Ammissione e soggiorno

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In questo primo numero del 2023 prosegue la Rassegna della giurisprudenza italiana in materia di ingresso e soggiorno in Italia di cittadini/e extra UE proponendo provvedimenti giurisdizionali ritenuti significativi al fine di un’analisi critica della normativa e degli orientamenti significativi in materia.
 
IL VISTO D’INGRESSO
Le garanzie partecipative nel procedimento di rilascio del visto
Il Tar Lazio, con due sentenze brevi (n. 17322/2022 e n. 17338/2022), pronunciandosi su provvedimenti di rigetto di rilascio di visto per lavoro li annulla, rammentando che l’Amministrazione, anteriormente all’adozione del provvedimento definitivo di rigetto di rilascio di visto, ha l’obbligo di comunicare alla parte il preavviso di rigetto ex art. 10-bis legge 241/90, essendo altrimenti preclusa l’interlocuzione di carattere infra-procedimentale tra privato e PA. Difatti l’art. 21-octies, co. 2, della legge n. 241 impedisce l’applicazione del meccanismo di non annullabilità di cui al medesimo articolo per il caso di violazione dell’art. 10-bis, non trattandosi di scelte a carattere vincolato da parte dell’Amministrazione e non può quindi applicarsi il primo periodo della medesima norma procedimentale.
Sempre il Tar Lazio, sentenza n. 1649/2023, afferma che nell’ambito del procedimento volto al rilascio o al diniego del visto di ingresso per motivi di studio – regolato dall’art. 39 TU d.lgs. 286/98, dall’allegato A, punto 15 decreto interministeriale n. 850 del 2011 e dall’art. 44-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1999 – l’Amministrazione deve preventivamente comunicare al cittadino straniero, ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/90, il preavviso di rigetto della domanda amministrativa, così consentendo la dovuta interlocuzione tra privato e PA idonea, nel caso, a modificare la potenziale scelta negativa. Anche in tali casi, infatti, l’art. 21-octies, co. 2, della legge n. 241/1990 impedisce l’applicazione del meccanismo di non annullabilità di cui al medesimo articolo per il caso di violazione della suddetta garanzia. In mancanza, come nella fattispecie in rassegna, la decisione amministrativa deve essere annullata.
La rilevanza delle garanzie partecipative previste e disciplinate dalla legge n. 241/90 è, specialmente nell’ambito della valutazione attinente il rilascio di tale visto di ingresso, particolarmente significativa, come già affermato anche da Tar Lazio, sentenza n. 17339/2022. Ciò in virtù degli ampi margini di discrezionalità di cui gode la PA nell’ambito della decisione sul rilascio o sul diniego di rilascio dei visti di ingresso per motivo di studio in virtù di quanto previsto dall’art. 4, co. 2, d.m. n. 850/2011. Discrezionalità tale che, sostiene Tar Lazio, sentenza n. 17380/2022, «[i]l controllo giurisdizionale di detto margine discrezionale si limita, pertanto, a verificare se la decisione impugnata poggi su una base di fatto sufficientemente solida e ad assicurarsi che essa non sia viziata da un errore manifesto».
 
