Corte di giustizia dell'Unione europea

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Direttiva 2011/95 ed estensione dello status di rifugiato: figlio minore di genitore beneficiario di asilo in uno Stato membro

Nel caso LW (C 91/20, sentenza del 9.11.2021), la CGUE è stata chiamata a pronunciarsi sulla possibilità, per gli Stati membri, di estendere, in nome dell’unità familiare, lo status di rifugiato a un familiare – minore d’età – del beneficiario di protezione internazionale, che individualmente non abbia diritto a tale protezione.

La questione era sorta a seguito del rigetto della domanda di asilo proposta a favore della minore LW, nata in Germania da padre siriano e madre tunisina. Poiché in precedenza le autorità tedesche avevano riconosciuto lo status di rifugiato solo al padre, la richiesta di asilo della minore non era stata accolta in considerazione del fatto che la sua cittadinanza tunisina le avrebbe consentito di essere rimpatriata in un Paese terzo – la Tunisia, appunto – nel quale non avrebbe avuto alcun motivo di temere persecuzioni. In forza del diritto interno applicabile, però, al figlio minore non coniugato di una persona cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato, deve essere comunque riconosciuto lo status di rifugiato a titolo derivato, qualora in possesso anche della cittadinanza dell’altro genitore. Il giudice adito dalla ricorrente chiedeva allora alla Corte di giustizia se il favor previsto dal diritto tedesco per il minore che si trovi nella situazione di LW fosse conforme alle disposizioni pertinenti della direttiva qualifiche e se, comunque, fosse rilevante verificare la possibilità che il figlio e i suoi genitori si potessero stabilire in Tunisia. Secondo i giudici, il suo art. 3 permette agli Stati membri di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in determinate ipotesi, tra cui la determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati, purché ciò sia compatibile «con le disposizioni» della direttiva. L’art. 23.2, invece, stabilisce che «(g)li Stati membri provvedono a che i familiari del beneficiario di protezione internazionale, che individualmente non hanno diritto a tale protezione, siano ammessi ai benefici di cui agli articoli da 24 a 35, in conformità delle procedure nazionali e nella misura in cui ciò sia compatibile con lo status giuridico personale del familiare». La Corte fa subito presente che, sul piano teorico, il diritto UE applicabile non accorderebbe a LW il diritto di essere considerata beneficiaria di protezione internazionale: né a titolo originario, perché non ricorrono i presupposti fissati dall’art. 2 della direttiva, né a titolo derivato, perché l’art. 23 si riferisce ai nuclei familiari costituiti nel Paese di origine, come indicato dall’art. 2, lett. j). Tuttavia, la Corte interpreta l’art. 3 e l’art. 23 della disposizione tenendo conto dell’importanza dell’obiettivo rappresentato dalla preservazione del nucleo familiare, specialmente nell’interesse del minore. Così, i giudici confermano che l’eccezione di chiusura dell’art. 3 deve essere interpretata restrittivamente, nel senso che l’obbligo di rispetto delle disposizioni della direttiva vieta agli Stati membri di estendere lo status «in situazioni prive di qualsiasi nesso con la logica della protezione internazionale». Tuttavia, in specie, l’estensione automatica, a titolo derivato, dello status di rifugiato, che persegue l’obiettivo di proteggere il nucleo familiare dei beneficiari di protezione internazionale e di mantenerne l’unità della famiglia, è connessa alla logica della protezione internazionale. La Corte però ricorda che una estensione di questo tipo può avere dei limiti: oltre ad essere vietata quando l’interessato è escluso dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, par. 2, della direttiva, non è consentita neppure quando «sia incompatibile con lo status giuridico personale del familiare interessato», come sancito dall’ultima frase dell’art. 23, par. 2. La Corte precisa che il limite di questa disposizione si incontra laddove il figlio abbia la cittadinanza dello Stato membro ospitante oppure «un’altra cittadinanza che, tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano il suo status giuridico personale, gli dia diritto ad un trattamento migliore in tale Stato membro rispetto a quello risultante da un’estensione siffatta». Posto che LW non è cittadina tedesca, per la Corte è verosimile che la minore non ricada nemmeno nella seconda casistica, sebbene tocchi al giudice del rinvio fare gli opportuni accertamenti. Infine, la Corte conclude che la riserva contenuta a fine par. 2 dell’art. 23 non dipende dalla ragionevole possibilità per la famiglia dell’interessata di essere reinsediata in uno Stato terzo (la Tunisia, nella fattispecie): infatti, la ragion d’essere dell’articolo 23 è permettere al beneficiario di protezione internazionale di godere dei diritti a lui conferiti da tale protezione, mantenendo nel contempo l’unità del nucleo familiare nel territorio dello Stato membro ospitante.

