Cittadinanza e apolidia

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Anche nel quadrimestre qui preso in considerazione (gennaio-aprile 2022) non mancano pronunce che toccano i consueti temi che scandiscono questa rassegna. Tuttavia, poiché alcune pronunce di sicuro interesse “affiorano” con un certo ritardo riguardo ai tempi di pubblicazione dei fascicoli della Rivista, in questa occasione, come già in passato, saranno esaminate anche alcune decisioni pubblicate negli ultimi quattro mesi del 2021. Ad uno sguardo complessivo appaiono sempre molteplici e di contenuto variegato le pronunce derivanti dalla pretesa discendenza da avi, emigrati soprattutto in Brasile, con qualche nuovo caso al di fuori di tale perimetro territoriale.
Ad esse si affiancano altre sull’acquisto della cittadinanza per nascita, ma ispirate al criterio dello ius soli.
Nell’ambito di quelle relative all’acquisto per matrimonio merita di essere segnalata una inusuale decisione sull’applicazione retroattiva ed estensiva di una norma “odiosa” della legge organica del 1912; mentre nell’ambito delle decisioni relative all’acquisto per elezione si ripropongono i noti problemi concernenti il mancato accertamento, da parte dei Comuni interessati, relativo al trasferimento dell’individuo.
Sempre affollato si mostra il panorama attinente le naturalizzazioni, con esiti giurisprudenziali di contenuto alterno sui molteplici temi affrontati, ma all’interno del quale vengono ribaditi i consueti canoni sul riparto di giurisdizione tra il giudice ordinario e quello amministrativo. Merita di essere indicata anche una pronuncia del Consiglio di Stato assai severa verso i ritardi del Ministero nella definizione dei procedimenti e le statuizioni sulle spese processuali.
Oggetto di minuziose indagini risultano infine, come di consueto, le decisioni in materia di apolidia.
 
Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano
a) Cittadini emigrati in Brasile e destinatari dei provvedimenti di naturalizzazione collettiva emessi dall’autorità di quello Stato nel 1889. Facoltà di rinuncia a tale cittadinanza ai fini del mantenimento della cittadinanza italiana. Suo mancato esercizio. Effetti. b) Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da cittadini italiani emigrati all’estero. c) Rifiuto di trascrizione dell’atto di nascita e conseguente cittadinanza; richiesta di tutela al giudice ordinario. d) Necessità ai fini suddetti della residenza anagrafica in Italia; esclusione. e) Incidenza di alcune norme sullo stato civile sulla trascrizione di atti formati all’estero. f) Richiesta all’ufficiale di stato civile di immediata trascrizione di una decisione favorevole senza attenderne il passaggio in giudicato; statuizione sulle spese. g) Perdita della cittadinanza da parte del genitore durante la minore età del figlio. Effetti.
Tornano in discreta quantità le richieste di accertamento della cittadinanza italiana da parte di cittadini brasiliani discendenti da avi emigrati in Brasile, alcuni dei quali alla fine del 1800: in un’epoca cioè nella quale le nostre norme sulla cittadinanza erano contenute nella parte iniziale del c.c. del 1865. Nell’ambito delle diverse prese di posizione assunte dalla Corte d’appello di Roma, e senza attendere una pronuncia risolutiva della Corte di cassazione auspicata dal Ministero dell’interno (riguardo ad entrambi questi aspetti cfr. questa Rassegna, fasc. 1.2022), la suddetta Corte territoriale è intervenuta nuovamente riguardo agli effetti della naturalizzazione collettiva degli stranieri residenti, disposta dal governo brasiliano con un decreto del 1889: quest’ultimo prevedeva per costoro la facoltà di opporsi a tale acquisto tramite una apposita dichiarazione resa alle autorità del proprio Comune di pregressa residenza e (solo in un secondo tempo, in base a un successivo e altrettanto sconosciuto decreto brasiliano) anche davanti al Console del proprio Stato.
Questa volta i giudici romani, dopo aver giustamente inquadrato questa situazione come un caso di naturalizzazione forzata, non hanno esitato ad escludere che la mancata dichiarazione di rinuncia integrasse un’ipotesi di perdita della cittadinanza italiana per acquisto volontario di uno status civitatis straniero ex art. 11 del c.c. 1865. In particolare, hanno affermato che la forma tacita si esplica in un comportamento incompatibile con una volontà diversa da quella che si deduce dai fatti stessi e che tale inequivoca volontà non può ravvisarsi nel comportamento di chi omette di rendere la prescritta dichiarazione presso l’Ufficio consolare. Per di più, il legislatore brasiliano, nel caso di specie, non aveva previsto alcuna rinuncia alla propria cittadinanza da parte degli interessati, facendo piuttosto ricadere gli effetti della naturalizzazione direttamente da un atto d’imperio, seppur subordinato alla successiva scadenza del termine semestrale, entro cui sarebbero dovute intervenire le previste dichiarazioni contrarie. Qualora esse non fossero state fornite, non era stato infatti previsto alcun effetto abdicativo, ma piuttosto il mero effetto dell’avveramento della condizione sospensiva alla quale, dopo lo scadere dei sei mesi previsti, era stata subordinata l’efficacia del decreto governativo. Dunque, la mancata dichiarazione di voler conservare quella italiana assumeva rilievo non ai fini della dismissione dello status di suddito del Regno d’Italia, bensì sul piano della successiva acquisizione della cittadinanza brasiliana ( Corte app. Roma, sent. 4.3.2022 ).
 
