Corte di giustizia dell'Unione europea

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Art. 10 della direttiva 2011/95: nozione di «opinione politica» quale motivo di persecuzione a danno del richiedente protezione internazionale

Nella sentenza P.I. (CGUE, C-280/21, sentenza del 12 gennaio 2023) la Corte di giustizia ha interpretato il concetto di «opinione politica» quale possibile motivo di persecuzione ai sensi della direttiva 2011/95 (direttiva qualifiche).

La Corte suprema amministrativa della Lituania voleva sapere se tale concetto, nel quadro dell’art. 10, parr. 1 e 2, della direttiva qualifiche, può ricomprendere i tentativi di un richiedente protezione internazionale di difendere legalmente i suoi interessi patrimoniali ed economici personali contro soggetti non statali che agiscono con modalità illecite e che, a causa dei legami che intrattengono con gli apparati statali attraverso la corruzione, sono in grado di strumentalizzare la repressione a danno del richiedente. La Corte risponde che tale interpretazione è ammissibile nella misura in cui simili iniziative difensive siano percepite dai responsabili della persecuzione come forme di opposizione o resistenza su una questione che li riguarda o che è inerente alle loro politiche e/o ai loro metodi. L’opinione della Corte è che la nozione di «opinione politica» contenuta all’art. 10, par. 1, della direttiva qualifiche si regga su un insieme non esaustivo di elementi e che sia necessario interpretarla in maniera ampia. Ciò, tra le altre cose, favorirebbe una tutela appropriata della libertà fondamentale di espressione, che tra le altre cose assorbe le opinioni politiche dell’individuo. Per assicurare un’adeguata ampiezza della formula interpretativa da applicare al concetto di «opinione politica» (come motivo di persecuzione, naturalmente) le autorità competenti degli Stati membri devono tenere conto del contesto generale del Paese d’origine del richiedente, in particolare dei relativi aspetti politici, giuridici, giudiziari, storici e socioculturali.

Artt. 29, 27 e 23 del regolamento 604/2013: possibili vicende relative al termine per il trasferimento del richiedente protezione internazionale verso lo Stato membro competente

