Non discriminazione

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Nel corso del primo quadrimestre del 2021 sono pervenute alcune importanti decisioni della Corte costituzionale in relazione ai requisiti di accesso alle misure di contrasto alla povertà, agli alloggi pubblici ed agli incentivi occupazionali.
In tema di assegni per il nucleo famigliare la Corte di Cassazione ha sollevato avanti alla Corte costituzionale questione di costituzionalità dell’art. 2, co. 6-bis d.l. 69/1988
nella parte in cui prevede modalità di calcolo meno favorevoli (rispetto agli italiani) degli assegni al nucleo familiari per i lavoratori stranieri titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo (ordinanza n. 9378) e del permesso unico lavoro (ordinanza n. 9379).
Sempre la Corte di Cassazione in una vertenza di cui era parte una P.A. ha ribadito la natura di diritto soggettivo «alla non discriminazione» delineando i limiti dell’intervento del giudice ordinario.
 
Misure di contrasto alla povertà
La Corte costituzionale, con sentenza n. 7/2021 del 22 gennaio 2021, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 9, co. 51, lett. b) della l.r. del Friuli Venezia Giulia n. 13/2019 che prevedeva un requisito di anzianità di residenza quinquennale sul territorio regionale per l’accesso ad una misura di contrasto alla povertà. La disposizione impugnata affermava che tali risorse «sono confermate» in capo ai servizi sociali comunali «per la concessione di interventi di contrasto alla povertà a favore di nuclei familiari in possesso, tra gli altri, del requisito della residenza sul territorio regionale da almeno 5 anni». Nella pronuncia in esame la Corte costituzionale ha ribadito quanto già espresso in precedenti pronunce (sentenza n. 44 del 2020 e sentenza n. 281 del 2020) e cioè che la residenza prolungata non può costituire un requisito che preclude di per sé l’accesso alle provvidenze sottolineando che «mentre il requisito della residenza tout court serve a identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione, quello della residenza protratta determina una irragionevole discriminazione tra i medesimi residenti sul territorio regionale quando esclude l’accesso a provvidenze connesse ai bisogni primari a soggetti imputabili solo “di aver esercitato il proprio diritto di circolazione” o di aver dovuto, per le più svariate ragioni, “mutare regione di residenza” (sentenza n. 107 del 2018)», «dal momento “che non vi è alcuna correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni primari dell’essere umano, insediatosi nel territorio regionale, e la protrazione nel tempo di tale insediamento (sentenza n. 40 del 2011; sentenza n. 187 del 2010” (sentenza n. 222 del 2013)».
 