Sempre in tema di cittadini italiani emigrati in Brasile risulta più lineare la situazione dei discendenti da tale categoria di individui, in possesso di debite certificazioni comprovanti un ricco albero genealogico e soprattutto il possesso della cittadinanza italiana, spesso in capo ad un ascendente di sesso femminile nei confronti della quale vengono richiamate – com’è ormai risaputo – le due sentenze costituzionali n. 87/1975 e n. 30/1983 secondo una sequenza ben nota ai lettori di questa Rassegna.
In tal senso si è pronunciato un giudice di merito, al termine di un’analisi che coinvolgeva non solo le norme italiane del 1865 ma anche quelle brasiliane, accogliendo le richieste di una giovanissima ricorrente ( Trib. Brescia, ord. 31.1.2022 ).
 
A volte tuttavia un simile percorso si rivela complicato, soprattutto quando la decisione trae origine da un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di trascrivere un certificato o comunque i documenti comprovanti lo status civitatis italiano del ricorrente.
Così, in un primo caso, la Corte d’appello di Torino ha svolto per così dire attività di supplenza nei confronti di un atteggiamento negativo del giudice di merito, il quale aveva appunto respinto la pretesa del ricorrente ad una adeguata trascrizione di un accertamento della cittadinanza italiana, pur compiuto dal Comune che aveva poi opposto tale rifiuto giustificando poi tale inerzia con una pretesa moltitudine di domande o con sopraggiunte denunce penali a carico dell’interessato. Ineccepibili le motivazioni della Corte nel respingere entrambi i motivi addotti considerandoli ininfluenti. Restano però da comprendere i motivi sottostanti all’atteggiamento del Tribunale il quale – consapevolmente o inconsapevolmente – aveva avallato il comportamento esitante del Comune ( Corte app. Torino, decreto 24.2.2022 ).
 
Ancora nel campo delle domande di accertamento della cittadinanza in base alla discendenza da avi italiani (anche in questo ennesimo caso emigrati in Brasile) la Corte d’appello di Milano è intervenuta ad intaccare un principio consolidato nella prassi, in quanto risalente alla nota circolare del Ministero dell’interno n. K.28.1 emessa l’8.4.1991: dunque, a ridosso dell’entrata in vigore della attuale legge organica. In base ad esso, ai fini di ottenere in via giudiziale l’accertamento suddetto è necessario che i richiedenti risiedano in Italia. A tale circolare aveva fatto riferimento il Tribunale per respingere il ricorso, avendo appunto verificato la mancata iscrizione anagrafica in Italia degli aspiranti cittadini. Viceversa, ad avviso dei giudici di appello, il suddetto requisito non è contemplato né dalla legge organica né da alcuna norma di rango secondario; di qui la dichiarazione di cittadinanza a favore della ricorrente e dei suoi figli ( Corte app. Milano, ord. 2.3.2022 ).
 
Nella decisione testé citata viene altresì succintamente ricordata la possibilità, in questi casi, di chiedere il suddetto riconoscimento al Consolato italiano all’estero. A tale riguardo, ben più dettagliata appare una pronuncia resa in un giudizio di primo grado, sia pure in una fattispecie nella quale non era stato formato all’estero alcun atto italiano di nascita che ne provasse contestualmente lo status civitatis. In tale occasione il Tribunale esamina numerose norme del regolamento dello stato civile per dedurne che la trascrizione di questo genere di atti in Italia è possibile solo a seguito di una idonea certificazione formata all’estero, ovvero da parte dell’autorità italiana. Sempre alla stregua delle norme contenute nel d.p.r. n. 396/2000, integrate da un parere del Consiglio di Stato del 2019, viene poi in particolare richiamato l’art. 10 co. 1, il quale prevede un archivio informatico di tutti gli atti formati nel Comune o comunque «relativi a soggetti residenti in Italia» riguardanti tra l’altro anche la cittadinanza ( Trib. Treviso, decreto 4.1.2022 ).
 
A proposito di questo filone giurisprudenziale, già nella precedente Rassegna (fasc. 1.2022) ci si è soffermati sulla pretesa di alcuni neo-cittadini di ottenere la trascrizione delle pronunce di accertamento del relativo status prima che queste passassero in giudicato. Tali richieste sono continuate.
Favorevole al loro accoglimento si mostra il Tribunale di Genova, il quale considera le decisioni in esame come vere e proprie pronunce di condanna ex art. 702-ter c.p.c., richiamando anche una sentenza della Cassazione, relativa comunque alla esecuzione provvisoria della condanna alla restituzione di un immobile, a seguito della pronuncia di nullità del sottostante contratto traslativo ( Trib. Genova, decreto 25.2.2022 ).
 