Direttiva 2011/95 e nozione di «familiare»: padre di minore rifugiato in uno Stato membro

Anche il caso SE (C-768/19, sentenza del 9.9.2021) verte sul possibile riconoscimento di un diritto alla protezione internazionale derivato dal beneficiario che sia familiare del richiedente. In tal caso, però, il nodo giuridico riguarda l’interpretazione della nozione di «familiare» ai sensi dell’art. 2, lett. j), della direttiva 2011/95. A differenza del caso LW, in SE la richiesta di asilo era stata negata al padre del soggetto che aveva già ottenuto lo status di rifugiato in Germania. Il diniego derivava dal fatto che quando il padre aveva proposto formalmente la domanda di asilo, suo figlio era già divenuto maggiorenne. Il giudice nazionale al quale si era rivolto il richiedente chiedeva allora alla CGUE di chiarire alcuni aspetti discendenti dalla nozione di «familiare» contenuta nella direttiva qualifiche. In particolare, l’attenzione veniva posta sulla figura del padre, da considerarsi «familiare» solo se le seguenti condizioni cumulative sono presenti: a) il nucleo familiare è già costituito nel Paese di origine; b) i familiari del beneficiario di protezione internazionale si trovano nel medesimo Stato membro in connessione alla domanda di protezione internazionale; c) il beneficiario di protezione internazionale è un minore non coniugato. Per prima cosa, su richiesta del giudice a quo, la Corte chiarisce quale debba essere il momento da prendere in considerazione per capire se il figlio vada o meno considerato minore d’età. Visto che la direttiva va attuata in maniera uniforme e nel rispetto del principio di uguaglianza, oltre che in funzione degli artt. 7 e 24 della Carta (tutela della vita privata e diritti del minore), occorre concludere che l’età è da calcolare al momento della presentazione della domanda, non già della decisione sulla stessa. Se così non fosse, si perderebbe di vista l’obiettivo di assicurare che le autorità competenti siano incentivate a trattare le richieste presentate dai genitori di minori in via prioritaria e con l’urgenza necessaria per tener conto della vulnerabilità di questi soggetti. Allo stesso tempo, potrebbero crearsi differenze ingiustificate in situazioni identiche, poiché l’accoglimento della domanda di protezione internazionale ben può dipendere da circostanze imputabili all’amministrazione o ai giudici nazionali. Inoltre, per comprendere se il genitore richiedente del minore beneficiario sia effettivamente «familiare» in base all’art. 2, lett. j), della direttiva 2011/95, bisogna considerare la situazione sussistente nel momento in cui un cittadino di un Paese terzo manifesti la volontà di chiedere la protezione internazionale: si tratta della fase di presentazione della domanda, in quanto questa, contrariamente alla registrazione e all’inoltro, non presuppone l’espletamento di alcuna formalità. Venendo poi alle altre questioni, la Corte afferma che la suddetta nozione di «familiare» non richiede una ripresa effettiva della vita familiare tra genitore e figlio beneficiario di protezione internazionale, né tale condizione è prevista dalla riserva ex art. 23, par. 2, di cui si è detto in relazione al caso LW. Per poter beneficiare di uno status derivato da quello del figlio che è già rifugiato in uno Stato membro, sono perciò ininfluenti aspetti quali le modalità di esercizio del diritto alla vita privata o l’intensità dei rapporti familiari. Analogamente, la protezione concessa al genitore in un caso come quello in esame non può, in qualsiasi circostanza, cessare immediatamente per il solo fatto che il figlio beneficiario di protezione sussidiaria raggiunga la maggiore età; e non può neppure comportare la revoca automatica del permesso di soggiorno del genitore interessato, se il titolo è ancora valido per un periodo determinato.

