Penale

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La Cassazione esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 14, co. 5-quater, TUI se il permesso di soggiorno è stato concesso sulla base di condizioni preesistenti all’emissione dell’ordine di allontanamento

La vicenda riguarda un cittadino straniero, condannato dal Giudice di pace di Modena per il reato di cui all’art. 14, co. 5-quater, TUI, per non avere ottemperato all’ordine di allontanamento emesso nei suoi confronti dalla locale questura, nonostante al momento del giudizio fosse pendente il ricorso dallo stesso presentato contro la decisione della Commissione territoriale che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale.

La Cassazione ( sez. I, 31.3.2023, n. 20338 ) rileva come la decisione del Giudice di pace sia errata, dal momento che l’imputato al momento del giudizio aveva diritto a risiedere in Italia in attesa della conclusione del giudizio relativo alla sua domanda di protezione. La Corte ricorda tuttavia come il reato contestato abbia natura permanente, imponendo dunque di verificare se il soggiorno dell’imputato in Italia fosse da reputarsi irregolare per il periodo antecedente alla formalizzazione della richiesta di protezione, posto che, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, la successiva concessione di un permesso di soggiorno (nel caso di specie, per richiesta di protezione) non basta a sanare la pregressa condizione di irregolarità, a meno che il permesso si fondi su condizioni preesistenti all’ordine di allontanamento. La Cassazione rileva allora che la sentenza impugnata «non ha valutato l’eventuale preesistenza all’ordine di espulsione delle condizioni soggettive che hanno determinato l’emigrazione dal Paese di origine o che rendono legittimo il mancato rientro in esso, condizioni in base alle quali l’imputato ha chiesto il riconoscimento della protezione internazionale. La valutazione circa la possibile sussistenza del reato, commesso sino al rilascio del permesso di soggiorno o sino alla presentazione della domanda di protezione internazionale, richiede necessariamente tali verifiche, finalizzate a ritenere esistente o ad escludere la presenza di un giustificato motivo al trattenimento dell’imputato in Italia in violazione dell’ordine di espulsione, provvedimento la cui legittimità non risulta essere stata mai contestata». Sulla base di questo ragionamento, la sentenza di condanna viene annullata con rinvio.

 

La Cassazione dichiara l’assorbimento del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12 TUI nel più grave reato di tratta di persone di cui all’art. 601 c.p.

La sentenza allegata ( Cass., sez. I, 11.5.2023, n. 20154 ) ha ad oggetto una vicenda di tratta di essere umani dalla Nigeria, che in sede di merito aveva visto i responsabili condannati per i reati in concorso di cui all’art. 601 c.p. e 12 co. 3 ss. TUI. La Cassazione, all’esito di un articolato impianto argomentativo, ritiene che – in ragione della clausola di riserva contenuta all’art. 12, per cui il reato si configura «salvo che il fatto costituisca più grave reato» – il delitto previsto nel TUI vada ritenuto assorbito nella più grave fattispecie codicistica. Rinviamo alla lettura della motivazione per un’indicazione delle ragioni che spingono la Cassazione ad aderire a tale orientamento, prevalente nella giurisprudenza più recente, che sembra essersi ormai consolidata sul superamento dell’indirizzo, diffuso in passato, per cui la diversità di bene giuridico tra le due fattispecie in concorso (la libertà e la dignità umana nel caso dell’art. 601 c.p., il controllo delle frontiere e dei flussi migratori per l’art. 12 TUI) avrebbe escluso l’operatività del principio di assorbimento.

È qui solo il caso di accennare che il nuovo orientamento (a nostro avviso condivisibile) potrebbe essere messo in discussione dopo le recenti modifiche che hanno riguardato la cornice edittale della pena detentiva prevista all’art. 12 TUI, con l’aumento ad opera del d.l. 20/23 delle sanzioni previste per la fattispecie semplice al co. 1 e – per quanto qui più di interesse – per la fattispecie aggravata di cui al co. 3, ora punita con la pena della reclusione da 6 a 16 anni (invece che da 5 a 15 anni); partendo da questa base di pena per applicare gli aumenti previsti dal co. 3-bis (aumento sino ad un terzo «se i fatti di cui al co. 3 sono commessi ricorrendo due o più delle ipotesi di cui al medesimo comma») e dal co. 3-ter (aumento da un terzo alla metà «se i fatti di cui ai commi 1 e 3: a. sono commessi al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento; b. sono commessi al fine di trame profitto, anche indiretto»), ora la pena massima applicabile nei casi di favoreggiamento pluriaggravato dell’immigrazione irregolare (casi che si verificano praticamente sempre quando la vicenda vede la contestazione anche del reato di tratta di persone) supera ampiamente la pena massima prevista dall’art. 601 c.p. (20 anni la pena massima per la fattispecie codicistica, 16 anni ex co. 3 + 8 anni ex co. 3-ter + 8 anni ex co. 3-bis per l’art. 12 TUI: per questa modalità di calcolo dei diversi aumenti di pena previsti dalle circostanze di cui all’art. 12 TUI, cfr. Cass., SU, 21.6.2018, n. 40982). Il parossismo punitivo del legislatore in materia di immigrazione ha portato dunque all’assurdo per cui il reato di tratta di persone è punito meno severamente di quello di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare, quando in tutte le fonti sovranazionali il fenomeno del trafficking è pacificamente ritenuto più grave dello smuggling. Con l’altrettanto assurdo risultato di rendere di difficile applicabilità la clausola di riserva contenuta all’art. 12 TUI, posto che risulta problematico affermare che la tratta configuri quel più grave reato, cui la clausola fa riferimento; problema che peraltro si poneva anche prima della modifica normativa (considerato come la pena massima per le ipotesi pluriaggravate di cui all’art. 12 TUI superava comunque quella dell’art. 601 c.p.), e che la giurisprudenza non ha sinora preso in considerazione.