Di tenore totalmente opposto risulta invece una decisione della Corte d’appello di Venezia, la quale era stata investita da un ricorso relativo ad un precedente decreto del Tribunale di Rovigo, pubblicato il 25.10.2021. Quest’ultimo aveva dichiarato cessata la materia del contendere a causa del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della cittadinanza nelle more del processo, ma aveva comunque condannato l’attore alle spese processuali anche a favore delle controparti.
Nel confermare la condanna alle spese a favore del Ministero dell’interno, aggravata dalla ulteriore condanna alle spese per il processo di appello, e richiamando una diversa sentenza della Corte di cassazione, la Corte veneziana chiarisce altresì che la esecutività del capo della pronuncia contenente l’ordine di trascrizione presuppone il previo passaggio in giudicato della statuizione costitutiva, ovvero del capo relativo all’accertamento della cittadinanza ( Corte app. Venezia, decreto 15.2.2022 ).
 
Ed ancora in tema di applicazione di norme risalenti, suscita qualche perplessità una sentenza della Corte d’appello di Roma, relativa ai discendenti di una cittadina italiana emigrata negli Stati Uniti dove, successivamente alla nascita della figlia, si era naturalizzata nel 1938 cittadina americana. Viceversa, il padre, anch’esso cittadino italiano, aveva a sua volta acquistato la cittadinanza statunitense prima della nascita della figlia: quindi, secondo i giudici, «non aveva potuto trasmettere la cittadinanza italiana». Non è rinvenibile alcun cenno all’applicazione dell’art. 1, co. 2 della l. 13.6.1912, n. 555, ovviamente all’epoca vigente, il quale già all’epoca consentiva ai figli di padre straniero e madre italiana di acquistare la cittadinanza di quest’ultima: ricorrenti e giudici mostrano di ignorarne l’esistenza, invocando invece la sentenza costituzionale n. 30 del 1983, qui irrilevante. Piuttosto, la Corte si sofferma a lungo su un presunto intreccio tra l’art. 12 e l’art. 7 della medesima legge n. 555. Il primo disponeva al co. 2 la perdita della cittadinanza italiana a carico dei figli minori conviventi qualora il genitore la perdesse purché essi possedessero (o acquistassero insieme al genitore) la cittadinanza di uno Stato straniero. Ai sensi della seconda norma, il cittadino italiano nato e residente in uno Stato estero, dal quale fosse ritenuto proprio cittadino per nascita, conservava la cittadinanza italiana (salvo rinunzia una volta divenuto maggiorenne). Si tratta di due ipotesi normative ben distinte, delle quali la prima è quella che si attaglia al caso esaminato, dato che la minore aveva effettivamente acquistato alla nascita anche la cittadinanza statunitense iure soli: era così esclusa l’apolidia di quest’ultima a seguito della perdita di quella italiana in concomitanza con la perdita da parte del genitore.
 
Viceversa, la Corte romana, seguendo le linee interpretative proposte dalla difesa degli interessati, privilegia l’applicazione dell’art. 7 dimenticando che in questa fattispecie prevale l’art. 12, proprio perché assume un ruolo prioritario; l’art. 7 avrebbe potuto invece dispiegare i suoi effetti solo se l’interessata avesse potuto conservare sino alla maggiore età entrambi gli status civitatis. Al contrario, l’applicazione esclusiva di questa norma permette ai giudici di concludere a favore della persistente qualifica di cittadino italiano, in mancanza della rinunzia ivi prevista al raggiungimento della maggiore età ( Corte app. Roma, 30.11.2021, n. 7950 ).
 
Acquisto della cittadinanza iure soli alla nascita o durante la minore età: rinvenimento di minori nel territorio italiano; effetti anche a distanza di tempo
Com’è noto, l’art. 1, co. 1 della l. 5.2.1992 n. 91 prevede alla lett. b) l’acquisto della cittadinanza italiana nel caso di nascita sul territorio da genitori entrambi ignoti o apolidi, o la cui legge non preveda la c.d. trasmissione del proprio status civitatis. A sua volta il co. 2 attribuisce la cittadinanza italiana per nascita al figlio di ignoti “trovato” nel suddetto territorio e privo di possesso di altra cittadinanza.
A queste norme fanno riferimento due pronunce che si occupano di minori in stato di abbandono. La prima riguarda una minore di origine slovena sprovvista dell’atto di nascita, mai formato in quanto partorita all’interno di una roulotte di un campo di nomadi, da sempre residente in una comunità e mai riconosciuta dalla presunta madre biologica. Da qui la dichiarazione della cittadinanza italiana (con un cenno sovrabbondante nel dispositivo all’art. 4 co. 2 della legge organica ( Trib. Brescia, ord. 20.11.2021 ).
 
