Famiglia e minori

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FAMIGLIA
Ricongiungimento familiare con i genitori del minore non accompagnato rifugiato - data rilevante ai fini della determinazione della minore età - sussistenza di una vita familiare effettiva ai fini del ricongiungimento.
Nel caso di ricongiungimento familiare di un genitore con un figlio minore non accompagnato
che abbia ottenuto lo status di rifugiato, il minore deve essere tale al momento della richiesta di ricongiungimento. Per ritenere sussistente una vita familiare effettiva, la sola ascendenza diretta di primo grado non è sufficiente, ma non è necessario né che il figlio soggiornante e il genitore interessato si sostengano reciprocamente dal punto di vista economico, né la previa convivenza affinché il genitore possa beneficiare del ricongiungimento. Visite occasionali, purché possibili, e contatti regolari di qualsiasi tipo possono essere sufficienti per attestare l’esistenza di una vita familiare effettiva (Corte di Giustizia, 1.8.2022, n. 273, cause riunite C-273/20 e 355/20).
Con la decisione in esame, la Corte di Giustizia è stata chiamata a rispondere ad una serie di quesiti relativi alle condizioni da integrare per il ricongiungimento familiare di un genitore con un figlio minorenne che abbia ottenuto lo status di rifugiato, quando tale figlio sia divenuto maggiorenne prima dell’adozione della decisione sulla domanda di ingresso e di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare. Le questioni possono essere comprese nella loro esatta portata solo considerando la disciplina tedesca in materia di ricongiungimento familiare. In tal Paese, l’ascendente che chieda il ricongiungimento con un figlio minorenne regolarmente soggiornante in Germania ottiene un diritto al soggiorno limitato nel tempo al periodo in cui tale minore non raggiungerà i diciotto anni. Dopo tale data, il diritto al soggiorno verrà meno. Solo alla luce di questa previsione restrittiva (che non è prevista dalla legislazione italiana) è possibile comprendere la disposizione tedesca che prevede che, se il minore compie i diciotto anni prima che venga adottata una decisione sul ricongiungimento, la domanda debba essere rigettata: invero, il diritto dell’ascendente al soggiorno verrebbe comunque meno. È in relazione a questa disciplina che la Corte di Giustizia viene chiamata a rispondere ad una pluralità di quesiti.
Come era prevedibile, i Giudici di Lussemburgo escludono che sia legittimo, ai sensi della direttiva sul ricongiungimento familiare, respingere la domanda di ricongiungimento del genitore per il fatto che il minore rifugiato abbia raggiunto la maggiore età prima che sulla domanda di riunificazione l’Amministrazione si sia espressa. Secondo la Corte, considerare la data in cui l’autorità competente dello Stato membro interessato statuisce sulla domanda di ingresso e soggiorno nel territorio dello Stato non sarebbe conforme ai principi del rispetto della vita familiare e del superiore interesse del minore, previsti dalla Carta dell’Unione. «Infatti, le autorità e gli organi giurisdizionali nazionali competenti non sarebbero incentivati a trattare in via prioritaria le richieste presentate dai genitori di minori con l’urgenza necessaria per tener conto della vulnerabilità di tali minori»; sotto un diverso ma correlato profilo, non sarebbero garantiti né il principio della parità di trattamento, né quello della certezza del diritto. Quanto alla possibilità di ridurre la permanenza del genitore sul territorio di uno Stato nazionale in ragione del compimento della maggiore età del figlio, la Corte ricorda che l’art. 13, par. 2 della dir. 2003/86 prevede che il familiare ricongiunto ha diritto ad un permesso di almeno un anno e che, pertanto, è contrario alla direttiva concedere il diritto di soggiorno ai genitori soltanto fintantoché il figlio sia effettivamente minorenne. Esaminate queste questioni, la Corte risponde al quesito relativo alla necessità che tra genitori e figli esista un legame effettivo e, nel caso la risposta a tale quesito sia positiva, di che intensità debba essere tale legame. Il fondamento normativo di tale quesito si trova nell’art. 16 della dir. 2003/86 che prevede che la domanda di ingresso o di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare possano essere rifiutate in caso di mancanza di un vincolo familiare effettivo. Secondo i Giudici di Lussemburgo, alla luce di tale normativa, la prova della semplice ascendenza diretta non è sufficiente; tale fatto, tuttavia non significa che genitore e figlio debbano sostenersi economicamente, né che sia data prova di una pregressa convivenza nello stesso nucleo. È invece sufficiente che esistano «visite occasionali, purché siano possibili, e contatti regolari di qualsiasi tipo», con «una valutazione caso per caso», dal momento che le disposizioni pertinenti della dir. 2003/86 non impongono alcun requisito quanto all’intensità del loro rapporto familiare.
 
Espulsione amministrativa - convivenza con straniero regolarmente soggiornante - inapplicabilità dell’art. 19, co. 2, d.lgs. n. 286/1998 - necessità di tenere conto della natura e dell’effettività del vincolo nell’adottare il provvedimento di espulsione ai sensi dell’art. 13, co. 2-bis, d.lgs. 286 del 1998.