Nelle cause riunite B, F e K (CGUE, C-323/21, C-324/21 e C-325/21, sentenza del 12 gennaio 2023), la Corte di giustizia, su impulso del Consiglio di Stato dei Paesi Bassi, ha fatto chiarezza sull’applicabilità e gli effetti del termine previsto dal regolamento 604/2013 (regolamento Dublino III) per il trasferimento del richiedente protezione internazionale verso lo Stato membro che ha confermato la propria competenza all’esame della domanda. Il tratto comune delle cause che la Corte ha riunito era la presentazione di più domande di protezione internazionale in Stati membri diversi da parte dello stesso cittadino di Stato terzo; il tutto nonostante lo Stato membro nel quale era stata proposta la prima domanda avesse confermato l’intenzione di riprendere in carico l’interessato e procedere all’esame della stessa. I rinvii pregiudiziali indirizzati alla CGUE si riferivano pertanto agli artt. 23 e 29 del Dublino III e servivano a comprendere fino a che punto rilevassero i termini di riferimento in presenza di simili sequenze di domande di protezione internazionale. Secondo l’art. 23, una richiesta di ripresa in carico è presentata quanto prima e in ogni caso entro due mesi dal ricevimento della risposta pertinente Eurodac. L’art. 29, invece, dispone che il trasferimento verso lo Stato membro richiesto (cioè quello ritenuto competente) debba avvenire previa concertazione tra i due Stati non appena ciò sia materialmente possibile e comunque entro sei mesi a decorrere dall’accettazione della richiesta dello Stato che si reputi competente all’esame della domanda. Se i sei mesi decorrono invano e non è possibile applicare le deroghe contemplate dal regolamento, lo Stato membro competente è liberato dall’obbligo di prendere o riprendere in carico l’interessato e la competenza è trasferita allo Stato membro richiedente. Il fulcro del ragionamento della CGUE è il seguente: poiché il regolamento 604/2013 non dispone regole specifiche per casi come quelli venuti in essere nei procedimenti principali, i termini indicati agli artt. 23 e 29 trovano regolare applicazione anche in tali ipotesi. In particolare, il termine di sei mesi enunciato dall’art. 29 continua a valere per lo Stato membro presso il quale è stata presentata la seconda domanda di protezione internazionale anche quando l’interessato abbia proposto una terza domanda in un terzo Stato membro. Tra l’altro, la Corte precisa che le diverse procedure di ripresa in carico sono condotte in modo indipendente da ciascuno degli Stati membri richiedenti, e che il regolamento Dublino III non prevede meccanismi di coordinamento che consentano di derogare all’art. 29; perciò, il termine di trasferimento decorrente dall’accoglimento di una prima richiesta di ripresa in carico non può essere interrotto o prorogato in ragione del fatto che una nuova richiesta di ripresa in carico, presentata da un altro Stato membro, sia stata accolta dallo Stato membro richiesto. Stanti questi presupposti, se in un caso come quello in discussione il termine di sei mesi scade, il primo Stato membro richiedente diviene competente in luogo dello Stato richiesto anche se nel frattempo è stata presentata una nuova domanda di protezione internazionale in un terzo Stato membro o se una nuova richiesta di ripresa in carico è stata accolta. Chiarito questo punto, la Corte affronta l’ulteriore quesito pregiudiziale sottopostole, ossia se il richiedente che abbia presentato molteplici domande di protezione internazionale in molteplici Stati membri diversi possa opporre al terzo Stato il diritto di non essere trasferito verso il primo qualora, a causa dello spirare del predetto termine ex art. 29, sia divenuto competente il secondo. La CGUE risponde affermativamente, confermando che il diritto del richiedente a un ricorso effettivo avverso una decisione di trasferimento, previsto dall’art. 27 del Dublino III, rileva nei casi di specie. È solo così che si può garantire un’interpretazione dell’art. 27 in conformità all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali.

L’art. 27 del regolamento 604/2013 è al centro del caso E.N., S.S. e J.Y. (CGUE, C-556/21, sentenza del 30 marzo 2023), nel quale la Corte si è pronunciata sul rapporto tra ricorso effettivo del richiedente protezione internazionale che si opponga a una decisione di trasferimento e potenziale ammissibilità della sospensione del termine disposto dal citato art. 29. Nel caso concreto, sorto nei Paesi Bassi, E.N., S.S. e J.Y. avevano ottenuto l’annullamento, ad opera del giudice di primo grado, delle decisioni di trasferimento verso gli Stati membri ritenuti competenti per le rispettive domande di protezione internazionale. Nel giudizio di appello l’autorità olandese soccombente in primo grado aveva richiesto l’adozione di provvedimenti provvisori volti ad esonerarla dall’obbligo di prendere una nuova decisione prima della pronuncia definitiva; aveva altresì richiesto la sospensione del termine di trasferimento di sei mesi. Il giudice adito si rivolgeva alla Corte per sapere se quanto richiesto dall’autorità ricorrente fosse in linea con l’art. 27, par. 3, del Dublino III. La GGUE fa presente che l’art. 27, par. 3, del regolamento è espressione di un necessario temperamento alle esigenze di celerità sottese al trasferimento del richiedente protezione internazionale verso lo Stato membro competente. Ora, l’art. 27 non prescrive regole specifiche per l’appello contro la decisione adottata in sede di ricorso contro un provvedimento di trasferimento del richiedente. Rileva allora il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri, i quali possono optare per provvedimenti provvisori, purché nelle situazioni rientranti nell’ambito del diritto dell’Unione le modalità di cui trattasi non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e a patto che non venga reso impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività). Nel caso in analisi, il giudice del rinvio potrebbe assumere un provvedimento provvisorio come quello richiesto dal ricorrente in appello, ma la sospensione del termine che l’art. 29 fissa per l’esecuzione del trasferimento può essere decisa solo quando l’attuazione della decisione di trasferimento sia stata sospesa nel corso dell’esame del ricorso di primo grado. Tale regola sembra idonea a rafforzare l’applicazione dei termini imperativi mediante i quali il legislatore dell’Unione ha disciplinato le procedure di presa e di ripresa in carico.