Accesso agli alloggi pubblici
La Corte costituzionale con la sentenza n. 9 del 29.1.2021 si è pronunciata sul ricorso promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al comma 1 dell’art. 2 della l.r. Abruzzo n. 34 del 2019 per violazione degli artt. 3 e 117, co. 1 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), e all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). La disposizione impugnata integrava la disciplina contenuta all’art. 5 della l.r. Abruzzo n. 96 del 1996, aggiungendo, dopo il comma 4, i commi 4.1 e 4.2. Il comma 4.1 imponeva ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea la presentazione documentazione che attestasse che tutti i componenti del nucleo familiare non possedevano alloggi adeguati nel Paese di origine o di provenienza ed il comma 4.2 imponeva ai medesimi di presentare altresì la documentazione reddituale e patrimoniale del Paese in cui hanno la residenza fiscale.
La Corte costituzionale dopo aver rilevato che la norma impugnata aveva previsto un duplice onere documentale aggiuntivo per i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea, con esclusione di coloro in possesso dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria», ha affermato che l’onere procedimentale prescritto dal comma 4.1 «risulta in radice irragionevole innanzitutto per la palese irrilevanza e per la pretestuosità del requisito che mira a dimostrare. Se, infatti, lo scopo della normativa nella quale la disposizione impugnata si colloca è di garantire un alloggio adeguato nel luogo di residenza in Regione a chi si trovi nelle condizioni di bisogno individuate dalla legge, il possesso da parte di uno dei componenti del nucleo familiare del richiedente di un alloggio adeguato nel Paese di origine o provenienza non appare sotto alcun profilo rilevante. Non lo è sotto il profilo dell’indicazione del bisogno, giacché, intesa l’espressione “alloggio adeguato” come alloggio idoneo a ospitare il richiedente e il suo nucleo familiare, è evidente che la circostanza che qualcuno del medesimo nucleo familiare possegga, nel Paese di provenienza, un alloggio siffatto non dimostra nulla circa l’effettivo bisogno di un alloggio in Italia. E non lo è nemmeno come indicatore della situazione patrimoniale del richiedente, per la quale non offre alcun significativo elemento aggiuntivo rispetto a quanto già si desume dalla generale attestazione di non titolarità di diritti su alloggi all’interno del territorio nazionale o all’estero, prevista dall’art. 2, comma 1, lettera d), della legge reg. Abruzzo n. 96 del 1996. Oltre che irragionevole per le ragioni appena esposte, la previsione risulta altresì discriminatoria. Tale carattere dell’onere aggiuntivo a carico dei soli cittadini extracomunitari – sul presupposto (indimostrato) che a essi sarebbero riservati “oneri probatori meno gravosi” di quelli imposti ad altri cittadini – appare evidente, solo che si consideri il fatto che le asserite difficoltà di verifica del possesso di alloggi in Paesi extraeuropei possono riguardare anche cittadini italiani o di altri Paesi dell’Unione europea, i quali invece sono esclusi dall’ambito di applicazione della normativa impugnata. Si tratta, dunque, di un aggravio procedimentale che si risolve in uno di quegli “ostacoli di ordine pratico e burocratico” che questa Corte ha ripetutamente censurato, ritenendo che in questo modo il legislatore (statale o regionale) discrimini alcune categorie di individui (sentenze n. 186 del 2020 e n. 254 del 2019)».
Per quanto concerne invece il comma 4.2 la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità della richiesta per coloro che, pur avendo la residenza anagrafica in Italia, abbiano il domicilio fiscale all’estero.
È stato inoltre sottoposto al vaglio della Corte anche l’art. 4, co. 1, della l.r. Abruzzo n. 34 del 2019 che aveva inserito, dopo la lettera c) del secondo comma dell’art. 8 della l.r.. Abruzzo n. 96 del 1996, la lettera c-bis), che individuava un ulteriore elemento rilevante per l’attribuzione di punteggi al fine della formazione della graduatoria di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Più precisamente essa dava rilievo all’«anzianità di residenza in Comuni della regione Abruzzo», prevedendo l’attribuzione di un punto «per ogni anno di residenza a partire dal decimo anno di residenza e fino ad un massimo di 6 Punti». Anche tale scelta della Regione Abruzzo di “sopravvalutare” la durata della residenza in un Comune della Regione, dando una considerazione sproporzionata dell’anzianità di residenza, secondo la Corte Costituzionale finisce per stravolgere il principio della prevalenza del bisogno. Pertanto anche tale disposizione è stata dichiarata incostituzionale: «In conclusione il peso esorbitante assegnato al dato del radicamento territoriale nel più generale punteggio per l’assegnazione degli alloggi, il carattere marginale del dato medesimo in relazione alle finalità del servizio di cui si tratta, e la stessa debolezza dell’indice della residenza protratta quale dimostrazione della prospettiva di stabilità, concorrono a determinare l’illegittimità costituzionale della previsione in esame, in quanto fonte di discriminazione di tutti coloro che – siano essi cittadini italiani, cittadini di altri Stati UE o cittadini extracomunitari – risiedono in Abruzzo da meno di dieci anni rispetto ai residenti da almeno dieci anni».
 