Direttiva 2013/32 e domanda reiterata: rapporto tra motivi nuovi ma già sussistenti e principio della cosa giudicata

Nel caso XY (C-18/20, sentenza del 9.9.2021), la Corte si è pronunciata su alcuni elementi della «domanda reiterata», disciplinata all’art. 40 della direttiva 2013/32 («direttiva procedure»). La CGUE era stata adita dalla Corte amministrativa austriaca, alla quale si era rivolto un cittadino iracheno che aveva subito il rigetto di una domanda reiterata, basata su un motivo sussistente già da prima che la domanda originaria fosse respinta in via definitiva: infatti, dopo il passaggio in giudicato della decisione che certificava il diniego da parte dell’autorità competente, l’interessato aveva proposto una nuova domanda, con cui specificava che il suo fondato timore di subire persecuzioni nel Paese di origine dipendeva dalla sua omosessualità. Il giudice del rinvio chiedeva alla CGUE di specificare se gli «elementi o risultanze nuovi rilevanti per l’esame dell’eventuale qualifica di beneficiario di protezione internazionale», cui accenna l’art. 40, par. 2, della direttiva procedure, possano includere anche circostanze che sussistevano già quando il primo giudizio si è chiuso con provvedimento passato in giudicato. La Corte risponde affermativamente, perché una soluzione diversa non sarebbe in linea con il testo e con le finalità della disposizione e risulterebbe sproporzionata in un’ottica di garanzia del principio della cosa giudicata. In seguito, la Corte chiarisce il secondo dubbio del giudice remittente, ossia se in base all’art. 40, par. 3, della direttiva l’esame di una domanda reiterata possa essere condotto nell’ambito della riapertura del procedimento che ha avuto ad oggetto la domanda precedente o, al contrario, debba essere espletato previo avvio di un nuovo procedimento. Il par. 3 dell’art. 40 differisce dal par. 2, in quanto non concerne l’ammissibilità del nuovo ricorso, ma l’esame di merito; tuttavia, non viene detto se gli Stati debbano seguire una delle due opzioni indicate dal giudice austriaco e non vi sono neppure accenni a eventuali termini di decadenza, che pertanto non possono essere introdotti con norme interne. Per la Corte è dunque possibile che il diritto interno consenta di esaminare la domanda reiterata mediante la riapertura del procedimento relativo alla prima domanda, purché le norme applicabili a tale riapertura siano conformi al capo II della direttiva 2013/32 e non vengano applicati di termini di decadenza alla presentazione della seconda domanda. L’ultimo quesito attiene all’interpretazione del quarto paragrafo dell’art. 40, che consente agli Stati membri di stabilire che la domanda possa essere sottoposta a ulteriore esame solo se il richiedente, senza alcuna colpa, non è riuscito a far valere, nel procedimento precedente, la situazione esposta nei paragrafi 2 e 3 della disposizione in esame. Poiché l’Austria non ha adottato specifici atti di trasposizione dell’art. 40, par. 4, il giudice a quo chiedeva se fosse ugualmente possibile, in forza del diritto interno applicabile, rifiutare l’esame sul merito di una domanda reiterata qualora gli elementi o le risultanze nuovi invocati esistessero all’epoca del procedimento attivato con la prima domanda precedente e non siano stati presentati tempestivamente per una colpa imputabile al richiedente. La Corte dichiara che in assenza di trasposizione effettiva dell’art. 40, par. 4, non è consentito omettere l’esame di merito della nuova domanda per tali motivi. Concludere in senso opposto equivarrebbe ad ammettere che una direttiva può creare obblighi diretti in capo gli individui, mentre è noto che la direttiva può colpire un singolo solo indirettamente, ossia attraverso norme interne di attuazione. Perciò, solo gli Stati membri che abbiano trasposto anche il par. 4 dell’art. 40 possono applicare l’eccezione della colpa grave come limite alla presentazione di una domanda reiterata del richiedente protezione internazionale.