Benché il divieto di espulsione previsto dall’art. 19, co. 2, a favore del coniuge straniero di cittadino italiano non possa essere invocato dallo straniero convivente con persona cittadina di un Paese terzo, regolarmente soggiornante, ai fini dell’adozione della misura espulsiva, deve tenersi conto delle relazioni sociali ed affettive eventualmente instaurate dallo straniero in Italia e dell’eventuale costituzione di un nucleo familiare (Corte di Cassazione, ordinanza 31.8.2022, n. 25653).
La fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento riguardava l’espulsione di uno straniero irregolarmente soggiornante sul territorio che aveva instaurato un rapporto di convivenza con una cittadina straniera in possesso di un regolare permesso di soggiorno. L’espulsione era stata ritenuta legittima dal Giudice di Pace, sulla base dell’osservazione che il divieto di espulsione previsto dall’art. 19, co. 2, d.lgs. n. 286/1998 si riferisce esclusivamente al rapporto con un soggetto di nazionalità italiana.
In merito, la Corte di legittimità conferma la propria giurisprudenza secondo cui il divieto previsto dall’art. 19, co. 2, lett. c) del d.lgs. n. 286 del 1998 riguarda soltanto gli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge di nazionalità italiana, non trovando applicazione in caso di convivenza con un parente o con il coniuge che sia anch’esso straniero, non assumendo alcun rilievo la circostanza che lo stesso sia munito di un regolare permesso di soggiorno. Ciononostante – osserva la Suprema Corte – «l’inapplicabilità del divieto previsto dall’art. 19, comma secondo lett. c., del d.lgs. n. 286 del 1998 non esclude la possibilità di tenere conto, ai fini dell’adozione della misura espulsiva, delle relazioni sociali ed affettive eventualmente instaurate dallo straniero in Italia e dell’eventuale costituzione di un nucleo familiare, anche con un cittadino straniero, nell’ambito della valutazione richiesta dal comma 2-bis dell’art. 13 del d.lgs. n. 286/1998». Tale disposizione deve infatti ritenersi applicabile anche al cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro Paese, ancorché non si trovi nella posizione di richiedente formalmente il ricongiungimento familiare, e ciò conformemente alla nozione di diritto all’unità familiare delineata dalla giurisprudenza della Corte Edu con riferimento all’art. 8 CEDU e fatta propria dalla sentenza n. 202 del 2013 della Corte costituzionale. Per tale ragione, l’ordinanza impugnata viene cassata, non avendo il Giudice di Pace proceduto ad accertare la consistenza del legame instauratosi nell’ambito del nucleo familiare, sia pure in via di mero fatto.
 
Kafalah - visto per ricongiungimento familiare a favore di minore affidato – non contrarietà all’ordine pubblico italiano.
La kafalah, in quanto istituto finalizzato a realizzare l’interesse superiore del minore, non viola i principi dell’ordine pubblico italiano. Sull’eventuale contrarietà all’ordine pubblico per elusione della normativa sull’adozione internazionale, la medesima è comunque da escludere nell’ipotesi in cui il provvedimento straniero costituisce presupposto di fatto di un provvedimento amministrativo di ricongiungimento familiare (Corte d’Appello Salerno, sentenza 26.07.2022, n. 23).
Con la sentenza n. 23/2022, la Corte d’Appello di Salerno (in Banca dati De Jure) è stata chiamata a dichiarare produttiva di effetti nel territorio italiano una decisione dell’Autorità giudiziaria algerina di affidamento in kafalah alla nonna materna di una minore, a fronte dell’impossibilità dei genitori di prendersi cura, istruire ed assistere la figlia. Il procedimento di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giudiziario straniero si è reso necessario dal momento che l’Ambasciata italiana in Algeria aveva subordinato il rilascio del visto di ingresso a favore della minore affidata alla previa delibazione dell’atto da parte dell’autorità giudiziaria italiana. La Corte d’Appello di Salerno, premesso che le decisioni giudiziarie straniere hanno efficacia immediata nel territorio dello Stato italiano in forza del diritto internazionale italiano, riconosce la propria competenza a decidere sulla fattispecie dal momento che la diretta efficacia del provvedimento era di fatto stata messa in dubbio dall’Ambasciata italiana e sorgeva pertanto l’interesse all’accertamento della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento del provvedimento straniero. Ad avviso della Corte territoriale, le finalità di protezione del minore dell’istituto della kafalah, la circostanza che l’istituto fosse previsto da fonti di diritto internazionale quali la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e dalla Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996, n. 6909, unitamente alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, devono indurre a ritenere che il provvedimento di affidamento abbia piena e diretta efficacia nell’ordinamento italiano, ai sensi degli artt. 65 e 66, l. n. 218 del 1995 e della normativa internazionale citata. Quanto alla giurisprudenza di legittimità, la Corte d’Appello ricorda come la stessa abbia escluso la contrarietà all’ordine pubblico per elusione della normativa sull’adozione internazionale, nel caso in cui il provvedimento di affidamento costituisce solo il presupposto di fatto di un provvedimento amministrativo di ricongiungimento familiare. Essendo anche questo il caso sottoposto alla delibazione della Corte d’Appello, quest’ultima ritiene di aderire all’indirizzo di legittimità, riconoscendo piena efficacia al provvedimento straniero di affidamento.