Nel caso SS (CGUE, C-338/21, sentenza del 30 marzo 2023) è stato discusso il possibile rapporto tra una decisione di trasferimento del richiedente protezione internazionale ai sensi dell’art. 29 del regolamento 604/2013 e la contestazione di una misura diversa. I ricorrenti nel procedimento principale erano richiedenti protezione internazionale nei Paesi Bassi. Costoro dovevano essere trasferiti verso lo Stato membro competente; tuttavia, essi avevano altresì denunciato di avere subito atti di tratta di esseri umani tanto nello Stato membro richiesto che in quello richiedente. Queste denunce sono state considerate dalle autorità olandesi come domande di permesso di soggiorno correlato a motivi umanitari temporanei; sono state respinte, ma gli interessati ne hanno richiesto la revisione. Il procedimento è approdato al Consiglio di Stato olandese, che ha interpellato la Corte di giustizia per sapere se l’art. 29, parr. 1 e 2, del regolamento Dublino III, in combinato disposto con l’art. 27, par. 3, si pongono in contrasto a una normativa nazionale che prevede che la presentazione di una domanda di revisione come quelle del caso di specie implichi, da un lato, la sospensione dell’esecuzione di una decisione di trasferimento precedentemente adottata nei confronti del medesimo richiedente e, dall’altro, la sospensione o l’interruzione del termine per il trasferimento. La Corte imposta il ragionamento partendo da una premessa. Nell’ambito del quadro giuridico contro la tratta di persone, la direttiva 2004/81 consente agli interessati, se del caso, di ottenere anche un titolo di soggiorno nello Stato membro ospitante. Per rendere effettive queste previsioni, la direttiva (specie all’art. 8) impone agli Stati membri di mettere a disposizione di chi abbia subito il diniego di un simile permesso un mezzo di ricorso effettivo avverso la decisione sfavorevole. Come già visto con riferimento alla sentenza precedentemente riassunta (E.N., S.S. e J.Y.), trova nuovamente applicazione il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri, sempre nei limiti dei principi di equivalenza ed effettività richiamati nell’occasione. All’interno di questa cornice giuridica, la Corte fa leva sull’autonomia procedurale ricavabile dalla direttiva 2004/81 per concludere dapprima che l’art. 29, parr. 1 e 2 del Dublino III, letto assieme all’art. 27, par. 3, non deve essere interpretato sì da impedire che una normativa nazionale possa prevedere la sospensione dell’esecuzione di una decisione di trasferimento quando l’interessato presenta una domanda di revisione avverso una decisione che gli nega il rilascio di un titolo di soggiorno in qualità di vittima di tratta. Ciò che non può essere sospeso o interrotto è il decorso del termine per il trasferimento ex art. 29 del regolamento 604/2013, principalmente perché la revisione di cui si dibatte ha un oggetto diverso rispetto alla decisione di trasferimento; l’art. 27, par. 3, del Dublino III, che consente deroghe al termine di sei mesi per il trasferimento, non contempla ipotesi collegate a procedimenti differenti. Il calcolo del termine in questione si sottrae dunque all’applicazione dei poteri discrezionali che gli Stati membri vantano in relazione al trasferimento, poiché essi concernono soprattutto le modalità di esecuzione.