Direttive 2013/32 e 2013/33 e inammissibilità della domanda di protezione internazionale: possibilità di ammettere nuove ipotesi e di criminalizzare il sostegno alla presentazione di domande ritenute oggettivamente inammissibili in via preventiva

Nell’ambito della procedura di infrazione Commissione c. Ungheria (C-821/19, sentenza del 16.11.2021), la Corte si è soffermata sull’esigenza di rispettare talune disposizioni della direttiva 2013/32 e della direttiva 2013/33 (direttiva accoglienza). Il primo addebito mosso dalla Commissione riguardava la previsione dell’obbligo, nella legge ungherese sul diritto d’asilo, di considerare inammissibile la domanda di protezione internazionale del richiedente che sia arrivato in Ungheria attraversando un Paese in cui egli non è esposto a persecuzioni o in cui è garantito un adeguato livello di protezione. Per la Commissione, risultava violato l’art. 33, par. 2, della direttiva 2013/32: esso propone un elenco tassativo di ipotesi che rendono inammissibile una domanda e non fa riferimento alcuno al caso prospettato dalla legge ungherese. Viceversa, l’Ungheria riteneva che l’obbligo contestato fosse conforme al diritto UE e volto a scongiurare pratiche abusive. La Corte rigetta le difese ungheresi, dichiarando che nessuna norma di diritto UE ammette la sussistenza di un motivo di inammissibilità come quello introdotto dall’Ungheria. In particolare, il limite prefigurato dalla legge sul diritto d’asilo non può essere assorbito dalla lett. c) dell’art. 33, par 2, della direttiva procedure. Questa disposizione permette agli Stati membri d giudicare inammissibile la domanda di protezione internazionale di chi proviene da un Paese terzo sicuro. Eppure, da un lato il concetto di Paese terzo sicuro è condizionato dai requisiti contenuti all’art. 38 della direttiva; dall’altro, il semplice transito attraverso un Paese terzo sicuro non implica l’esistenza di una condizione che per la Corte è essenziale ai fini dell’applicazione dell’art. 33, par. 2, lett. c), vale a dire la presenza di un legame tale da fare ritenere ragionevole che il richiedente avrebbe potuto recarsi in quel Paese terzo. Le situazioni che la legge ungherese cristallizza come oggettivamente idonee a rendere inammissibile una domanda di protezione internazionale devono invece essere valutate caso per caso. La seconda contestazione verteva su una nuova disposizione del codice penale ungherese che configura come reato il comportamento di ogni persona che (a) nell’ambito di un’attività organizzativa (b) agisce per agevolare l’avvio di una procedura di asilo in territorio ungherese (c) pur sapendo che la domanda non potrebbe essere accolta. Per la Commissione, questa previsione normativa era in contrasto con più disposizioni di diritto derivato UE: l’art. 8, par. 2, della direttiva 2013/32, che garantisce lo svolgimento di attività di consulenza e assistenza ai richiedenti protezione internazionale, consentendo al massimo limitazioni parziale e solo se obiettivamente necessarie, a norma del diritto nazionale, per la sicurezza, l’ordine pubblico o la gestione amministrativa delle zone interessate; l’art. 12, par. 1, lett. c), della direttiva 2013/32, che consente al richiedente di comunicare con l’UNHCR o con altre organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza durante le procedure di primo grado; l’art. 22, par. 1, della direttiva 2013/32, che dà al richiedente la possibilità di avere assistenza legale effettiva (a sue spese) sugli aspetti relativi alla domanda di protezione internazionale, in ciascuna fase della procedura; l’art. 10, par. 