Il visto per lavoro e il c.d. “rischio migratorio”
Come noto la scelta del nostro ordinamento in materia di politiche migratorie risulta caratterizzata dalla previa definizione dei flussi di ingresso nel territorio dello Stato (c.d. quote), periodicamente determinati con apposito decreto in relazione a differenti tipologie di lavoro (stagionale o meno) e settori produttivi. Nell’ambito di tali flussi il datore di lavoro può avanzare istanza di nulla osta all’ingresso per lavoro di uno o più lavoratori/trici residenti all’estero (e potenzialmente mai entrati in Italia). Successivamente all’ottenimento di tale nulla osta la persona straniera si dovrà recare presso l’autorità consolare italiana estera per chiedere il rilascio in suo favore del visto di ingresso per motivo di lavoro. L’incontro tra domanda e offerta di lavoro avviene, dunque, a distanza e, almeno ordinariamente, in mancanza della effettiva conoscenza tra datore di lavoro e lavoratore e delle effettive condizioni di lavoro.
Stante tale sistema legale di ingresso dei lavoratori stranieri in Italia sorprendono alcune pronunce del Tar Lazio con le quali sono state confermate le decisioni di rigetto del visto in favore del lavoratore straniero perché non avrebbe adeguatamente dimostrato, nel corso dell’intervista svolta dinanzi all’autorità consolare italiana, di conoscere il contesto lavorativo o di alloggio in Italia.
Tale carenza di conoscenza, tuttavia, dovrebbe ritenersi consustanziale al sistema che impone l’incontro a distanza tra domanda ed offerta di lavoro.
Tuttavia, il Tar Lazio, sentenza n. 17573/2022, deduce l’esistenza del cd. “rischio migratorio” (e dunque la ragione fittizia della richiesta di lavoratori dall’estero avanzata dal datore di lavoro) dalla vaghezza delle risposte fornite dal lavoratore circa il proprio datore di lavoro e il tipo di attività che avrebbe svolto in Italia, nonostante il cittadino straniero abbia affermato di volere entrare in Italia per «raccogliere la frutta» e per avere avuto rapporti con la società-datrice di lavoro soltanto per il tramite di un amico ex dipendente.
La valutazione dell’Amministrazione consolare assume, nelle decisioni in rassegna, eccessiva discrezionalità, che la magistratura amministrativa laziale legittima negli stessi termini in cui l’autorizza in occasione delle richieste di visto di breve durata (di durata massima di 90 giorni, come quelli per motivi turistici), senza tuttavia considerare il diverso sistema legale in cui origina il rilascio dei visti di per motivi di lavoro.
Nella decisione qui in esame non sembra essere stato considerato il contenuto del decreto interministeriale n. 850 del 11 maggio 2011 (G.U. n. 280 del 1.12.2011) in ordine alla «Definizione delle tipologie dei visti d’ingresso e dei requisiti per il loro ottenimento», il cui art. 4 specifica che solo «nell’esame delle richieste di visto di breve durata è richiesto alle Rappresentanze diplomatico-consolari di prestare particolare attenzione alla valutazione se il richiedente presenti un rischio di immigrazione illegale ed offra adeguate garanzie sull’uscita dal territorio degli Stati membri alla scadenza del visto richiesto» (co. 1), ed estesa ai visti di lunga durata ma «limitatamente allo studio» (co. 2), non anche al visto per motivo di lavoro.
Nell’ambito del rilascio dei visti di ingresso per lavoro stagionale, alcune pronunce del Tar Lazio (sentenza n. 16594/2022 e sentenza n. 17346/2022) contengono motivazioni che appaiono un ulteriore errore di lettura normativa. Si afferma, infatti, che il visto di ingresso per motivo di lavoro (stagionale) sarebbe caratterizzato da «necessaria temporaneità», con ciò intendendosi che allo spirare del termine previsto dal visto il lavoratore debba rientrare per forza nel suo Paese di origine. Si omette tuttavia di considerare che, ai sensi dell’art. 24, co. 9, d.lgs. 286/98, il rientro del lavoratore stagionale straniero nello Stato di provenienza è prescritto esclusivamente al fine di acquisire la precedenza per il rientro in Italia nell’anno successivo per motivi di lavoro stagionale. Differentemente l’art. 24, co. 10, d.lgs. 286/98 prevede la possibilità di conversione del permesso di soggiorno per lavoro subordinato non stagionale in permesso per lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato senza menzionare la necessità del previo rientro del lavoratore nel suo Paese di origine (cfr. da ultimo, Tar Lombardia, ordinanza n. 86/2023).
 