Artt. 16 e 17 del regolamento 604/2013: eventuale permanenza del richiedente protezione internazionale (specie a causa di particolari legami familiari) nello Stato membro che non è competente all’esame della domanda

In L.G. (CGUE, C-745/21, sentenza del 16 febbraio 2023) la Corte si è occupata del tema del rapporto di dipendenza tra un richiedente protezione internazionale e un suo familiare, specialmente in presenza di presupposti che giustificherebbero il trasferimento dell’interessato verso lo Stato membro competente all’esame della domanda. La vicenda si era sviluppata nei Paesi Bassi e aveva come protagonista una cittadina siriana, L.G. La donna aveva presentato una domanda di protezione internazionale in territorio olandese, anche se lo Stato competente era la Lituania. Va detto che, subito prima di presentare la domanda, L.G. era rimasta incinta di un uomo con il quale aveva legami risalenti a quando i due vivevano nel Paese di origine; questa persona risiedeva legalmente da anni nei Paesi Bassi, dove aveva ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato. L.G. e il suo partner si erano poi sposati nei Paesi Bassi poco dopo la presentazione della domanda di protezione internazionale di cui sopra. Il problema era quindi rappresentato dalla decisione con cui le autorità olandesi competenti avevano scelto di non esaminare la domanda di protezione internazionale di L.G., sostenendo che la competenza fosse della Lituania (che peraltro aveva accettato di riprendere in carico la richiedente). Il giudice nazionale investito del ricorso di L.G. rivolgeva alla Corte di giustizia alcuni quesiti per comprendere se e come applicare gli artt. 16, par. 1, e 17, par. 1, del regolamento 604/2013. L’art. 16, par. 1, del Dublino III consente la permanenza del richiedente protezione internazionale all’interno dello Stato membro ospitante in presenza di un rapporto di dipendenza tra costui/costei e alcune categorie di familiari, fermo restando che queste persone devono essere legalmente residenti in quello Stato. Nel caso di specie, L.G. riteneva di dipendere, al momento della presentazione della sua domanda di protezione internazionale, dall’uomo dal quale aspettava il figlio, e che poi aveva sposato. Tuttavia, la CGUE rileva che, a prescindere dalla posizione attiva o passiva del richiedente in tale rapporto di dipendenza, l’art. 16, par. 1, individua alcune condizioni tassative da rispettare: tra queste, vi è la necessità di considerare unicamente i legami tra il richiedente e determinati familiari, cioè il figlio, il fratello o il genitore; la disposizione non si riferisce invece al coniuge, né al partner stabile. L.G. non può quindi beneficiare della deroga prevista dall’art. 16, par. 1, del Dublino III, potendo però avvalersi dell’art. 17, par. 1, che consente a ciascuno Stato membro di decidere di esaminare, anche laddove non ne sia competente, una domanda di protezione internazionale. Ne deriva che lo Stato in questione non è obbligato a trasferire il richiedente verso lo Stato di ripresa in carico. Ciò significa che uno Stato membro può senz’altro introdurre normative che, al fine di meglio tutelare l’interesse superiore del minore, impongano alle autorità nazionali competenti di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da una donna in stato di gravidanza al momento della presentazione della sua domanda.

Art. 5 della direttiva 2003/86: modalità di formulazione della richiesta di ricongiungimento familiare