 

La  Corte d’appello di Napoli conferma la sentenza di condanna nel caso dell’illecito respingimento operato dal comandante della nave Asso 28

Avevamo dato conto, nella Rassegna del numero 1.2022, della sentenza con cui il Tribunale di Napoli aveva deciso il caso del comandante della nave Asso 28, che aveva ricondotto in Libia i naufraghi soccorsi in acque internazionali: il Tribunale aveva pronunciato sentenza di condanna per i reati di abbandono di minori ed incapaci ex art. 591 c.p. e di sbarco arbitrario ex art. 1155 cod. nav., mentre aveva assolto l’imputato dall’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. Con la sentenza qui allegata, la Corte d’appello conferma la decisione di primo grado, senza peraltro pronunciarsi in ordine alla sussistenza dell’abuso d’ufficio, posto che la pronuncia di assoluzione rispetto a tale reato non era stata impugnata dalla pubblica accusa.

 

La  Corte d’appello di Trieste riconosce lo stato di necessità putativo all’autore di false dichiarazioni inerenti il luogo di abitazione

Il caso è relativo ad un cittadino russo, di origini cecene, cui all’esito di un iter quantomai travagliato (che aveva visto anche l’intervento della Corte EDU) era stata riconosciuta la protezione sussidiaria, e che tuttavia era stato condannato in primo grado alla pena di 10 mesi di reclusione per il reato di false dichiarazioni a pubblico ufficiale di cui all’art. 495 c.p., per avere in più occasioni falsamente dichiarato di essere domiciliato in un certo luogo, al fine di ottenere il rilascio del permesso di soggiorno.

Nella sentenza qui allegata , i giudici di appello ritengono corretta la decisione di primo grado quanto all’accertata falsità delle dichiarazioni rese, ed escludono altresì la configurabilità della scriminante dell’esercizio di un diritto invocata dalla difesa, in quanto «è vero che l’imputato aveva il diritto soggettivo di ottenere il permesso di soggiorno a scopo di protezione sussidiaria, ed è vero che hanno errato i pubblici ufficiali nel richiedergli di dichiarare un domicilio quale presupposto per il rilascio del permesso di soggiorno, ma l’imputato non aveva il diritto di compiere un reato (false dichiarazioni) per esercitarlo. La scriminante in parola, inoltre, per interpretazione costante, non ammette l’esercizio putativo (peraltro nemmeno invocato nel caso di specie): non è invocabile la norma dell’art. 51 c.p. nel caso di supposizione erronea di esercitare un diritto, in base all’argomentazione che l’errore di valutazione si traduce in errore di diritto inescusabile».

La Corte triestina ritiene tuttavia di escludere la responsabilità dell’imputato, assolvendolo con la formula «perché il fatto non costituisce reato», in applicazione del combinato disposto dell’art. 54 e dell’art. 59 co. 4 c.p.: «Risulta quindi che l’imputato, pur avendo il diritto al rilascio del permesso di soggiorno, e pur non dovendo indicare un domicilio specifico, ha ritenuto doveroso – secondo le erronee informazioni fornite dagli agenti della questura di Udine – indicare un qualsivoglia domicilio a Udine, al fine di ottenere il titolo di soggiorno che gli era già stato riconosciuto in sede giurisdizionale. L’imputato ha creduto di essere costretto a dichiarare il falso (un domicilio stabile che in realtà non aveva) per salvare sé stesso da un danno grave alla persona (il rimpatrio, che lo esponeva a rischi concreti per la sua incolumità, come accertato dalla CEDU e dal Tribunale di Torino). Va pertanto assolto dal reato a lui ascritto perché il fatto è scriminato ex artt. 54 e 59 c.p.».