4, della direttiva 2013/33, che impone agli Stati membri di assicurare che (fatte salve rare limitazioni) anche avvocati o consulenti legali e rappresentanti di organizzazioni non governative possano comunicare con i richiedenti trattenuti e rendere loro visita in condizioni che rispettano la vita privata. L’Ungheria, dal canto suo, non condivideva le criticità riscontrate dalla Commissione. La Corte accoglie buona parte delle censure sollevate dalla Commissione. Va detto che la sentenza riconosce che la fattispecie introdotta nel codice penale ungherese copre solamente le fasi anteriori rispetto all’inoltro della domanda di asilo e che quindi il suo campo di applicazione è materialmente più ristretto di come lo aveva inteso la Commissione. Il risultato è che non si pone il problema del rapporto tra diritto interno e art. 12, par. 1, lett. c), della direttiva 2013/32, perché questa disposizione è applicabile quando l’esame della domanda è già iniziato. Per il resto, la Corte è del parere che varie attività riconducibili alle altre disposizioni di diritto derivato UE possano essere limitate dalla riforma ungherese. Queste limitazioni, a giudizio della Corte, sono suscettibili di tradursi in deterrenti per chi intenda offrire assistenza, considerato che la fattispecie penale copre una serie molto vasta di forme assistenziali e che in certe ipotesi l’autore del reato può essere condannato a pena detentiva. Ne deriva un logico aumento della probabilità che i richiedenti protezione internazionale non riescano a godere in maniera effettiva del diritto di ricevere assistenza prima di inoltrare la loro domanda. La Corte ritiene che ciò non possa essere giustificato alla luce delle finalità esposte dall’Ungheria, che con la previsione di questo reato intendeva contrastare il ricorso abusivo alla procedura di asilo e l’immigrazione irregolare fondata sull’inganno. La misura adottata dal legislatore ungherese è sproporzionata rispetto agli obiettivi perseguiti, specialmente perché il suo ambito di applicazione ratione materiae e ratione personae è decisamente troppo vasto. Tra l’altro, il diritto UE non vieta in modo incondizionato la fornitura di assistenza a chi voglia presentare una domanda di protezione internazionale dopo essere entrato irregolarmente nel territorio di uno Stato membro. Sicché, l’Ungheria ha ecceduto quanto necessario per limitare le sole pratiche abusive e le sole attività di sostegno agli ingressi irregolari in territorio ungherese. Il terzo e ultimo profilo di contrasto tra diritto interno e diritto UE derivava, secondo la Commissione, da una disposizione della legge ungherese sulla polizia che vincola i servizi nazionali di polizia ad impedire che chi sia sottoposto a procedimento penale, sul fondamento in particolare della fattispecie appena discussa, si trovi a meno di otto chilometri dalle frontiere esterne dell’Ungheria. La Commissione era dell’idea che questa limitazione fosse in contrasto con tutte e quattro le disposizioni di diritto UE menzionate in precedenza. La Corte accoglie questa tesi, questa volta anche in rapporto all’art. 12, par. 1, lett. c), della direttiva 2013/32, atteso che la misura interna in questione non è limitata esclusivamente ad un arco temporale anteriore all’inoltro della domanda di protezione internazionale. In sintesi, la Corte conclude che l’impossibilità, da parte di chi possa fornire assistenza, di avvicinare i richiedenti alla frontiera esterna o detenuti svuota inevitabilmente di contenuto i diritti sanciti dalle disposizioni pertinenti della direttiva procedure e della direttiva accoglienza.