Il caso X, Y, A, B (CGUE, C-1/23 PPU, sentenza del 18 aprile 2023) ha ad oggetto le modalità di presentazione di una domanda di ricongiungimento familiare al cittadino di Stato terzo che sia legalmente soggiornante in qualità di rifugiato in uno Stato membro. L’art. 5, par. 1, della direttiva 2003/86 consente agli Stati membri di stabilire se, per esercitare il diritto al ricongiungimento familiare, la domanda di ingresso e di soggiorno debba essere presentata alle autorità competenti dal soggiornante o dal familiare o dai familiari. Il Belgio ha dato attuazione a tale disposizione in maniera rigida, prevedendo che la richiesta debba essere fatta solo dai familiari del soggiornante e solo presso il rappresentante diplomatico o consolare belga competente per il loro luogo di residenza o soggiorno all’estero. Non sono ammesse eccezioni. Nel caso di specie i rappresentanti legali del coniuge e dei figli minori del cittadino siriano Y, rifugiato in Belgio, lamentavano che sarebbe stato impossibile procedere secondo i requisiti richiesti dalla normativa belga. L’unico modo per consentire il ricongiungimento non poteva che passare per un’apposita richiesta via mail che, però, l’autorità belga competente aveva considerato inammissibile. Nel giudizio di impugnazione avverso il provvedimento di rigetto, il giudice adito si interrogava sulla conformità della normativa belga applicabile rispetto all’art. 5, par. 1, della direttiva 2003/86, interpretato alla luce degli artt. 7 e 24 della Carta dei diritti fondamentali, i quali, tra le altre cose, mirano a proteggere l’unità familiare e l’interesse superiore del minore. La CGUE, interpellata dal giudice belga, ritiene che la normativa nazionale sia in contrasto con l’interpretazione corretta da assegnare all’art. 5, par. 1, della direttiva 2003/86. È vero che gli Stati membri hanno un margine di discrezionalità circa le procedure di ricongiungimento familiare, ma ciò non può comportare la negazione dello scopo dell’atto legislativo, né l’indebita compressione dei diritti fondamentali degli interessati. L’assenza di eccezioni alla regola prevista dalla normativa belga finirebbe per compromettere il raggiungimento del fine ultimo della direttiva e, nello specifico, arrecherebbe un notevole pregiudizio ai familiari di un rifugiato, vale a dire di un cittadino di Stato terzo che soggiorna in uno Stato membro per ragioni particolarmente delicate e che, in quanto tale, deve poter beneficiare di una protezione rafforzata. Laddove per i familiari di quest’ultimo sia impossibile o molto difficile comparire personalmente al momento della proposizione della domanda di ricongiungimento (ad esempio a causa della presenza di un conflitto nell’area di residenza), devono essere previsti mezzi alternativi. Le esigenze di flessibilità avanzate dalla CGUE comportano quindi che lo Stato membro interessato debba consentire ai richiedenti di fare domanda senza recarsi personalmente presso il rappresentante diplomatico o consolare competenti; la comparizione personale potrà poi essere disposta in un secondo momento.

 

Decisione 1/80 del Consiglio di associazione (Accordo CEE – Turchia 1963): nuove restrizioni sulle condizioni d’accesso all’occupazione dei lavoratori