La procura alle liti
La sopra segnalata sentenza del Tar Lazio, n. 17573/2022 presenta un ulteriore profilo meritevole di segnalazione, relativo alla validità della procura alle liti rilasciata all’estero ma non legalizzata dall’autorità consolare italiana. Il giudice amministrativo ritiene il ricorso ammissibile «avendo la parte ricorrente dimostrato l’impossibilità di poter ottenere entro congrui tempi la predetta legalizzazione» ed essendo le funzioni notarili delle autorità consolari italiane all’estero riservate in base alla legge ai soli cittadini italiani all’estero consolare (art. 28, d.lgs. 3.2.2011 n. 71). Di conseguenza, la procura alle liti utilizzata nel relativo giudizio, rilasciata all’estero da un notaio accreditato e tradotta in lingua italiana, è stata considerata valida pur in difetto di legalizzazione.
 
IL PERMESSO DI SOGGIORNO
Conversione del permesso per protezione speciale rilasciato dal questore
È noto che il permesso di soggiorno per protezione speciale di cui all’art. 19, co. 1.1 e 1.2, TU d.lgs. 286/98 può essere riconosciuto nell’ambito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale oppure a seguito di domanda presentata direttamente al questore. Si è posta, tuttavia, la questione della conversione del permesso rilasciato direttamente dal questore, che, secondo indicazioni e prassi del Ministero dell’interno, non sarebbe convertibile in permesso per lavoro, a differenza di quanto accade per quello rilasciato nell’altro percorso.
Il Tar Veneto, con sentenza n. 1812/2022, (inserito anche nella Rassegna «asilo e protezione internazionale» in questo stesso numero della Rivista) ha affermato la piena convertibilità del permesso per protezione speciale rilasciato dal questore, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata della vigente normativa e in particolare dell’art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008 e dell’art. 6, co. 1-bis, TU d.lgs. 286/98, come modificati dal d.l. n. 130/2020. L’apparente limitazione alla convertibilità di questo tipo di permesso, derivante dal richiamo nell’art. 6, co. 1-bis citato al permesso per protezione speciale rilasciato in applicazione dell’art. 32, co. 3 d.lgs. 25/2008, e dunque nell’ambito del sistema della protezione internazionale, viene superata dal giudice regionale veneto analizzando l’istituto della protezione speciale, che riconduce a unità poiché si fonda su medesimi presupposti, indipendentemente dal percorso amministrativo scelto dalla parte. Dunque, secondo il Tar «si rende possibile una interpretazione costituzionalmente orientata in ragione della quale, al ricorrere delle condizioni di cui ai punti 1 e 1.1. dell’art. 19 del TUI, cui il comma 3 dell’art. 32 del d.lgs. 25/2008 subordina il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale, lo straniero può ottenere un titolo (per protezione speciale, per l’appunto) suscettibile di conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, a prescindere dal procedimento seguito per ottenerlo, essendo irrilevante che tale permesso sia stato rilasciato in esito a una richiesta direttamente rivolta al questore, così come previsto dal punto 1.2. dello stesso art. 19 ed essendo essenziale, al contrario, solo che non ricorrano le condizioni escludenti espressamente previste dall’art. 6, comma 1-bis del d.lgs. 286/98».
 
Conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro stagionale in permesso per lavoro
La decisione del Tar Campania, Napoli, n. 492/2023, in linea con precedente giurisprudenza amministrativa (cfr. Tar Lombardia, Milano, n. 1597/2020, Tar Lazio, Roma, n. 6458/2016, Tar Toscana n. 1327/2014), ribadisce che il richiedente la conversione del permesso di soggiorno per lavoro subordinato stagionale in permesso di soggiorno per lavoro subordinato non stagionale non ha l’onere di acquisire l’attestazione della disponibilità di una quota/flussi, poiché all’adempimento deve procedere d’ufficio l’Amministrazione. È quindi illegittimo il diniego di conversione del permesso di soggiorno, incentrato sull’assenza dell’attestazione della disponibilità della quota di ingresso. Pronuncia secondo cui l’art. 24, co. 10, TU d.lgs. 286/1998 non prescrive che l’autorizzazione debba essere chiesta preventivamente per cui «ben può imporsi all’Amministrazione di operare d’ufficio tale verifica acquisendo l’autorizzazione e ben può ammettersi che la disponibilità della quota rientri tra le “sopravvenienze” che, verificatesi in corso del procedimento, permettono il rilascio del titolo di soggiorno pur in situazioni in cui al momento della istanza non ne sussistessero tutti i presupposti».
 
