Nie wieder? La polverizzazione della parola
Siamo stati testimoni, anche nel dopoguerra, di terrificanti imprese dell’essere umano: Cambogia, Kurdistan iracheno, Sabra e Chatila, Bosnia, Ruanda, Darfur, Afghanistan sono solo alcuni esempi. Ma quello che accade nei territori occupati della Palestina trasforma la lettura della democrazia e dell’universalità dei diritti umani. Tante volte questi concetti e diritti, quella passata consapevolezza, hanno avuto anche utilizzo retorico e funzionale a politiche etnocentriche e neo coloniali. Oggi però sono pubblicamente e volgarmente ridicolizzati.
Il “Nie wieder”, espressione della drammatica consapevolezza di quanto avvenuto nella seconda guerra mondiale, dell’Olocausto e dell’uso della bomba atomica, è stato cancellato a Gaza. In quella striscia di terra è stata polverizzata anche la parola.
Restano macerie e crudeltà di cui il diritto farebbe bene a non nutrirsi.
La guerra disegna nuovi confini, non solo geografici, ma umani e sociali. Migrazioni e guerre hanno quindi alcune simmetrie perché riguardano sempre corpi e confini; e non solo per la più ovvia constatazione (le guerre sono una delle principali cause dei movimenti forzati delle persone), ma perché reinventano lo spazio, rideterminano i confini fisici e riscrivono le relazioni umane e le culture.
Nel recente passato ci sono state risposte comuni, a volte efficaci altre certamente meno, alle conseguenze delle guerre sulle migrazioni delle persone. L’Europa ha utilizzato specifici (anche se inadeguati) programmi per favorire l’ingresso dall’estero durante la crisi afghana del 2021 e norme che parevano sopite a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa (scrive in questo numero di reinsediamento e ammissione umanitaria A. Del Guercio). Non sarebbero strumenti sufficienti a lenire gli effetti della guerra contro i Palestinesi, ma occorre prendere atto che non si fa neanche cenno a simili soluzioni. Perché il diritto a Gaza è stato sconfitto dalle atrocità di chi, incontrastato, usa anche la fame per uccidere; è ostaggio, oggetto di bombardamento. Come le persone.
L’Europa e l’Italia sono invece ferme alla declinazione di politiche di contenimento di flussi migratori alle frontiere esterne e di esternalizzazione di confini e diritti, con pesanti ripercussioni sui loro principi fondanti. Solo su questi temi l’Unione pare trovare un qualche accordo.
È significativo che il 14 giugno 2025 la Presidente della Commissione europea non abbia partecipato alle celebrazioni per i 40 anni dall’entrata in vigore dell’Accordo di Schengen. Dai cinque Paesi firmatari nel 1985, oggi contiamo 29 Paesi, 450 milioni di persone che fanno parte della Convenzione e dello spazio di libera circolazione. Ma guerra e migrazioni sono anche qui la principale giustificazione della sospensione della libertà di circolazione nell’Area Schengen, ovvero di quella che dovrebbe essere tutelata come elemento centrale dell’integrazione: Austria, Germania, Paesi Bassi, Francia, Svezia, Slovenia, Danimarca, Italia e Norvegia – che contano circa 300 dei complessivi 450 milioni di cittadini europei – hanno reintrodotto anche in base a tali argomenti i controlli ai confini interni.
Il Patto per le Migrazioni e l’Asilo, per altro verso, ha rimodellato in senso preoccupante il diritto dell’Unione europea in materia di asilo e protezione internazionale. Nello scenario bellico globale e nell’imperante negazione dei diritti individuali e sociali, il presupposto narrativo del nuovo Patto non è la tutela del diritto fondamentale all’asilo politico, ma la prevenzione dell’abuso di quel diritto. È questo presunto abuso che fa da sfondo ad una delle produzioni normative più ampie e complesse degli ultimi decenni.
A dispetto del nome, poi, quel Patto di “migrazioni”, cioè di regolamentazione degli ingressi e dei soggiorni legali dei cittadini di Paesi terzi nell’Unione, formalmente non si interessa.
Già nella comunicazione della Commissione europea (COM[2020] 609 final del 23.9.2020), anticipatoria delle proposte legislative poi approvate, quel tema assumeva spazio marginale. La pubblicazione dei 9 regolamenti e dell’unica direttiva (quella sull’accoglienza, di cui scrive in questo numero F. Biondi Del Monte) che lo compongono ha confermato il disinteresse per le “migrazioni regolari”.
