a c.d. carattere indipendente, nella quale è la determinazione della pena ad essere autonoma rispetto al reato base. Non contraddicono tale conclusione le successive previsioni di cui al comma 3 bis (che prevede un ulteriore aumento di pena quando i fatti di cui al comma 3 siano plurimi) e al comma 3 ter (che prevede una circostanza ad effetto speciale). Anzi la logica del favor, da privilegiare nel dirimere la controversia interpretativa, sembra ribadita dal successivo comma 3 quater che prevede un regime di deroga rispetto all’ordinario funzionamento del meccanismo di bilanciamento tra aggravanti e attenuanti ex art. 69 c.p., soltanto per alcune delle ipotesi considerate (quelle appunto di cui ai commi 3 bis e 3 ter), in funzione del progressivo incremento della lesività della stessa condotta base. L’unico residuo argomento lessicale, contrario all’assunto, costituito dal riferimento, al plurale, ai «fatti» di cui ai commi 1 e 3, (contenuto nei commi 3 bis e 3 ter) viene ritenuto elemento di valenza puramente formale inidoneo a contraddire la ritenuta funzione di tutte queste previsioni quali connotazioni accessorie del fatto base. Nella complessa vicenda normativa vissuta nel tempo dall’art. 12 del TU (che ha conosciuto 11 modifiche dalla sua iniziale emanazione nel 1998) appare apprezzabile lo sforzo interpretativo compiuto dalla Cassazione nel dirimere la questione esaminata valorizzando una pluralità di criteri.

Sempre in relazione allo stesso delitto e al tema del suo trattamento sanzionatorio, deve altresì darsi conto di altra decisione della Cassazione che ha escluso, proprio ragionando sulla natura di delitto a consumazione anticipata, la configurabilità dell’attenuante comune del danno di speciale tenuità di cui all’art. 62 n. 4 c.p. in una fattispecie nella quale, sulla base di un accordo estemporaneo raggiunto in prossimità del confine, un soggetto aveva favorito l’ingresso illegale in territorio francese di 14 persone percependo il compenso di soli 50 € (Cass. pen. 27.02.2017, n. 9636, ud. 13.5.2016). La Corte, pur consapevole della sua giurisprudenza sull’estensione dell’applicabilità dell’attenuante in parola oltre il campo dei reati contro il patrimonio e dunque in quello dei reati plurioffensivi, ha escluso che nella struttura del reato in oggetto siano rilevanti il profitto (considerato un’aggravante) o anche solo la determinazione per motivi di lucro, posto che il bene giuridico va individuato nella tutela della sicurezza interna dello Stato e nella cooperazione internazionale. Sulla base di questa ricostruzione della natura della fattispecie e del bene protetto viene radicalmente esclusa l’applicabilità alla stessa della predetta attenuante e annullata senza rinvio la sentenza impugnata. La parte che convince meno della motivazione, perché ispirata ad una lettura degli interessi coinvolti che appare eccessivamente formalistica, è quella secondo la quale, laddove pure si considerasse il reato come di tipo plurioffensivo, nella valutazione ai fini dell’applicazione dell’attenuante andrebbe negativamente considerato il pregiudizio per i clandestini (privi di radicamento sul territorio nazionale) non lievissimo o di natura economicamente irrilevante.

Quanto all’espulsione come misura alternativa alla detenzione di cui all’art. 16, co. 5, TU, va segnalata un’interessante decisione della Corte di Cassazione che ha aperto alla possibilità di includere tra le cause ostative ex art. 19 (in relazione alla ricorrenza delle condizioni per l’espulsione amministrativa di cui al richiamato art. 13, comma 2) la situazione di disabilità fisica di un immigrato (Cass. pen. sez. I, 31.07.2017, n. 38041, ud. 26.5.2017). Il caso riguardava più precisamente persona dichiarata invalida al cento per cento (con assegnazione di assegno INPS), priva di un arto inferiore, costretta per far fronte alle sue primarie esigenze di vita all’utilizzo di protesi o di carrozzina, priva altresì di legami familiari nel paese d’origine (nel quale non era prevista una normativa assistenziale per le persone disabili) in ragione della sua permanenza in Italia da oltre 30 anni. Il Tribunale di sorveglianza, di cui veniva impugnata la decisione di rigetto di opposizione avverso la decisione di applicazione dell’espulsione ex art. 16 TU, aveva ragionato sulla tassatività delle ipotesi di divieto di espulsione di cui all’art. 19, co. 1 e 2, sull’argomentazione che l’inabilità fisica era considerata dalla disciplina normativa specifica (vedi art. 19, co. 2 bis) esclusivamente in relazione alle modalità di esecuzione dell’espulsione e infine sull’assenza di uno stato patologico richiedente cure o trattamenti sanitari particolari. La Corte non condivideva l’argomento relativo alla rigida tassatività delle ipotesi ostative all’espulsione alla luce di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata, in particolare richiamando il precedente in materia di diritto alla salute e disciplina del Testo Unico Immigrazione di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 252/2001. Appare utile ricordare come questa decisione interpretativa di rigetto della questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 cit., sollevata in relazione agli artt. 2 e 32 della Costituzione, si era fondata proprio sull’erroneità del presupposto interpretativo del giudice a quo secondo cui solo inserendo uno specifico divieto nella norma suddetta fosse possibile tutelare il diritto inviolabile alla salute di uno straniero irregolarmente presente nel territorio nazionale (nella specie entrato nel territorio nazionale allo scopo, non perseguibile nel paese d’origine, nel quale non era erogata la prestazione, di farsi sostituire una protesi ad un piede, che gli era stato in passato amputato). La Corte costituzionale aveva invece da un lato ritenuto che l’elencazione delle prestazioni sanitarie assicurate a tutti gli immigrati, a prescindere dalla regolarità del loro soggiorno, dall’art. 35, co. 3, TU non era esaustiva degli interventi e delle cure comunque essenziali, d’altro lato concluso che l’espulsione, ferma la legislazione di settore vigente, non fosse eseguibile laddove, con prudente apprezzamento, il giudice valutasse che dalla stessa derivasse pregiudizio a quel nucleo irriducibile del diritto alla salute, tutelato dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana e perciò riconosciuto a tutti. La Cassazione non ha inteso affermare che tutti i casi disabilità motoria rientrino nell’ambito di tutela del diritto alla salute e in specie nella previsione dell’art. 35, co. 3, TU, ma che nello spirito del precedente della Corte Costituzionale, oltre che dai principi affermati in materia dalla giurisprudenza della CEDU, non sia corretto un ragionamento basato su esclusioni aprioristiche e presupposti tassativi, dovendosi invece procedere ad una valutazione caso per caso facendo ricorso ai mezzi istruttori consentiti e non esperiti nella decisione impugnata.