IL PERMESSO DI SOGGIORNO UE DI LUNGO PERIODO
Computo dei 5 anni di regolare presenza sul territorio
Torna all’attenzione della magistratura amministrativa la questione del computo dei 5 anni di regolare presenza sul territorio nazionale, come noto previsto dall’art. 9, co. 1, TU d.lgs. 286/98.
Dando seguito alla pregressa giurisprudenza amministrativa (si veda anche quella già segnalata in questa Rivista n. 1/2022) il Tar Emilia Romagna, sentenza n. 834/2022, rammenta che il legislatore ha escluso dal calcolo utile i periodi di soggiorno di breve durata e i periodi di soggiorno in qualità di titolare di uno status giuridico previsto dalla Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche, dalla Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari, dalla Convenzione del 1969 sulle missioni speciali o dalla Convenzione di Vienna del 1975 sulla rappresentanza degli Stati nelle loro relazioni organizzazioni internazionali di carattere universale (c.d. permessi diplomatici). Per converso ha affermato che vanno «considerati ai fini del computo, ad esempio, i periodi di possesso di permesso per studio o formazione (art. 9, co. 3 lett. a) TUI), per protezione temporanea, per cure mediche o in base agli articoli 18, 18-bis, 20-bis, 22, co. 12-quater, e 42-bis, nonché i periodi di possesso del permesso di soggiorno rilasciato ai sensi dell’art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008, o in attesa di una decisione su tale richiesta (art. 9 co. 3 lett. b) TUI) o ancora in qualità di richiedenti asilo (art. 9, co. 3, lett. c) TUI» e specificando, con riguardo al permesso di soggiorno per motivi umanitari, che il periodo di regolare presenza a tale titolo, è computabile nel termine dei 5 anni richiesti dalla norma allorquando ad esso sia conseguito un permesso di soggiorno differente, tra cui quello per motivo di lavoro.
 
Pericolosità sociale ed elementi sopravvenuti al provvedimento impugnato
In questo ambito la giurisprudenza amministrativa da continuità alle impostazioni già commentate in questa Rivista n. 3/2022 (in particolare con riferimento sia al requisito reddituale, sia a quello attinente la mancanza di motivi ostativi correlati alla pericolosità sociale del richiedente). Così il Consiglio di Stato, sentenza n. 719/2023 ribadisce che in materia di diritti fondamentali della persona la pregressa impostazione legata alla qualificazione del giudizio amministrativo come meramente impugnatorio non sempre risulta adeguata alle nuove funzione assegnate al giudice amministrativo, a partire dall’entrata in vigore del codice del processo amministrativo e alla luce della successiva giurisprudenza sovranazionale e interna. Deve, invece, ritenersi che la nuova lettura del giudizio amministrativo lo porti a considerarlo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto.
Per questo, argomenta il Consiglio di Stato, si impone «la valutazione degli elementi che si sono effettivamente concretizzati nelle more tra l’istanza presentata, il suo esame da parte dell’Amministrazione e il giudizio dinanzi al giudice, specie quando ci sono gli elementi per il riconoscimento di altro titolo di soggiorno perché, se è vero che questi non potevano incidere sull’atto, incidono sulla situazione giuridica dell’appellante e la loro mancata valutazione può comprometterla irrimediabilmente, arrecando un pregiudizio a diritti fondamentali della persona umana». E, conseguentemente, la riabilitazione della parte intervenuta successivamente alla decisione dell’Amministrazione e nel corso del giudizio di impugnazione, sia pure in relazione ad un comportamento connotato da sicuro disvalore sociale (maltrattamenti in famiglia) che aveva determinato l’Amministrazione ad emanare un giudizio di pericolosità sociale, comporta la necessità da parte della stessa PA del riesame della decisione prima assunta, anche al fine di verificare la possibilità di rilascio di un titolo di soggiorno differente da quello originariamente richiesto dalla parte.
Le decisioni in materia, specifica il Collegio, non incidono sulla validità formale dell’atto amministrativo (che è confermata), imponendosi tuttavia il relativo riesame a tutela dei diritti fondamentali della persona.
 