Una ulteriore decisione per molti versi analoga traeva origine dal rifiuto dell’ufficiale di stato civile di iscrivere nel registro di cittadinanza un individuo trovato sul territorio italiano all’età di 12 anni nella condizione di figlio di genitori ignoti; a tale causa andava ascritta la dichiarazione del suo status di apolide. Muovendo dalla – errata – indicazione circa l’esclusiva applicazione dell’art. 9 al caso di specie fornita dall’ufficiale di stato civile e avallata dal Ministero dell’interno, il Tribunale svolge un ampio esame di questa norma e dell’art. 1 ricordato all’inizio, distinguendo altresì tra le posizioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo ad essi rispettivamente correlate. Ricorda poi che spetta al funzionario suddetto il compito di accertare l’esistenza dei requisiti contemplati dal citato art. 1 ricordando sia l’iter previsto a tale riguardo dall’art. 38 del regolamento dello stato civile sia dall’art. 16 co. 1 del regolamento di esecuzione della l. n. 91 contenuto nel d.p.r. n. 572/1993; e conclude – ovviamente – con il riconoscimento dell’acquisto della cittadinanza italiana in capo al ricorrente ( Trib. Napoli, ord. 2.3.2022 ).
 
Acquisto della cittadinanza per elezione: mancata presa d’atto del trasferimento di residenza dell’interessato
Sempre più rare risultano le sentenze relative all’applicazione dell’art. 4, co. 2 dopo l’introduzione dell’art. 33 del d.l. n. 69 del 2013, recante anche l’obbligo dell’ufficiale di stato civile di avvisare a tempo debito gli interessati circa questo modo di acquisto volontario ma contemporaneamente automatico, una volta accertata la volontà suddetta al raggiungimento della maggiore età.
Talvolta però possono prospettarsi ostacoli burocratici, ad esempio a seguito del trasferimento della residenza dell’interessato da un Comune ad un altro durante il periodo rilevante ai fini della dichiarazione.
Ne costituisce prova la fattispecie esaminata da un giudice di merito nella quale le due Amministrazioni locali non avevano per così dire sufficientemente dialogato. Da qui l’intervento “in supplenza” del giudice, il quale ha altresì ritenuto ininfluenti alcuni brevi periodi di irreperibilità dell’interessato alla luce della sua condizione di nomade ( Trib. Roma, ord. 8.2.2022 ).
 
Su analoghi problemi di iscrizione anagrafica in Italia si fonda una ulteriore pronuncia, la quale ripercorre l’intero iter applicativo dell’art. 4 in esame. Anche in questa occasione il giudice rammenta la possibilità di dimostrare con ogni mezzo l’imprescindibile requisito attinente alla residenza in Italia, dalla nascita sino al compimento della maggiore età. Per di più, avvalendosi dei poteri officiosi ex art. 702-ter c.p.c., il giudice procede ad una autonoma acquisizione di testimonianze al riguardo che tale residenza confermano, giungendo così alla dichiarazione della cittadinanza italiana in capo all’istante ( Trib. Brescia, ord. 8.3.2022 ).
 
Acquisto della cittadinanza per matrimonio
a) Verifica del rilievo dei reati ascritti. b) Incidenza della prescritta conoscenza della lingua italiana. c) Applicazione retroattiva ed estensiva di una norma della legge del 1912, già oggetto di dubbia legittimità costituzionale
In questo specifico settore meritano di essere segnalati tre provvedimenti, di cui l’ultimo risulta francamente inusuale.
Anzitutto, il Tribunale di Brescia è stato chiamato a pronunciarsi sulla illegittimità di un provvedimento prefettizio che rigettava la domanda di attribuzione della cittadinanza a causa di presunti reati a carico dello straniero richiedente. Esemplare si dimostra il percorso argomentativo del giudice, il quale – una volta accertata la sussistenza di un valido rapporto coniugale – constata che sono state presentate due domande alternative in via principale, riguardanti l’una la declaratoria di illegittimità del diniego della prefettura di Brescia e l’altra l’accertamento del diritto del ricorrente ad ottenere la cittadinanza italiana e dichiara, quanto alla prima, la propria carenza di giurisdizione. Viceversa, trattandosi perciò di verificare solo la presenza di reati, il Tribunale afferma la propria competenza giurisdizionale richiamando sia l’art. 19-bis del d.lgs. n. 150/2011, attinente al rito delle controversie in materia di cittadinanza devolute al giudice ordinario, il quale utilizza il concetto di «accertamento dello stato di cittadinanza» e non di impugnazione o opposizione; sia una ulteriore, recente sentenza della Corte di cassazione (SU, n. 1053/2022 su cui infra) che ribadisce il proprio orientamento in tema di riparto di giurisdizione. La susseguente verifica dell’archiviazione dei reati suddetti conduce all’accoglimento della domanda ( Trib. Brescia, ord. 14.4.2022 ).
 