Eppure è evidente a tutti non solo la loro necessità, ma anche che una loro razionale regolamentazione inciderebbe in decremento sulle richieste di protezione internazionale. Sarebbe una soluzione anche politicamente differente rispetto alla sterilizzazione del contenuto del diritto d’asilo, verso cui invece si procede.
Pari enfasi in materia di frontiere e controlli troviamo nella recente proposta di regolamento avanzata dalla Commissione europea volta ad abrogare la direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e ad istituire un sistema comune per il rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari (COM[2025] 101 final 2025/0059 del 11.3.2025). Dalla lettura di quel testo risulta anzi chiaro il motivo per cui né la ex Commissaria europea per gli affari interni Ylva Johansson né l’attuale Commissario Magnus Brunner hanno manifestato remore nei confronti del “modello Albania” scelto dall’Italia (in questo fascicolo affronta il tema R. Cherchi): quel modello, infatti, pare mutuato nella suddetta proposta con la previsione della possibilità di rimpatriare i cittadini stranieri non regolari in uno Stato ancora terzo con il quale sia stato sottoscritto un accordo o anche solo un’intesa per il rimpatrio (cd. “Centri di rimpatrio”). Chissà che non si voglia aprire la strada anche ad altri meccanismi di soft law, come i Memorandum of Understanding, e ad intese informali eventualmente da sottrarre al controllo della Corte di Lussemburgo.
Tanto nel Patto quanto nella nuova proposta sui rimpatri inciderà la effettiva capacità di rimpatrio da parte degli Stati membri, dunque l’esistenza di accordi internazionali in materia che, però, sono da sempre il punto debole di queste politiche. Benché ovunque caldeggiati, quegli accordi si scontrano con logiche e interessi altri, prioritariamente economici, tanto degli Stati europei quanto dei principali Paesi terzi ovvero, e innanzitutto, con la mancanza di forza lavoro, per i primi, e le rimesse dall’estero per i secondi.
Di migrazioni e ingresso per lavoro, rectius di facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro dall’estero, si occupa un altro strumento legislativo, cioè la proposta della Commissione di un regolamento che istituisce un bacino di talenti dell’UE (COM[2023]0716 – C10-0413/2023 – 2023/0404). È la parte più innovativa del pacchetto “Skills and Talent Mobility” adottato con ritardo dalla Commissione europea a novembre 2023 che, in realtà, riguarda qualifiche molto differenziate in quasi tutti i più rilevanti settori produttivi. Un percorso certamente da seguire con interesse, con il quale si vuole dotare gli Stati membri di una piattaforma comune per agevolare le assunzioni di cittadini di Paesi terzi da parte delle imprese europee. Anche qui peraltro emerge la debolezza delle politiche dell’Unione, sol che si consideri che nella proposta della Commissione non è prevista l’implementazione obbligatoria da parte degli Stati di tale piattaforma. In uno sforzo almeno parzialmente differente si spingono, invece, il Progetto di risoluzione legislativa del Parlamento europeo e alcune proposte emendative (cfr. https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-10-2025-0045_IT.html): qui l’adesione degli Stati membri alla piattaforma del bacino dei talenti sarebbe obbligatoria.
In questa materia ha certamente rilevanza la prerogativa riconosciuta dal Trattato di funzionamento dell’Unione europea ai singoli Stati nel determinare il volume complessivo di ingressi per motivi di lavoro sul proprio territorio (art. 79, par. 5). La questione sarebbe superabile tramite un serrato confronto politico; ma qui le ritrosie delle forze politiche rappresentate nei parlamenti (nazionali e europeo) sono purtroppo note.
Ciò che spicca dalla lettura di tali ultime proposte è comunque la consapevolezza anche istituzionale della necessità per l’Unione e i singoli Stati membri di favorire l’ingresso dall’estero di persone. Occorre fronteggiare, è spesso ribadito, le conseguenze di una popolazione europea sempre più malata di senilità e la carenza di manodopera.