LA REGOLARIZZAZIONE ex art. 103 d.l. n. 34/2020
Legge n. 241/90 - natura del parere dell’Ispettorato del lavoro
Il Tar Veneto con sentenza n. 1811/2022 si è pronunciato su un caso in cui la prefettura aveva diniegato la regolarizzazione sulla base del parere negativo dell’Ispettorato provinciale del lavoro, secondo cui il reddito del datore di lavoro non era sufficiente, irrilevante la documentazione prodotta in sede endo-procedimentale perché oltre il termine dei 10 giorni indicato nel preavviso di rigetto ex art. 10-bis legge 241/90. Il Tar censura detto provvedimento sotto vari profili: a) il parere dell’Ispettorato provinciale del lavoro è obbligatorio ma non vincolante e riguarda la sola verifica tecnica dei requisiti reddituali, senza potersi esprimere sull’ammissibilità o meno della documentazione a suo dire «tardiva»; b) il potere di valutare complessivamente la domanda è della sola prefettura, sia sull’ammissibilità della documentazione che per il merito della domanda; c)il termine di cui all’art. 10-bis legge 241/90 non è perentorio, non essendoci alcuna previsione legislativa in tal senso («ex multis, T.R.G.A. Trentino-Alto Adige Trento sez. unica, 16 luglio 2021, n. 120; Tar Molise Campobasso, sez. I, 29 aprile 2019, n. 144; Tar Veneto Venezia, sez. II, 11 aprile 2018, n. 377; Tar Lecce, sez. III, 26 luglio 2016, n. 1314») e pertanto illegittimamente entrambe le Amministrazioni non hanno esaminato la documentazione prodotta dalla parte interessata, in violazione anche dell’obbligo di collaborazione e buona fede tra PA e privato sancito dall’art. 2, co. 2-bis legge 241/90.
 
Lavoro regolare già in corso
Con sentenza n. 8583/2022 il Consiglio di Stato si è pronunciato su un ricorso con cui era stato impugnato il diniego di regolarizzazione motivato in quanto la lavoratrice (titolare di permesso per richiesta asilo) aveva già in corso un rapporto di lavoro regolare con il medesimo datore di lavoro, con cui aveva presentato la domanda. Come già il giudice di primo grado, anche il Consiglio di Stato rigetta l’impugnazione affermando che le previsioni dell’art. 103 d.l. n. 34/2020 non possono avere un’interpretazione estensiva tale da consentire la regolarizzazione di un rapporto di lavoro già regolare e con il medesimo datore di lavoro (diverso sarebbe se riguardasse altri rapporti di lavoro o irregolari o futuri), in quanto la disposizione eccezionale del 2020 è finalizzata a fare emergere il lavoro irregolare oppure per iniziarne uno nuovo. L’Alto Consesso non nega, infatti, che la disciplina sulla regolarizzazione possa riguardare anche richiedenti asilo ma precisa che, qualunque sia la condizione della persona a favore della quale viene fatta la proposta di regolarizzazione, deve necessariamente riguardare le sole due ipotesi contemplate dalla legge, al di fuori delle quali ogni interpretazione estensiva si porrebbe contra legem.
 