 
MINORI
Minore non accompagnato - conversione del permesso per minore età in permesso per lavoro - rilevanza di circostanze sopravvenute al provvedimento di diniego idonee all’accoglimento dell’istanza di conversione.
«Nella specifica materia dell’immigrazione, il giudizio amministrativo come giudizio sulla situazione giuridica soggettiva e non solo sull’atto impugnato, impone la valutazione degli elementi che si sono effettivamente concretizzati nelle more tra l’istanza presentata, il suo esame da parte dell’amministrazione e il giudizio dinanzi al Giudice, specie quando ci sono gli elementi per il riconoscimento ad altro titolo di soggiorno, perché esse incidono sulla situazione giuridica dell’appellante e la loro mancata valutazione può comprometterla irrimediabilmente, arrecando un pregiudizio a diritti fondamentali della persona umana» (Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 9.9.2022, n. 7875).
Con la sentenza n. 7875/2022, il Consiglio di Stato ha affrontato alcune importanti questioni sia relative al tema della conversione del permesso di soggiorno per minore età al compimento dei diciotto anni da parte del minore straniero, sia relative al diritto dell’immigrazione in generale, sia infine con riferimento al tema del rilievo di circostanze sopravvenute rispetto alla chiusura del procedimento amministrativo.
Quanto al tema dei minori non accompagnati, il Consiglio di Stato ricorda che la mancanza del parere favorevole alla conversione da parte del Comitato per i minori stranieri non accompagnati (rectius, della Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione) non può di per sé sola legittimare il rifiuto della conversione del permesso di soggiorno, dovendo la Questura comunque valutare la sussistenza di elementi idonei a consentire l’accoglimento dell’istanza.
La circostanza che il richiedente la conversione abbia prestato attività di lavoro che non sia stata regolare sul piano fiscale e contributivo non può ostare alla conversione: secondo l’Alto Consesso Amministrativo, dall’evasione fiscale «la Questura non può dedurre, in via automatica e senza alcuna attenta verifica documentale, anche l’inesistenza del reddito risultante da documentazione, la cui autenticità non sia contestata nelle debite sedi e nelle debite forme dalle autorità fiscali (CdS Sez. III n. 1789/2021)». Questa affermazione, come è evidente, ha una portata generale che vale per tutte le ipotesi in cui la sussistenza di un rapporto di lavoro abbia rilievo al fine del mantenimento della regolarità di soggiorno. Le affermazioni più interessanti riguardano, però, il tema della rilevanza delle cd. sopravvenienze e la possibilità per l’Amministrazione e per il Giudice Amministrativo di tenerne conto. Nel caso concreto, lo straniero neomaggiorenne aveva infatti depositato in giudizio la prova di avere lavorato anche dopo il provvedimento di rigetto dell’istanza di conversione. Sul tema delle sopravvenienze il Consiglio di Stato osserva come «la giurisprudenza amministrativa in tema di immigrazione ha talora ritenuto irrilevanti le sopravvenienze. Tale posizione trova conforto in una prospettiva del processo amministrativo inteso come giudizio meramente impugnatorio in cui al centro della valutazione del Giudice sta solo la legittimità dell’atto al momento della sua adozione. In questa prospettiva, il sindacato di legittimità dell’atto si limita alla verifica della ragionevolezza e della proporzionalità della decisione dell’amministrazione secondo quanto conosciuto dalla stessa al momento in cui aveva maturato la propria determinazione. Questa impostazione […] non sempre risulta adeguata alla funzione assegnata al Giudice amministrativo dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo e alla luce della successiva giurisprudenza sovranazionale e interna. Ciò tanto più nelle ipotesi in cui oggetto del giudizio sono diritti fondamentali della persona umana che possono trovare tutela nel quadro di un idoneo bilanciamento con i valori essenziali della sicurezza e della sostenibilità dei flussi migratori». Da queste premesse, secondo il Consiglio di Stato, discende che «nella specifica materia dell’immigrazione, il giudizio amministrativo come giudizio sulla situazione giuridica soggettiva e non solo sull’atto impugnato, impone la valutazione degli elementi che si sono effettivamente concretizzati nelle more tra l’istanza presentata, il suo esame da parte dell’amministrazione e il giudizio dinanzi al Giudice, specie quando ci sono gli elementi per il riconoscimento di altro titolo di soggiorno perché esse incidono sulla situazione giuridica dell’appellante e la loro mancata valutazione può comprometterla irrimediabilmente, arrecando un pregiudizio a diritti fondamentali della persona umana. L’Amministrazione, pertanto, nell’esercizio del suo potere deve tenere in debito conto le circostanze sopravvenute che, anche se non conoscibili perché non esistenti al momento dell’adozione dell’atto, comunque hanno modificato la situazione giuridica dell’appellante e potrebbero […] condurre ad una nuova valutazione ed un differente esito procedimentale».