Contributo affitti
Il giudice del lavoro del Tribunale di Udine (ord. 2.3.2021 in Banca dati Asgi), richiamata la sentenza n. 9/2021 della Corte costituzionale, ha stabilito che il regolamento regionale n. 66/2020 del Friuli Venezia Giulia (che disciplinava le modalità per ottenere un sostegno economico per il pagamento dell’affitto) era in contrasto con le norme nazionali e comunitarie e realizzava una discriminazione. Analogamente si è pronunciato in relazione al bando del Comune di Udine di cui alla determina 934/2020 che, avendo inserito le medesime clausole del regolamento regionale, costituiva discriminazione diretta. La questione sottoposta al Tribunale di Udine traeva origine dalla dichiarazione d’inammissibilità delle domande proposte da cinque cittadini stranieri (quattro del Ghana ed uno del Marocco) per ottenere il contributo affitti in conseguenza della mancata produzione di documentazione del paese di origine attestante l’inesistenza in patria di una alloggio idoneo in proprietà. Secondo il giudice la produzione dell’attestazione ISEE è idonea essa sola ad accertare la presenza o meno di proprietà immobiliari all’estero, senza che possa ammettersi per i soli cittadini stranieri un onere documentale integrativo volto all’attestazione del medesimo requisito. Osserva il Tribunale di Udine che l’art. 2, co. 1 del d.p.c.m. 159/2013 espressamente cataloga il nuovo ISEE, ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate, come «livello essenziale delle prestazioni», in quanto tale rimesso alla competenza statale esclusiva e quindi con riferimento alla determinazione ed applicazione dell’ISEE per l’accesso a prestazioni sociali agevolate, le leggi regionali devono considerare vincolanti le prescrizioni statali (cfr. Corte d’Appello di Milano, sent. 29.12.2020, R.G. 77/2019). Inoltre, attesa l’assoluta identità di regime fiscale tra italiani e stranieri residenti in Italia e l’assoluta identità dei correlativi obblighi di denuncia relativamente agli immobili all’estero, l’ulteriore adempimento che la P.A. richiede ai soli cittadini extra-UE si risolve di fatto in un’irragionevole ed ingiustificata presunzione di infedeltà del solo straniero rispetto a quanto dichiarato in sede fiscale. Infine, riconosciuta l’applicazione al caso esaminato, del nuovo comma 3-bis dell’art. 18, l. 241/1990, introdotto dal d.l. 76/2020, che non opera alcuna distinzione tra italiani e stranieri, il Tribunale di Udine ha concluso che «la richiesta di documentazione supplementare rivolta al solo cittadino straniero non è sostenuta da alcuna norma di rango primario, né può ritenersi legittima o ragionevole alla luce delle considerazioni appena svolte: il riferimento normativo operato dall’art. 29, co. 1-bis, L.R. 1/2016 ai D.P.R. 445/2000 e 394/1999 deve essere conseguentemente disatteso».
Va segnalato che il Tribunale di Udine ha accolto anche la domanda formulata dall’intervenuta ASGI di rimuovere la «discriminazione collettiva» presente in tutta la Regione a causa dell’obbligo di produzione dei citati documenti, contenuto nel regolamento regionale ed ha ordinato alla Regione di modificare il regolamento ed al Comune di Udine non solo di inserire i ricorrenti nella graduatoria per l’assegnazione del contributo nella medesima posizione in cui sarebbero stati inseriti se avessero presentato la documentazione richiesta, ma altresì di inserire in graduatoria tutti i cittadini extra UE che avevano già presentato domanda senza produrre la documentazione in questione e che per tale motivo avessero ricevuto comunicazione di inammissibilità della stessa».
 
Incentivi occupazionali e residenza quinquennale
La Corte costituzionale con sent. 23.12.2020, n. 281 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 88 della l.r. del Friuli Venezia Giulia n. 9/2019 che limitava la concessione degli incentivi occupazionali alle imprese per le assunzioni, l’inserimento o la stabilizzazione di lavoratori solo ai casi in cui i lavoratori fossero residenti continuativamente nel territorio regionale da almeno cinque anni affermandone il contrasto con l’art. 3 Cost. per l’irragionevolezza del requisito di residenza, in quanto il collegamentocon l’ente pubblico territoriale atto a garantire la prestazione viene già soddisfatto dalla sede dell’impresa che assume entro il territorio regionale. Inoltre la norma regionale finiva per contraddire lapropria ratio delriassorbimento delle eccedenze occupazionali determinate da crisi aziendali, finendo per escludere lavoratori che avessero svolto attività lavorativa nel Friuli Venezia Giulia anche se non residenti, e che dunque disponevano di quel collegamento con la realtà regionale atto a garantire loro piena parità di trattamento nelle misure di reinserimento lavorativo. La Corte Costituzionale ha sottolineato che «la residenza costituisce un requisito ragionevole al fine d’identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione,non è possibile che l’accesso alle prestazioni pubbliche sia escluso solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza (sent. n. 44 del 2020 e n. 107 del 2018)».
 