Requisito reddituale nel settore dell’assistenza alla persona - la famiglia anagrafica
Una questione presentatasi nelle procedure di regolarizzazione, con specifico riferimento al settore dell’assistenza alla persona e del bisogno domestico, riguarda il requisito reddituale del datore di lavoro. L’art. 103, co. 3, d.l. n. 34/2020 stabilisce, infatti, che la domanda poteva essere proposta per «assistenza alla persona per il datore di lavoro o per componenti della sua famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l'autosufficienza» e il d.m. 27 maggio 2020 (a cui era demandato il potere di determinare in concreto il reddito) all’art. 9, co. 2, prevede(va) che «… il reddito imponibile del datore di lavoro non può essere inferiore a 20.000,00 euro annui in caso di nucleo familiare composto da un solo soggetto percettore di reddito, ovvero non inferiore a 27.000,00 euro annui in caso di nucleo familiare inteso come famiglia anagrafica composta da più soggetti conviventi. Il coniuge ed i parenti entro il secondo grado possono concorrere alla determinazione del reddito anche se non conviventi.», specificando il successivo co. 2 che «Nella valutazione della capacità economica del datore di lavoro può essere presa in considerazione anche la disponibilità di un reddito esente da dichiarazione annuale e/o CU (es: assegno di invalidità)».
La questione si è posta con riguardo al concetto di «famiglia anagrafica» ed è stata risolta dal Tar Lazio, Roma, sentenza n. 17497/2022, che ha censurato un provvedimento di diniego di regolarizzazione basato sull’esclusione del cumulo di redditi della persona beneficiaria dell’assistenza e del compagno convivente, essendo i due iscritti autonomamente all’anagrafe. Secondo il Tar Lazio «nel concetto di “famiglia anagrafica” ai sensi del vigente art. 4 d.p.r. 223/1989, come modificato dall’art. 3 del d.lgs. 5/2017, rientrano anche le persone “legate da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora nello stesso comune”, locuzione che appare ricomprendere anche la coppia di fatto, come nel caso che riguarda l’odierna ricorrente», con conseguente possibilità di cumulare i due redditi, in tal modo interpretando correttamente il disposto dell’art. 9, co. 2, d.m. 27 maggio 2020. Da evidenziare che già in sede cautelare il Tar Lazio si era pronunciato negli stessi termini con ordinanza n. 58009/2022, rimasta inottemperata dalla prefettura.
In termini analoghi anche il Tar Piemonte, con sentenza n. 1151/2022, che ha annullato il rigetto della regolarizzazione motivato da impossibilità di cumulare i redditi della persona da assistere con quelli della nipote convivente, specificando altresì che nel conteggio doveva essere compresa anche la pensione percepita dall’anziana, come previsto dall’art. 9, d.m. 27 maggio 2020.
Sentenza che affronta anche la questione del rapporto di lavoro in corso e regolarmente istaurato, ritenendo ipotesi ammissibile alla regolarizzazione perché la lavoratrice non aveva il permesso di soggiorno e pertanto ciò che era da regolarizzare era la sua condizione.
 
Uscita dall’Italia prima della conclusione della procedura
L’art. 103, co. 1, d.l. n. 34/2020 prevedeva che la domanda di regolarizzazione potesse essere presentata da cittadini/e stranieri/ presenti in Italia alla data dell’8 marzo 2020, i/le quali «non devono aver lasciato il territorio nazionale dall’8 marzo 2020». Il Tar Emilia Romagna, sede di Parma, con la sentenza n. 314/2022, affronta il caso in cui la domanda di regolarizzazione è stata rifiutata in quanto, in sede di sottoscrizione del contratto di soggiorno, dal passaporto della lavoratrice si evinceva una sua uscita dall’Italia nelle more della procedura. Il giudice emiliano condivide l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la permanenza sul territorio nazionale, a far data dall’8 marzo, deve essere ininterrotta fino alla conclusione del procedimento (Tar Toscana, sez. II, 16 novembre 2021 n. 1492) in quanto «la ratio della disciplina della regolarizzazione quella di favorire i cittadini stranieri che si trovino in situazioni di precarietà lavorativa ma presentino i presupposti per potersi integrare nel tessuto sociale nazionale, il requisito del non avere lasciato l’Italia dall’– OMISSIS – e fino al termine della procedura di emersione sia stato inserito dal legislatore in quanto condizione emblematica della volontà dello straniero di permanere sul territorio nazionale in modo stabile e continuativo, il che difetta quando ci si sia recati al di fuori dei confini nazionali in maniera immotivata o comunque per motivazioni irrilevanti dal punto di vista giuridico e per un periodo di tempo prolungato (v. Cons. St., sez. III, 8 settembre 2022 n. 7814)». Tuttavia, censura il provvedimento prefettizio perché non può escludersi un momentaneo allontanamento per esercitare un diritto fondamentale (nel caso: l’acquisizione del passaporto che non era possibile in Italia). Secondo il Tar Parma, infatti, «diverso significato ha però il caso dell’essersi momentaneamente allontanati dall’Italia per un lasso temporale circoscritto e per potere esercitare un diritto fondamentale dell’individuo, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata che non è in contrasto con lo spirito della norma poiché un allontanamento momentaneo, non preventivabile e giustificato dall’esercizio di un diritto imprescindibile della persona umana non implica di certo l’assenza di volontà dello straniero di permanere sul territorio italiano in modo stabile e continuativo (così Cons. St., sez. III, n. 7814/2022 cit.)».
 