Direttiva 2004/38, art. 21 della Carta e mantenimento del diritto di soggiorno quinquennale: cittadino di Stato terzo privo di risorse sufficienti che abbia subito violenze domestiche dal coniuge cittadino dell’Unione

Il caso X (C-930/19, sentenza del 2.9.2021), ha avuto ad oggetto la possibilità o meno del mantenimento, in caso di divorzio, del diritto di soggiorno per un cittadino di un Paese terzo vittima di atti di violenza domestica commessi dal coniuge cittadino dell’Unione che aveva esercitato la propria libertà di circolazione in forza della direttiva 2004/38. X, cittadino tunisino, si era sposato con una cittadina francese residente in Belgio; successivamente, aveva ottenuto dalle autorità competenti un permesso di soggiorno della durata di 5 anni. Qualche anno prima della scadenza di tale permesso, però, X era costretto ad allontanarsi dalla moglie, che a suo dire lo aveva sottoposto a violenze domestiche; la moglie, invece, faceva ritorno in Francia. Tempo dopo, i due divorziavano. Nel frattempo a X veniva revocato il diritto di soggiorno in Belgio, perché non disponeva di risorse sufficienti. In sostanza, le autorità belghe davano attuazione all’art. 13, par. 2, della direttiva 2004/38. Questa disposizione, consente ai cittadini di Stati terzi di mantenere il loro diritto di soggiorno in caso di divorzio dal cittadino dell’Unione; tra le altre cose, ciò è possibile quando situazioni particolarmente difficili, «come il fatto di aver subito violenza domestica durante il matrimonio o l’unione registrata, esigono la conservazione del diritto di soggiorno». Malgrado ciò, per chi non abbia titolo per soggiornare in maniera permanente presso lo Stato membro ospitante, tale diritto è subordinato alla disponibilità di risorse economiche sufficienti. Ma non era questo il caso di X. Nel giudizio intentato da X veniva ipotizzata una presunta distinzione di trattamento tra i cittadini di Stati terzi beneficiari di diritti accessori nel quadro della direttiva 2004/38 e della direttiva 2003/86, inerente al ricongiungimento familiare di stranieri legalmente soggiornanti in un Stato membro. Questo perché l’art. 15, par. 3, della seconda direttiva stabilisce che «(i)n caso (...) divorzio (...), un permesso di soggiorno autonomo può essere rilasciato (...) alle persone entrate in virtù del ricongiungimento familiare», e che «(g)li Stati membri adottano disposizioni atte a garantire che un permesso di soggiorno autonomo sia rilasciato quando situazioni particolarmente difficili lo richiedano». Pertanto, il giudice nazionale chiedeva alla Corte se una simile differenza di trattamento costituisse motivo di invalidità parziale dell’art. 13, par. 2, della direttiva 2004/38 per violazione degli artt. 20 e 21 della Carta. La Corte rappresenta in via preliminare che in un caso come quello in discussione l’art. 13, par. 2, della direttiva 2004/38 non richiede che la procedura giudiziaria di divorzio sia avviata prima della partenza del cittadino dell’Unione dallo Stato membro ospitante. Se la disposizione fosse così interpretata, il cittadino dell’Unione finirebbe per avere un mezzo di pressione manifestamente contrario all’obiettivo di garantire la tutela della vittima di atti di violenza domestica. La Corte, tuttavia, limita il parametro di riferimento per il sindacato di validità al solo art. 20 della Carta, perché l’art. 21 non contempla possibili discriminazioni – basate sulla nazionalità – tra cittadini dell’Unione e cittadini di Paesi terzi. Ciò detto, la Corte si propone di valutare se i beneficiari dell’art. 13, par. 2, della direttiva 2004/38 e dell’art. 15, par. 3, della direttiva 2003/86 si trovino effettivamente in una situazione comparabile. In principio, la Corte rileva che entrambe le disposizioni condividono l’obiettivo di garantire la tutela dei familiari vittime di violenza domestica; d’altra parte, sono altri gli elementi da considerare ai fini della comparazione. Ad esempio, le due direttive insistono su settori che non sono coincidenti: la direttiva 2004/38 si riferisce alla libera circolazione delle persone e la direttiva 2003/86 alla politica UE di immigrazione. Cambia anche l’oggetto dei due atti: mentre la direttiva 2004/38 determina le modalità d’esercizio del diritto di libera circolazione e soggiorno e il diritto di soggiorno permanente nel territorio degli Stati membri da parte dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari (oltre alle possibili limitazioni a questi diritti), la direttiva 2003/86 è stata adottata per fissare le condizioni materiali dell’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti nell’Unione. E se la direttiva 2004/38 mira ad agevolare l’esercizio del diritto primario e individuale dei cittadini dell’Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, la direttiva 2003/86 persegue l’obiettivo generale di facilitare l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi negli Stati membri. Infine, gli Stati membri godono di un potere discrezionale molto più ampio quando si trovano ad attuare la direttiva 2003/86; non a caso, sono gli Stati membri che, in virtù dell’art. 15, par. 4, stabiliscono i requisiti e la durata del permesso di soggiorno autonomo che può essere accordato grazie all’art. 15, par. 3. Ecco perché, in conclusione, X non si troverebbe in una situazione comparabile a quella di chi ricade nel campo di applicazione dell’art. 15, par. 3, della direttiva 2003/86, e l’art. 13, par. 2, della direttiva 2004/38 non è in contrasto con l’art. 20 della Carta.