Maggiormente delicato si prospettava invece un analogo ricorso al medesimo Tribunale da parte della moglie straniera di un cittadino naturalizzato italiano contro il decreto prefettizio con cui era stata dichiarata la «improcedibilità» della domanda di attribuzione della cittadinanza italiana a causa della scarsa conoscenza della lingua italiana: dunque, del requisito previsto dall’art. 9.1, introdotto dalla l. n. 132/2018. Anche in questo caso il giudice premette la propria incompetenza giurisdizionale in relazione alla declaratoria di illegittimità del decreto citato, ma afferma la sussistenza della propria giurisdizione sulla sottostante domanda di accertamento della cittadinanza, non ricorrendo l’ipotesi prevista dall’art. 6, co. 1 lett. c) della legge organica, relativa ai comprovati motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica. Dopo aver accertato che al momento della presentazione della domanda di cittadinanza non era ancora stato introdotto il requisito della adeguata conoscenza della lingua italiana di cui all’art. 9.1; che, peraltro, la verifica di tale requisito non dipende dalla valutazione discrezionale della PA, bensì dal possesso del titolo di studio; e che la asseritamente non adeguata conoscenza della lingua italiana era stata affermata da un dipendente del Ministero dell’interno cui non compete tale valutazione, il ricorso viene accolto ( Trib. Brescia, ord. 1.2.2022 ).
 
Come sopra accennato, risulta poi per certi versi inaspettata la domanda rivolta al Tribunale di Roma da parte di un cittadino straniero coniugato con una cittadina italiana nel 1972: in un’epoca in cui, vigente la precedente legge organica n. 555 del 1912, l’art. 10, co. 2 prevedeva l’acquisto automatico della cittadinanza italiana per la moglie straniera di cittadino italiano, senza possibilità di opporsi, come retaggio di una concezione della condizione deteriore della donna sottoposta, in omaggio all’unicità dello statuscivitatis all’interno della famiglia, a questa imposizione.
Ed è vero che questa norma non è mai stata dichiarata incostituzionale a causa del sopraggiungere della l. 21.4.1983, n. 123. Tuttavia, va altresì ricordato che la Corte costituzionale, investita anche in passato da questioni relative ad analoghe richieste da parte di mariti desiderosi di ottenere la cittadinanza italiana senza dover soddisfare alcun requisito, aveva respinto per motivi procedurali la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, co. 2, della l. n. 555/1912 con la sentenza 31.12.1982, n. 256; aveva contestualmente sollevato davanti a sé la questione di legittimità costituzionale con l’ordinanza n. 258 emessa in pari data per violazione degli artt. 3 e 29 della Costituzione; ed aveva infine ancora respinto il dubbio di legittimità costituzionale della norma proprio relativo al mancato acquisto automatico della cittadinanza da parte del marito nell’ordinanza 27.4.1988 n. 490, ancorando nettamente l’estensione del principio di eguaglianza agli stranieri alla violazione di un diritto fondamentale e non ritenendo tale l’acquisto della cittadinanza; soprattutto, si potrebbe aggiungere, quando non viene in rilievo a tutela contro l’apolidia.
Dal canto suo, il Tribunale, pur mostrando di conoscere il contenuto di quest’ultima ordinanza ed escludendo anch’esso la presenza di un diritto fondamentale alla cittadinanza, evoca ripetutamente il principio di eguaglianza a favore del marito, ricavandolo anche dalla sentenza costituzionale n. 87/1975 che, in forza di tale principio, censurava gli automatismi a danno della moglie. Esso introduce così una lettura particolare della norma, per di più con effetti retroattivi ed estensivi, a più riprese respinta dalla Corte costituzionale, malgrado tale lettura sia definita dal giudice come costituzionalmente orientata sulla base di nuove sollecitazioni cui sono esposte nella società attuale le categorie di pensiero. ( Trib. Roma, ord. 18.3.2022 ).
D’altra parte, neppure questa interpretazione non sembra giustificabile alla luce della discriminazione che oggi crea tra i coniugi stranieri che possono avvalersi di questo presunto effetto retroattivo e quelli che invece devono soddisfare gli odierni requisiti ai fini dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio.
 