C’è dunque una forte distonia tra esigenze ritenute improcrastinabili e utilizzo di strumenti legislativi: a fronte delle riconosciute evidenze, la fermezza caratterizzante le parti più retrive del ragionamento europeo sull’asilo e sui respingimenti mal si concilia con l’incapacità di implementare politiche comuni in materia di ingressi regolari.
Oppure, se non c’è alcuna distonia e se istituzioni e Legislatore non sono miopi, allora hanno una visione diabolica. Possiamo anche considerare la possibilità, infatti, che tanta esibizione muscolare nei confronti dei richiedenti asilo e delle persone non più regolari sul territorio dell’Unione, pur in assenza di chiare prospettive di rimpatrio delle stesse, accompagni la mancanza di coraggio e responsabilità verso le politiche di ingresso; in questo senso la permanenza sul territorio dell’Unione di persone irregolari, è funzionale a garantire la più ampia flessibilità nell’utilizzo di manodopera a basso costo e facilmente ricattabile, al soddisfacimento di esigenze immediate del mercato senza alcuna politica di redistribuzione della ricchezza prodotta.
Necessità demografiche e del mercato del lavoro, allora, non trovano esclusivamente risposta nella gestione delle migrazioni comunemente definite economiche; la troveranno nel bacino (non dei talenti, ma) dei richiedenti asilo che, pur formalmente rifiutati in quanto tali e nella pienezza dei diritti che andrebbero loro riconosciuti, saranno utilizzati una volta resi “docili” dalla mancanza di adeguati livelli di protezione sociale e mortificati dalla possibile irregolarità che li spinge verso una condizione individuale e sociale instabile e precaria.
Le distonie del decisore politico-istituzionale e degli stessi strumenti legislativi adoperati, dunque, non sono effettivamente tali; sono conseguenze di scelte meditate, per quanto orribili e di corto respiro. Con effetti già oggi visibili nel lavoro povero e sfruttato, fenomeni che di chiusura di confini e marginalizzazione sociale si nutrono.
L’Italia (con una certa chiarezza con l’ultimo Governo ma, invero, anche con i precedenti) è degna rappresentante di una visione del genere, avendo tra l’altro un livello di (de)crescita dei salari senza pari in Europa. E rappresenta anche i rischi che si possono realizzare. Nonostante le roboanti dichiarazioni che circondano gli ultimi provvedimenti normativi in materia di ingresso per lavoro e di semplificazione del sistema basato sui “decreti flussi”, non solo il Legislatore non ha inteso modificare il modello (irrealistico) dell’incontro a distanza tra datore di lavoro e lavoratori, ma non ha neanche stimolato un serrato confronto sociale preventivo rispetto alla adozione dei provvedimenti legislativi in materia. Tale procedere ha prodotto effetti estremamente limitati sul rilascio di permessi di soggiorno per motivo di lavoro e ha alimentato fenomeni di dumping sociale e di ricatto sociale, truffe e raggiri, oltre che agevolazioni al sistema della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo. Ancora una volta si è voluto guardare solo ad una parte degli interessi coinvolti, quelli economici, senza alcuna attenzione ai diritti delle persone.
Sarebbero altrimenti incomprensibili, tra le altre scelte, quella di rendere non convertibili i permessi di soggiorno per protezione speciale in quelli per lavoro, le restrizioni in materia di ricongiungimento familiare e di protezione internazionale, le revoche dei visti di ingresso dei lavoratori già entrati in Italia e poi costretti alla irregolarità (ne parliamo nella Rassegna di giurisprudenza su Ammissione e Soggiorno), la sviluppo di un diritto amministrativo differenziale che cancella le garanzie procedimentali partecipative proprio in queste materie.
Le migrazioni, come le guerre, possono assumere la forma dell’acqua, intraprendere percorsi sconosciuti, avere esiti ignoti. Le seconde fanno gli interessi di pochi e vanno contrastate per il bene di ognuno, le prime sono consustanziali all’essere umano e alla nostra crescita sociale. Ma per invertire la rotta attuale su entrambe è necessario una rinnovata dialettica sociale capace di interpretare non solo le norme, ma il contesto internazionale e porre al centro delle politiche le persone e i loro diritti civili e sociali. Altrimenti occorrerà dare atto che alla guerra non abbiamo più ragioni da opporre e che la narrazione sull’abuso del diritto di asilo è il paravento dietro il quale si cela la realtà dell’abuso di potere.