Direttiva 2004/38, art. 21 TFUE e regolamento 562/2006 nei rapporti tra Stato membro e propri cittadini: obbligo di esibire un documento di identità in caso di viaggio verso/rientro da altro Stato membro

Nel caso A (C-35/20, sentenza del 6.10.2021), la Corte ha fornito alcune precisazioni sulle formalità e le sanzioni che uno Stato membro può applicare a un proprio cittadino che intenda recarsi in un altro Paese dell’Unione e poi fare ritorno in patria. Il cittadino finlandese A era andato in Estonia con un’imbarcazione da diporto e poi era tornato in Finlandia. Durante un controllo alle frontiere effettuato a Helsinki, in occasione del ritorno di A, emergeva che all’interessato non aveva con sé il proprio documento di identità, regolarmente rilasciato in precedenza a suo favore. Nei confronti di A veniva quindi avviato un procedimento per reato minore di violazione delle frontiere, con richiesta di ammenda. Il procedimento approdava alla Corte Suprema finlandese, che interpellava la CGUE su alcuni temi. In prima battuta, il giudice interno voleva sapere se una norma interna che impone ai cittadini di quello Stato l’obbligo, corredato di sanzioni penali, di essere muniti di una carta d’identità o di un passaporto in corso di validità quando si recano in un altro Stato membro e quando ritornano nello Stato di cittadinanza, fosse conforme all’art. 21 TFUE e alla direttiva 2004/38, tenendo presente anche il regolamento n. 562/2006. La Corte risponde che il primo obbligo è in linea con il diritto UE invocato dal giudice interno. Richiedere un passaporto o un documento d’identità contribuisce al rispetto di una formalità connessa all’esercizio del diritto alla libera circolazione, ai sensi della direttiva 2004/38. Inoltre, la soppressione dei controlli di frontiera alle frontiere interne non pregiudica la possibilità, di cui all’articolo 21 del regolamento n. 562/2006, per gli Stati membri, di effettuare controlli d’identità all’interno del territorio e di prevedere a tal fine l’obbligo di possedere e di portare con sé titoli e documenti. Naturalmente, l’obbligo di richiedere uno dei predetti documenti al cittadino che voglia uscire dal proprio Stato membro deve essere conforme ai principi generali del diritto dell’Unione, tra cui i principi di proporzionalità e di non discriminazione. Per ragioni analoghe, uno Stato membro può richiedere di adempiere alle stesse formalità anche al proprio cittadino che voglia rientrarvi dopo essersi recato in un altro Stato membro, benché in questa situazione rileva solo l’art. 21, par. 1, TFUE, e non anche la direttiva 2004/38. L’obbligo di essere muniti di una carta d’identità o di un passaporto non condiziona il diritto d’ingresso, ma costituisce una formalità volta a uniformare e, quindi, ad agevolare i controlli d’identità che possono essere effettuati nelle ipotesi circoscritte previste al regolamento n. 562/2006. Le regole appena enunciate non dipendono dal mezzo di trasporto e dall’itinerario, né rileva il fatto che l’interessato abbia attraversato acque internazionali prima di fare ritorno nel proprio Stato membro. Quanto alla sanzione applicabile, essa non deve essere sproporzionata rispetto alla gravità della condotta che si intende reprimere. Nel caso di specie, la sanzione prevista dal diritto interno risulta obiettivamente eccessiva, in quanto viene prevista un’ammenda che può ammontare, a titolo indicativo, al 20% del reddito mensile netto dell’autore del reato, nonostante il reato stesso sia di bassa entità.