Il requisito alloggiativo
Il Tar Emilia Romagna, Bologna, con sentenza n. 56/2023 ha annullato il provvedimento con cui la prefettura aveva negato la regolarizzazione per mancata produzione dell’idoneità alloggiativa già in sede di presentazione della domanda, a suo dire essenziale. Il giudice amministrativo afferma, tuttavia, che tale requisito non è affatto richiesto dall’art. 103 d.l. n. 34/2020 e nemmeno dal d.m. 27 maggio 2020 di esso attuativo. Pertanto «Ne consegue che l’idoneità alloggiativa ben può essere dimostrata ex post in sede di convocazione per la sottoscrizione del contratto di soggiorno, come ampiamente argomentato dalla difesa di parte ricorrente, rispondendo ciò pienamente alla “ratio” dell’emersione di garantire un soggiorno legale agli stranieri “meritevoli” già presenti nel territorio italiano in data antecedente l’8 marzo 2020 e da impiegare nelle attività lavorative indicate dalla legge indipendentemente dalle condizioni materiali di vita.[…]. Erra dunque l’Amministrazione a voler equiparare la fattispecie di cui all’art. 5-bis TUI in tema di rilascio del permesso di soggiorno per lavoro subordinato alla procedura di emersione di cui all’art. 103 c. 1 d.l. 34/2020, come detto avente funzione sanante e speciale».
 
L’ art. 103, co. 2, d.l. n. 34/2020 - la condizione di richiedente asilo
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 11281/2022 ha censurato un provvedimento con cui la prefettura aveva negato la regolarizzazione presentata, ai sensi del comma 2 dell’art. 103, da richiedente asilo ritenendo che alla data del 31 ottobre 2019 fosse privo di permesso di soggiorno, pur avendo ricorso pendente davanti alla Corte di cassazione al momento della presentazione della domanda, rigettato nelle more della procedura.
Dopo avere ricostruito la normativa della regolarizzazione, con i due percorsi di accesso (a domanda del datore di lavoro – per fare emergere il lavoro irregolare o per proporre un contratto di lavoro – o direttamente dal lavoratore/lavoratrice per attività svolte prima del 31 ottobre 2019) e avere preso atto che il testo di legge non escludeva dal diritto i/le richiedenti asilo, ammesso dalle stesse istruzioni ministeriali, il Consiglio di Stato afferma innanzitutto che «il Collegio condivide le conclusioni a cui è già pervenuta la sezione in un recente arresto (Cons. St., sez. III, 25 agosto 2022, n. 7471) la quale ha affermato, in riferimento all’art. 103 d.l. 34/2020, che non vi sono elementi di carattere testuale, sistematico e teleologico per escludere dall’ambito di applicazione della norma e, più in generale, dalla procedura di emersione lo straniero titolare di un permesso di soggiorno temporaneo per richiesta asilo/protezione internazionale et similia». Quanto al caso specifico oggetto di ricorso (dopo rigetto da parte del Tar Lazio), il giudice d’appello censura, come detto, il rifiuto di regolarizzazione ritenendo che la sospensiva ottenuta dal lavoratore per il giudizio davanti alla Corte di cassazione per il riconoscimento della protezione internazionale (art. 35-bis, co. 13, d.lgs. 25/2008) consentiva di ritenere l’istante «regolarmente soggiornante sul territorio nazionale in attesa della definizione del giudizio innanzi alla Corte di cassazione per l’ottenimento della protezione internazionale che si è concluso con esito negativo solo nel 28 febbraio 2020 con sentenza depositata in cancelleria il successivo 16 maggio 2020». La condizione di richiedente asilo, dunque, prescinde dal possesso di un permesso di soggiorno, stante la prevalenza sostanza sulla forma.
 