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione
a) Pronuncia delle Sezioni Unite sul riparto di giurisdizione tra autorità giudiziaria ordinaria e giudice amministrativo. b) Cessazione della materia del contendere e statuizioni sulle spese processuali. c) Contiguità dell’istante con movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica. d) Rilievo dei precedenti penali. Differenza tra la loro estinzione e la riabilitazione. Procedimento di archiviazione e scadenza dei termini per la definizione della naturalizzazione. Esigenza di idonee istruttoria e motivazione nei confronti di precedenti penali di lieve entità.
Nell’usuale panorama variegato delle decisioni che traggono origine dal diniego del Ministero dell’interno davanti a richieste di concessione della cittadinanza in base al procedimento di naturalizzazione è emersa un’altra pronuncia delle Sezioni Unite sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo che conferma l’orientamento della di poco precedente pronuncia delle medesime sezioni (ord. 21.10.2021 n. 29297 in questa Rassegna, fasc. 1.2022). Anche in questa occasione il ricorrente per regolamento di giurisdizione fondava la competenza del giudice ordinario sia sull’art. 3, co. 2 del d.l. 17.2.2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla l. 13.4.2017, n. 46, osservando che tale disposizione, nell’attribuire alle sezioni specializzate in materia di immigrazione la competenza in ordine alle controversie in materia di accertamento dello stato di cittadinanza italiana, non opera alcuna distinzione tra quelle spettanti all’autorità giudiziaria ordinaria e quelle devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo; per di più, tale interpretazione troverebbe conferma nell’art. 19-bis del d.lgs. 1.9.2011, n. 150, il quale assoggetta le controversie in esame al rito sommario di cognizione, applicabile esclusivamente dinanzi al giudice ordinario.
Dal canto loro, le Sezioni Unite iniziano soffermandosi su testo e ratio dei tre gruppi di norme in base alle quali possono essere suddivise le norme relative all’acquisto della cittadinanza: ovvero, gli articoli sull’acquisto automatico (art. 1-3 e art. 14); quelli in cui si richiede un’apposita dichiarazione di volontà dell’interessato (art. 4), ed altri ancora in cui è invece necessaria anche una specifica valutazione e determinazione amministrativa (art. 9). Riguardo al terzo gruppo di norme, relativamente al quale si parla di acquisto per concessione, si richiede in particolare una valutazione più ampia e complessa, avente ad oggetto non solo la verifica della sussistenza dei requisiti indicati dalla legge, ma anche la ponderazione dell’interesse del richiedente all’acquisizione della cittadinanza con quello pubblico al suo accoglimento nella comunità nazionale. Da qui la qualifica di interesse legittimo in capo all’individuo anziché di diritto soggettivo come accade per le fattispecie contemplate nei primi due gruppi.
Viene poi riconosciuta come fattispecie più complessa ed in qualche modo intermedia quella individuabile nell’acquisto della cittadinanza iuris communicatione da parte del coniuge straniero o apolide del cittadino italiano (artt. 5 e 6).
Con particolare riferimento alle ipotesi previste dall’art. 9, è invece pacifico che la determinazione spettante all’Amministrazione non ha carattere vincolato ma discrezionale, implicando un apprezzamento complesso, nell’ambito del quale l’interesse dell’istante ad ottenere la cittadinanza deve necessariamente coniugarsi con quello generale: il riconoscimento della cittadinanza, traducendosi nell’inserimento a pieno titolo dello straniero nella collettività nazionale, con l’acquisizione di tutti i diritti e l’assunzione degli obblighi che competono ai suoi membri, implica infatti l’attribuzione di uno status di particolare rilievo pubblicistico, ai fini del quale è necessaria una complessa valutazione di opportunità.
Costituisce ormai ius receptum la devoluzione al giudice amministrativo delle controversie in materia di acquisto della cittadinanza italiana per concessione. Né questo quadro normativo può essere ritenuto sostanzialmente mutato per effetto del d.l. n. 13 del 2017, che ha istituito, presso i Tribunali ordinari del luogo nel quale hanno sede le Corti d’appello, le sezioni specializzate, attribuendo alle stesse, tra l’altro, la competenza per le «controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia e dello stato di cittadinanza italiana» (art. 3, co. 2), assoggettando poi tali controversie al rito sommario di cognizione. Le relative disposizioni non recano infatti alcun cenno al riparto di giurisdizione nelle controversie in materia di cittadinanza, limitandosi ad individuare il giudice competente, per quelle spettanti alla giurisdizione ordinaria, e la normativa processuale applicabile alle medesime controversie, senza modificare il criterio generale di ripartizione della giurisdizione enunciato dalla giurisprudenza in materia sulla base dei principi costituzionali e della disciplina della cittadinanza. La volontà del legislatore di non incidere su tale aspetto emerge d’altronde evidente dalla lettura della relazione di accompagnamento della legge di conversione del d.l. n. 13 del 2017, la quale precisa che si è inteso accentrare nelle sezioni specializzate la competenza per i soli procedimenti «rientranti nella giurisdizione ordinaria», senza modificare neppure in tale settore il riparto tra la stessa e quella amministrativa; in riferimento poi all’art. 7, viene poi chiarito che si è voluto soltanto coordinare le disposizioni del d.lgs. n. 150/2011 con la nuova disciplina processuale delle controversie in materia di protezione internazionale, richiamando esplicitamente i criteri di ripartizione della giurisdizione risultanti dal diritto vivente (Cass., SU, ord. 14.1.2022 n. 1053).
 