Nel caso S, E, e C (CGUE, C-402/21, sentenza del 9 febbraio 2023) la CGUE ha interpretato alcune disposizioni della Decisione n. 1/80 del Consiglio di associazione dell’Accordo CEE – Turchia del 1963; ciò al fine di comprendere se e fino a che punto sia possibile impedire nuove restrizioni sulle condizioni d’accesso all’occupazione dei lavoratori turchi e dei loro familiari che si trovino nei territori degli Stati membri in situazione regolare quanto a soggiorno e occupazione. Al centro del caso vi era la revoca del permesso di soggiorno a tempo indeterminato a tre cittadini turchi, S, E e C, legalmente soggiornanti nei Paesi Bassi. Le revoche erano giustificate da condanne penali che avevano indotto le autorità competenti a considerare le condotte degli interessati come minacce reali, attuali e sufficientemente gravi per un interesse fondamentale della società. S, E e C avevano altresì ricevuto l’ordine di lasciare immediatamente il territorio dei Paesi Bassi, e nei loro confronti era stato emesso un divieto di ingresso. I procedimenti attivati dai tre cittadini turchi approdavano al Consiglio di Stato dei Paesi Bassi. Il problema giuridico da risolvere in via preliminare riguardava il rispetto o meno, da parte delle autorità nazionali competenti, degli artt. 13 e 14 della decisione 1/80. In effetti, l’art. 13 della decisione vieta agli Stati membri di introdurre nuove restrizioni sulle condizioni d’accesso all’occupazione dei lavoratori e dei loro familiari che si trovino sui loro rispettivi territori in situazione regolare quanto al soggiorno e all’occupazione. L’art. 14 consente eccezioni giustificate da motivi di ordine pubblico, di sicurezza e di sanità pubbliche. Come interpretare tali articoli e applicarli nella fattispecie? La CGUE dichiara anzitutto che i ricorrenti nei procedimenti principali possono invocare l’art. 13 della decisione 1/80. Questo articolo enuncia una clausola di standstill che, secondo la giurisprudenza della Corte stessa, proibisce agli Stati membri di assoggettare l’esercizio della libertà di circolazione dei lavoratori turchi nel territorio nazionale a condizioni più restrittive di quelle che erano loro applicabili al momento dell’entrata in vigore della decisione n. 1/80. La regola di cui all’art. 13 vale anche a seguito dell’accesso al lavoro; dunque, è invocabile pure dal cittadino turco già inserito nel mercato del lavoro dello Stato membro ospitante. Per la Corte, la revoca del diritto di soggiorno per ragioni chiaramente riconducibili all’ordine pubblico costituisce una nuova restrizione. Il motivo alla base di essa deve essere interpretato restrittivamente, poiché rafforza un’eccezione alla regola, a sua volta funzionale al raggiungimento dello scopo della decisione 1/80. La Corte si riporta allora all’interpretazione dell’art. 12 della direttiva 2003/109 per determinare quando una simile eccezione sia ammissibile. In linea generale, la CGUE ricorda che «i provvedimenti adottati per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza possono essere emanati esclusivamente quando risulti, sulla base di una valutazione caso per caso da parte delle autorità nazionali competenti, svolta nel rispetto tanto del principio di proporzionalità quanto dei diritti fondamentali dell’interessato, in particolare del diritto al rispetto della vita privata e familiare, che il comportamento individuale del soggetto in questione rappresenta una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave per uno degli interessi fondamentali della società». Perciò, aspetti quali il riferimento all’evoluzione delle concezioni sociali non sono di per sé sufficienti a configurare i limiti alla base di deroghe legittime e, di conseguenza, a legittimare le misure nazionale di cui trattasi. Più nel dettaglio, la Corte elenca alcuni elementi potenzialmente pertinenti da considerare ai fini della revoca del soggiorno per ragioni di ordine pubblici: in primo luogo, non vi deve essere un rapporto diretto di causa ed effetto tra pena e revoca del soggiorno; in secondo luogo, bisogna compiere una previa valutazione della durata del soggiorno della persona interessata nello Stato membro ospitante, nonché di altri fattori come la sua età, il suo stato di salute, la sua situazione familiare ed economica, la sua integrazione sociale e culturale in tale Stato membro e l’intensità dei suoi legami con il paese d’origine, tenendo a mente che occorre pur sempre bilanciare la severità della pena inflitta alla persona interessata e la durata del soggiorno del condannato. In terzo luogo, infine, è necessario contemperare eventuali circostanze soggettive successive alla condanna: ad esempio, se la persona ha modificato il proprio comportamento in maniera positiva.

Art. 20 TFUE e artt. 5 e 11 della direttiva 2008/115: limiti al divieto di ingresso nel territorio UE di cittadino di Stato terzo familiare di cittadino dell’Unione