Diritto UE in materia di sicurezza sociale, prestazioni familiari, assistenza sociale e protezione sociale in relazione alla «carta della famiglia»: potenziali discriminazioni a sfavore di cittadini di Stati terzi titolari di uno status protetto dal diritto UE

Nel caso ASGI e al. (C-462/20, sentenza del 28.10.2021), la CGUE è stata interpellata sulla natura della «carta della famiglia». Ai sensi della normativa italiana, la carta della famiglia consente alle famiglie di cittadini italiani, o costituite da altri cittadini dell’Unione regolarmente residenti nel territorio italiano e con almeno tre figli conviventi di età non superiore a 26 anni, la possibilità di ottenere sconti o riduzioni tariffarie in occasione dell’acquisto di beni e servizi forniti da taluni soggetti pubblici o privati che abbiano deciso di aderire volontariamente all’iniziativa. Alcune associazioni ricorrevano per chiedere al Tribunale competente di non applicare la normativa in questione nella parte in cui non consentiva anche ai cittadini di Paesi terzi titolari di uno status protetto dal diritto dell’Unione di ottenere la carta della famiglia. Il giudice adito, in base alle argomentazioni dei ricorrenti, chiedeva alla CGUE se tale distinzione fosse in linea con molteplici disposizioni di diritto derivato UE in materia di sicurezza sociale, prestazioni familiari, assistenza sociale e protezione sociale: più precisamente, rilevavano l’art. 11, par. 1, lett. d), o l’art. 11, par. 1, lett. f), della direttiva 2003/109; l’art. 12, par. 1, lett. e), o l’art. 12, par. 1, lett. g), della direttiva 2011/98; l’art. 14, par. 1, lett. e), o l’art. 14, par. 1, lett. g), della direttiva 2009/50 e l’art. 29 della direttiva 2011/95. La Corte sostiene in primis che la carta della famiglia non costituisce una prestazione avente natura di contributo pubblico e, per questa ragione, non sarebbe una misura rientrante nell’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004, cui si collegano l’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98, e l’art. 14, par. 1, lett. e), della direttiva 2009/50. Ecco che allora queste disposizioni non sono violate dalla normativa italiana oggetto di giudizio principale. Secondariamente, l’art. 11, par. 1, lett. d), della direttiva 2003/109 non risulta compromesso, a patto che la carta della famiglia non rientri nelle nozioni di «prestazioni sociali», «assistenza sociale» o «protezione sociale». Siccome dette nozioni sono stabilite dal diritto interno, la valutazione definitiva compete al giudice del rinvio. Quanto all’art. 29 della direttiva 2011/95, che impone espressamente la parità di trattamento tra beneficiari di protezione internazionale e cittadini italiani per quanto riguarda le prestazioni di assistenza sociale, si afferma che se il giudice del rinvio dovesse concludere che la carta della famiglia rientra nelle prestazioni di assistenza sociale, si avrebbe un’incompatibilità tra normativa interna e art. 29 della direttiva qualifiche. Da ultimo, la Corte riscontra una non conformità tra l’esclusione prevista dalla normativa interna e le disposizioni delle direttive di cui sopra che tutelano la parità di trattamento circa l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi, anche perché non sembra che l’Italia abbia inteso avvalersi delle deroghe contemplate dal diritto UE applicabile.