Tra le altre pronunce relative all’art. 9 della l. n. 91/1992 ci si limita a segnalare anzitutto quelle relative alla cessazione della materia del contendere, che normalmente sopraggiunge allo scadere, o una volta scaduto, il pur ampio termine per la definizione del procedimento in esame. Come già rilevato ad altro riguardo (v. supra, Corte app. Venezia, decreto 15.2.2022), le controversie vertono anche sulle statuizioni sulle spese, rispettano alle quali i Tribunali amministrativi ordinano la compensazione, malgrado le richieste di contenuto contrario dei ricorrenti.
A questa linea di condotta si attiene il Tar del Lazio, il quale, investito da ricorsi che lamentano il silenzio-inadempimento serbato dal Ministero dell’interno in merito alle loro richieste, constatando che nelle more è stato emesso il decreto di concessione della cittadinanza ex art. 9, c0. 1, lett. f), adduce vari motivi di giustificazione per giungere a prescrivere la compensazione suddetta.
In tale prospettiva, è stato talvolta affermato (evocando evidentemente anche il periodo pandemico) che le spese possono essere compensate tenendo conto del termine di 48 mesi applicabile al procedimento e dell’ulteriore sospensione di 82 giorni di tutti i termini per effetto del combinato disposto dell’art. 103 del d.l. 7.3.2020, n. 18 (convertito con modificazioni dalla l. 24.4.2020, n. 27) e dell’art. 37 del d.l. 8.4.2020, n. 23 (convertito con modificazioni dalla l. 5.6.2020, n. 40) che ha infatti sospeso tutti i termini dei procedimenti pendenti al 23 febbraio 2020 (o iniziati successivamente a questa data) per tutto il periodo intercorrente tra il 23 febbraio 2020 e il 15 maggio 2020, fatta eccezione per il contributo unificato che il Ministero dovrà versare al difensore dichiaratosi antistatario (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 12.1.2022, n. 319).
 
In una analoga occasione il medesimo Tribunale, sempre nell’intento di motivare adeguatamente la medesima statuizione, aveva richiamato la grande mole di lavoro gravante sugli uffici a causa del rilevante numero di richieste di cittadinanza italiana; ciò, ad avviso del Collegio, costituisce una ulteriore causa di eccezionalità che giustifica la compensazione delle spese di giudizio, anche alla luce della pronuncia costituzionale n. 77/2018 (che, con riferimento all’art. 92 c.p.c., aveva dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale del comma secondo della norma citata nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni). Riguardo al contributo unificato, essendo comunque trascorsi più di 48 mesi dalla presentazione dell’istanza, era stata riconosciuta la soccombenza virtuale dell’Amministrazione in favore della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, co. 6-bis.1, del d.p.r. n. 115/2002 (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 12.1.2022, n. 263).
 
A questa prassi giurisprudenziale reagisce tanto (per certi versi) inaspettatamente quanto provvidenzialmente il Consiglio di Stato. Richiamando un proprio precedente (le cui coordinate risultano purtroppo oscurate), esso ricorda che le peculiari condizioni operative dell’Amministrazione in questa materia sono già «incorporate» nel termine «lungo» (pari a ben 730 giorni, ex art. 3 del d.p.r. n. 362 del 18.4.1994) entro il quale devono concludersi i procedimenti in esame, con una evidente deroga, rispetto ai termini (da 30 a 180 giorni) contemplata dall’art. 2 della l. n. 241/1990. Perciò, la giustificazione relativa alle condizioni di surmenage operativo dell’Amministrazione, anche solo ai fini del regolamento delle spese di giudizio, si tradurrebbe in una duplicazione ingiustificata e sproporzionata del favor ad essa riservato dal legislatore, in vista delle difficoltà operative in cui versa: dunque, in un ingiusto pregiudizio per i soggetti interessati.
In effetti, l’affermata congestione degli uffici amministrativi a cagione di un numero esorbitante di pratiche da sbrigare – così come delineata dal giudice di primo grado – si risolve in una formula di stile, del tutto generica, sganciata da riferimenti specifici e concreti a situazioni contingenti, potenzialmente spendibile in modo indifferenziato per qualunque ipotesi di attività amministrativa e, come tale, sostanzialmente elusiva dell’obbligo di adeguata esternazione della eccezionalità e gravità dei motivi derogatori, richiesta dall’art. 92 c.p.c. (Cons. St., sez. III, sent. 2.2.2022, n. 719).
 
Altre pronunce si occupano invece di dinieghi di cittadinanza fondati su una presunta contiguità dell’istante con movimenti «aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica». Assume rilievo a tale proposito il principio (più volte ribadito), relativo alla natura riservata e segreta della documentazione attinente a tali casi, anche se spesso il Tribunale adito pretende dal Ministero dell’interno una relazione attestante – nei limiti del possibile – l’esistenza di tali situazioni. Una volta soddisfatta tale esigenza, il giudice ritiene normalmente sufficiente la motivazione del provvedimento impugnato, che pur deve sussistere (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 4.1.2022, n. 48).
 