Va infine segnalata, per i suoi profili sia procedurali sia sostanziali, un’innovativa decisione del Tribunale di Vicenza in tema di revoca per ragioni inerenti la coesione familiare della sanzione sostitutiva dell’espulsione applicata in sede di merito per il reato di ingresso e soggiorno irregolare di cui all’art. 10 bis TU ( ordinanza Tribunale di Vicenza 11.10.2017 Sige, ud. 09.10.2017). Il caso nasce dalla presentazione da parte dell’interessato di un’istanza di revoca della misura dell’espulsione in sostituzione della pena pecuniaria dell’ammenda applicata nei suoi confronti con sentenza irrevocabile da parte del competente Ufficio del Giudice di Pace in ordine al suddetto reato. Con una prima decisione l’istanza veniva rigettata sulla base dell’argomento che l’unico rimedio proponibile avverso una simile decisione di sostituzione era dato dall’impugnazione avverso la sentenza che l’aveva applicata, ormai preclusa dalla formazione del giudicato. In sede di ricorso avverso l’ordinanza di rigetto la Cassazione declinava la sua competenza (riqualificando l’impugnazione) in favore di quella del Tribunale in composizione monocratica nel cui circondario ha sede l’Ufficio del Giudice di Pace coinvolto e ciò in virtù della disposizione dell’art. 41, d.lgs. n. 274/2000 che prevede appunto questo specifico rimedio per motivi di legittimità avverso decisioni pronunciate come giudice dell’esecuzione dal Giudice di Pace. Fissata una nuova procedura per incidente di esecuzione, il Tribunale ha affrontato preliminarmente la questione dell’ammissibilità della proposizione dell’istanza di revoca in oggetto ad istanza dell’interessato rispondendo in termini positivi. Nel farlo ha superato la questione dell’intangibilità del giudicato riproposta dal P.M. a fronte dell’assenza di una previsione specifica di tipo sostanziale e processuale e, in tesi, della conseguenza unicità di rimedio costituito dalla tempestiva impugnazione (con appello) della sentenza. Secondo il Tribunale l’istituto dell’espulsione come sanzione sostitutiva prevista per lo specifico reato di cui all’art. 10 bis TU introdotto con la legge n. 94/2009 va inquadrato nel sistema normativo del TU medesimo che appunto già prevedeva all’art. 16, co. 4, in riferimento al co. 1 (sia pure con riguardo all’originaria previsione generale costituita dalla sostituzione, alle condizioni previste, della pena detentiva entro il limite di due anni), la revocabilità della decisione da parte del giudice competente, da identificarsi in quello che l’aveva disposta (e nel Tribunale in sede di ricorso avverso un’eventuale decisione di rigetto). Il Giudice, oltre a questo argomento, sembra essersi ispirato ad una nozione estesa dell’incidente di esecuzione in funzione di strumento utilizzabile per apportare correttivi al giudicato e alla sua intangibilità. Quanto al merito, il Tribunale, premesso che al momento di emissione anche di questo tipo di espulsione non debbono sussistere situazioni di divieto a norma nelle quali l’art. 19 TU, ha rilevato l’esistenza almeno all’atto della presentazione dell’istanza di revoca (e in parte già in precedenza) di plurime cause integratrici del divieto stesso. In particolare l’interessato risultava sposato e convivente con una cittadina italiana, nonché con due figli minori, a loro volta cittadini italiani. L’accoglimento dell’istanza di revoca è stato basato soprattutto su ragioni di coerenza con i principi elaborati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Boultif a proposito dell’applicazione dell’art. 8 CEDU sul rispetto della vita privata e familiare e della definizione del punto di equilibrio da raggiungere tra l’ingerenza statuale ammessa in tale campo (ove proporzionata e necessitata da ragioni di sicurezza nazionale ed altro) e l’interesse privato alla tutela dei legami familiari. Tra gli altri criteri da considerare in concreto vi erano quelli: del lasso di tempo trascorso dalla perpetrazione del reato (oltre 4 anni rispetto all’emissione della sentenza) e della condotta tenuta durante detto periodo; della nascita di figli dal matrimonio e della loro età; dell’interesse e del benessere dei figli stessi. Il bilanciamento tra l’interesse statale all’allontanamento dell’interessato (valutato in concreto modesto) e quello (maggiormente rilevante e grave) del mantenimento della coesione familiare determinava l’accoglimento dell’istanza di revoca della sanzione sostitutiva dell’espulsione e il ripristino della pena pecuniaria.