Le questioni rinviate alla Corte costituzionale in relazione all’art. 103 d.l. n. 34/2020
a) Mancata conclusione della procedura di regolarizzazione per fatto del datore di lavoro e rilascio del permesso di soggiorno per attesa occupazione
Il Tar Umbria, con ordinanza di promovimento giudizio di costituzionalità  e il Tar Marche, con ordinanza di promovimento giudizio di costituzionalità n. 149/2022 pubblicata sulla G.U. n. 51 del 21.12.2022 hanno sollevato questione di legittimità costituzionale delle previsioni dell’art. 103 d.l. n. 34/2020 nella parte in cui prevedono che in caso di cessazione del rapporto di lavoro, nelle more della conclusione della procedura, il/la lavoratore/lavoratrice abbia diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione (ex art. 22, co. 11, TU d.lgs. 286/98), mentre analoga previsione non è contemplata nel caso in cui la procedura di regolarizzazione non si concluda per fatto o comportamento del datore di lavoro (a differenza di quanto previsto nella precedente regolarizzazione del 2012).
In entrambi i casi si trattava di conclusione negativa della regolarizzazione per insufficienza del reddito del datore di lavoro e con rapporto di lavoro effettivamente avviato (nel caso umbro era stato improvvisamente interrotto dal datore di lavoro) ma non conclusosi per difetto dei presupposti in capo al datore di lavoro.
Secondo i remittenti non è possibile un’interpretazione della norma analoga a quella contenuta nell’art. 5, co. 11-bis, d.lgs. 109/2012 proprio perché non espressamente prevista dall’art. 103, d.l. n. 34/2020 e trattandosi di norme, quelle della regolarizzazione, eccezionali rispetto al sistema ordinario di acquisizione del permesso di soggiorno non sono applicabili analogicamente. I giudici regionali ritengono che la differenza di trattamento comporti la violazione del principio di ragionevolezza.
I remittenti dubitano, inoltre, della legittimità dell’art. 103, co. 5 e 6, d.l. 34/2020 che, nel subordinare la regolarizzazione alla capacità reddituale del datore di lavoro, non indicano una soglia minima o i criteri per la sua determinazione, rinviando a fonte secondaria (decreto ministeriale 27 maggio 2020) la sua concreta indicazione, violando i principi della delega al potere esecutivo.
 
b) il datore di lavoro straniero privo di titolo di soggiorno di lungo periodo
Il Tar Liguria, con ordinanza 15 settembre 2022 (p. 98 e ss. G.U. n. 52 del 28.12.2022) ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, co. 1, d.l. n. 34/2022 nella parte in cui riserva ai soli datori di lavoro stranieri titolari di permesso UE di lungo soggiorno la possibilità di presentare domanda di emersione per rapporto di lavoro irregolare o per una nuova proposta di lavoro e «preclude così l’accesso alla “regolarizzazione” di lavoratori stranieri di per sé in possesso dei requisiti “sostanziali” (permanenza in Italia da prima dell’8 marzo 2020 e impiego nei settori dell’agricoltura o dell’assistenza alla persona), rendendo meno agevole il raggiungimento dello scopo, dichiaratamente perseguito dalla norma, di “favorire” l’emersione del lavoro irregolare e la stipulazione di contratti d’impiego nei settori indicati».
Violazione dunque del principio di ragionevolezza e di disparità di trattamento, in quanto i lavoratori, pur in possesso dei medesimi requisiti sostanziali previsti dall’art. 103, possono godere o meno del beneficio solo in ragione della condizione del datore di lavoro. La disparità di trattamento, ad avviso del giudice amministrativo ligure, confligge anche con la stessa ratio della norma di regolarizzazione.