Mentre nei suddetti casi si prescinde da eventuali comportamenti di rilevanza penale, il contenuto prevalente delle pronunce emesse nel presente ambito riguarda, com’è evidente, l’incidenza di condanne penali o comunque di fatti penalmente rilevanti.
A volte la decisione di rigetto dell’istanza da parte del Ministero dell’interno viene concisamente approvata sottolineando, ad esempio, il diverso risalto che assume l’estinzione del reato rispetto alla riabilitazione e giustificando il provvedimento negativo del Ministero poiché quest’ultima è intervenuta dopo l’emanazione del provvedimento stesso (Cons. St., sez. III, sent. 7.1.2022, n. 104).
 
Altre volte si giunge alla medesima approvazione condividendo la mancata attesa, da parte del Ministero, per l’emanazione di un provvedimento di archiviazione (già in corso) del reato alla luce della «improcrastinabile necessità» di definire il procedimento per la concessione della cittadinanza italiana, in quanto risulta decorso il termine di 730 giorni dalla data di presentazione dell’istanza, previsto dall’art. 3 del d.p.r. 18.4.1994, n. 362. (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 19.1.2022, n. 590).
 
Affiorano però anche dei casi in cui tale preoccupazione non sembra sussistere, allorché il Ministero procede d’ufficio ad un supplemento dell’attività istruttoria, la quale peraltro conferma il rifiuto della concessione, anche se fondato su (semplici) notizie di reato, in base ad una valutazione complessiva della personalità dell’istante (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 28.3.2022, n. 3471).
 
Qualora una simile attività istruttoria appaia carente, il Consiglio di Stato non esita a censurare il provvedimento impugnato, pur giustificando la circostanza che le notizie di reato non riguardino direttamente l’appellante ma il coniuge e i figli dell’interessata. Ad avviso dei Consiglieri, non viene qui in rilievo un giudizio di disvalore funzionale all’esercizio di una pretesa punitiva, nell’ambito del quale indubbiamente la relativa responsabilità deve essere declinata su base rigorosamente personale, bensì una prognosi di affidabilità e di meritevolezza del singolo cittadino extracomunitario ad essere stabilmente inserito all’interno della comunità nazionale che si fonda sulla condivisione di principi e valori. D’altro canto, e guardando addirittura al futuro, la concessione dello status civitatis al coniuge costituisce un possibile ostacolo alla espulsione ex art. 19, co. 2 lett. c) del d.lgs. n 286/1998. Queste premesse non incidono però sul dettagliato giudizio negativo di acritico recepimento di informazioni e semplici notizie di reato che il Consiglio di Stato esprime nei confronti della sentenza impugnata (Cons. St., sez. III, sent. 10.3.2022, n. 1718).
 
Accertamento dell’apolidia
I provvedimenti che si rinvengono in questo settore attengono generalmente a vicende di vita assai complicate. Tale era la situazione di un individuo nato da genitori palestinesi in Libano, Stato nel quale, in base alla normativa ivi vigente e nei territori amministrati dall’autorità nazionale palestinese, al pari di quanto accade in tutti i Paesi islamici, il figlio segue la condizione giudica del padre; dunque, egli aveva ottenuto un passaporto rilasciato dalla suddetta autorità, potendo soggiornare in Libano solo in forza di permessi di soggiorno provvisori rilasciati dalle competenti autorità libanesi, rinnovati annualmente. D’altro canto, la sua nascita non era mai stata registrata dal padre presso l’autorità medesima in quanto il padre non era, allora, autorizzato a recarsi a Gaza, dove era nato e dove avrebbe dovuto effettuare la registrazione. L’interessato era stato comunque detentore di un passaporto palestinese, di derivazione paterna, fino a quando non aveva lasciato il Libano per trasferirsi in Italia per motivi di studio, conseguendo un diploma di master in una Università milanese. In seguito, i suoi titoli di soggiorno erano divenuti precari o inesigibili. Di qui la richiesta di accertamento dello status di apolide.
Anche in questa occasione, il giudice investito di tale domanda, dopo aver dichiarato la propria competenza giurisdizionale e territoriale, compie un esame assai minuzioso sia delle norme sulla cittadinanza vigenti in Palestina, con un quadro piuttosto desolante della disciplina dei territori occupati da parte delle autorità israeliane, le quali hanno preteso di mantenere il controllo del registro della popolazione palestinese; sia di quelle vigenti nella Repubblica del Libano; e conclude alla fine a favore dell’apolidia dell’interessato, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di New York del 28.9.1954 ( Trib. Milano, sent. 2.2.2022 ).
 
Il medesimo percorso argomentativo è seguito da un diverso Tribunale di fronte al caso, da anni ricorrente, di una persona figlia di genitori presuntivamente serbi, peraltro mai conosciuti. Anche in questa occasione, al termine di una dettagliata indagine che spazia dalle norme interne e internazionali rilevanti, ivi comprese le Linee guida dell’UNHCR, alle vicende che connotano la dissoluzione della ex Repubblica federale di Iugoslavia e la conseguente impossibilità per la ricorrente di acquistare la cittadinanza della subentrante Repubblica serba, il Tribunale ne dichiara lo stato di apolidia ( Trib. Brescia, ord. 27.4.2022 ).