Nel caso MD (CGUE, C-528/21, sentenza del 27 aprile 2023) la Corte si è soffermata sul divieto di (nuovo) ingresso in territorio UE di un cittadino di Stato terzo, familiare di cittadini dell’Unione, vagliando la situazione dell’interessato nel quadro dei diritti di cittadinanza dell’Unione e della direttiva 2008/115 (direttiva rimpatri). Il caso era sorto per via di quanto accaduto a MD, cittadino di Stato terzo che soggiornava da anni in Ungheria. MD viveva con la sua compagna e il figlio minore, entrambi cittadini ungheresi a suo carico. Le autorità ungheresi avevano negato a MD la carta di soggiorno permanente; di seguito, avevano emanato un provvedimento che impediva a MD di fare ingresso in territorio UE, pur in assenza di una decisione di rimpatrio, dal momento che l’interessato aveva lasciato il territorio ungherese. La motivazione dei due provvedimenti sfavorevoli era sempre la stessa: la condotta di M.D. era considerata costitutiva di una minaccia reale, diretta e grave per la sicurezza nazionale. La vicenda sfociava in un giudizio che induceva il giudice ungherese a rivolgersi alla CGUE per avere ausilio interpretativo su alcune questioni di diritto UE. Con la prima questione il giudice del rinvio ha chiesto se l’articolo 20 TFUE e gli artt. 5 e 11 della direttiva 2008/115, in combinato disposto con gli artt. 7, 20, 24 e 47 della Carta, vietano a uno Stato membro di adottare una decisione di divieto d’ingresso nel territorio dell’Unione nei confronti di un cittadino di un paese terzo familiare di un cittadino dello Stato membro (che però non ha mai esercitato la propria libertà di circolazione), senza che la situazione personale e familiare di quest’ultimo sia esaminata, e ciò benché si ritenga che la condotta del destinatario del provvedimento costituisca una minaccia reale, diretta e grave per la sicurezza nazionale di detto Stato membro ospitante. La Corte considera anzitutto la prospettiva dell’art. 20 TFUE. Richiama la propria giurisprudenza a tutela dell’effetto utile dei diritti legati alla cittadinanza dell’Unione per ribadire una deroga eccezionale: il diritto di soggiorno può dover essere accordato al cittadino di un paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione che non abbia esercitato la sua libertà di circolazione, se tra i due sussiste un rapporto di dipendenza tale da far sì che, in assenza di tale diritto, il secondo sarebbe costretto a seguire il primo in un paese terzo, dovendo quindi lasciare il territorio dell’Unione. Lo stesso vale qualora in gioco vi sia un provvedimento che sottopone il cittadino di Stato terzo a un divieto di (nuovo) ingresso nel territorio dell’Unione. Pertanto, quando sia accertato un simile legame di dipendenza, lo Stato membro interessato può vietare l’ingresso e il soggiorno nel territorio dell’Unione del cittadino di un paese terzo per motivi di ordine pubblico o di sicurezza nazionale, ma solo dopo aver tenuto in considerazione tutte le circostanze pertinenti, e segnatamente, se del caso, l’interesse superiore del figlio minore cittadino dell’Unione. Questi elementi rilevano anche se la situazione di cui trattasi viene esaminata alla luce della direttiva 2008/115. In particolare, l’art. 5 della direttiva deve essere interpretato nel senso che una decisione di divieto d’ingresso in territorio UE non può essere adottata nei confronti di un cittadino di un paese terzo senza che siano state prese in considerazione le sue condizioni di salute nonché, se del caso, la sua vita familiare e l’interesse superiore del figlio minore. Ad ogni modo, una decisione di divieto di ingresso nel territorio dell’Unione non può essere la conseguenza automatica di una sola decisione con la quale lo stesso Stato membro ha revocato alla stessa persona e per lo stesso motivo il diritto di soggiorno nel proprio territorio. Occorre una previa decisione di rimpatrio. Alla luce di queste conclusioni, la Corte rammenta al giudice a quo che la normativa interna a fondamento della decisione controversa dovrà essere disapplicata se effettivamente incompatibile con l’art. 5 della direttiva rimpatri, a meno che non sia possibile realizzare un’interpretazione conforme alla disposizione di diritto derivato UE. Infine, il giudice ungherese ha domandato alla Corte se l’art. 13 della direttiva 2008/115, in combinato disposto con l’articolo 47 della Carta, osta a una prassi nazionale in forza della quale le autorità amministrative di uno Stato membro rifiutano di applicare una decisione giudiziaria definitiva che dispone la sospensione dell’esecuzione di una decisione di divieto d’ingresso già segnalata al Sistema di informazione Schengen (SIS). La CGUE dichiara che una prassi di questo tipo non è legittima. Nonostante l’art. 13, par. 2, della direttiva non preveda espressamente che il ricorso avverso una decisione di divieto d’ingresso abbia effetto sospensivo, tale possibilità deve essere accordata all’autorità competente dal diritto interno, oppure è necessario che l’autorità competente possa avvalersene d’ufficio. A questo riguardo, è irrilevante la circostanza che la decisione di divieto d’ingresso e di soggiorno sia già stata oggetto di una segnalazione nel SIS da parte dello Stato membro interessato.