Assegni per il nucleo famigliare
Con due ordinanze in data 8.4.2021 (n. 9378 e n. 9379 in Banca dati Asgi) la Corte di Cassazione, ripresi i giudizi dopo i due rinvii pregiudiziali alla CGUE conclusi con le sentenze del 25.11.2020 nelle cause C-303 e C-302/19, ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 2, co. 6-bis del d.l. 69/1988 nella parte in cui prevede modalità di calcolo meno favorevoli rispetto agli italiani degli assegni al nucleo famigliare per i lavoratori stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo e del permesso unico di lavoro. Le due ordinanze suscitano molte perplessità. Innanzitutto il ricorso per Cassazione proposto dall’INPS riportava un unico motivo consistente nella asserita inesistenza del contrasto tra norma nazionale e direttive (2003/109 e 2011/98), avendo i giudici di merito deciso a suo sfavore facendo applicazione diretta del diritto dell’Unione. La Corte di Giustizia, al riguardo interpellata, ha affermato che il contrasto esiste e quindi alcuno spazio residuava per una diversa interpretazione della Corte di Cassazione essendo riservata alla Corte di Giustizia l’interpretazione del diritto dell’Unione. La Corte di Cassazione ha, tuttavia, sostenuto che non era possibile procedere alla disapplicazione (come avevano fatto i giudici di merito) in quanto «nel caso di specie non è individuabile una disciplina self-executing di tale matrice direttamente applicabile ... giacché il diritto dell’Unione non regola direttamente la materia dei trattamenti di famiglia». Come noto, l’obbligo di parità di trattamento è contenuto in norme dell’Unione e la valutazione circa la sussistenza dei requisiti di «auto esecutività» non può che riguardare la disciplina della parità, non certo quella della prestazione. Come ha avuto modo di chiarire e ribadire la giurisprudenza di merito, è il precetto contenuto nelle due direttive in questione (art. 11 dir. 2003/109 e art. 12 dir. 2011/98) ad essere sufficientemente chiaro, preciso e incondizionato, da imporsi sul diritto nazionale.
Peraltro l’eccezione proposta dalla Cassazione (con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost.) riguarda il solo comma 6-bis e qualora la Corte Costituzionale – stante l’accertato conflitto con il diritto UE – dovesse dichiarare incostituzionale tale disposizione, risulterebbe applicabile anche agli stranieri la norma generale di cui al comma 6. Sicché l’esito sarebbe dunque il medesimo cui erano giunti i giudici di merito mediante la disapplicazione della deroga e l’affermazione del carattere vincolante del principio paritario fissato dal diritto dell’Unione.
Si segnala che, a pochi giorni di distanza da tali pronunce, il Tribunale di Treviso con ordinanza in data 29 aprile 2021 (in Banca dati Asgi) ha ribadito che sussiste il diritto alla percezione degli assegni famigliari anche per i famigliari stranieri non presenti sul territorio nazionale, per il periodo in cui il ricorrente era titolare di permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, in applicazione appunto della sentenza della CGUE del 25.11.2020 secondo cui l’art. 11, par. 1 lett, d) della dir. 2003/19 osta ad una disposizione come l’art. 2, co. 6-bis della legge 153/88 ed ha quindi disapplicato tale disposizione.
 
Certificato di idoneità alloggiativa
Con ordinanza in data 16.3.2021 il Tribunale di Bergamo (in Banca dati Asgi) si è nuovamente pronunciato sul tema dell’aumento immotivato e sproporzionato dell’importo da versare per ottenere il certificato di idoneità alloggiativa disposto dal Comune di Covo che dagli euro 50 iniziali era passato ai 210 (ridotto nelle more del giudizio ad euro 110,00) dichiarandone la natura discriminatoria e sottolineando che «La certificazione di idoneità alloggiativa è un atto amministrativo volto ad attestare l’adeguatezza di un alloggio dal punto di vista igienico sanitario richiesto dalle amministrazioni per il rilascio di alcuni documenti quali il permesso di soggiorno di lungo periodo, anche nell’interesse di familiari conviventi, ed il nulla osta per il ricongiungimento familiare (cfr. artt. 9 e 29, co. 3, TUI, nonché art. 16, co. 1, lett. c), d.p.r. 394/1999), al fine di poter assicurare le condizioni minime di vivibilità degli spazi ad uso abitativo (scongiurando così situazioni di degrado e/o pregiudizio delle condizioni di vita dei residenti). Ne consegue che l’imposizione di una condizione (irragionevolmente) più gravosa ai fini del rilascio degli stessi è in grado di compromettere il riconoscimento e l’esercizio del diritto degli stranieri all’unità familiare (tutelato ex art. 8 CEDU), all’accesso al pubblico impiego o alle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale o ancora alle erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, per i quali è necessario possedere un permesso di lungo periodo». Il Tribunale di Bergamo ha altresì condannato il Comune di Covo a restituire la somma di euro 100,00 (differenza fra l’importo come aumentato dalla delibera e quello successivamente ridotto) a tutti gli stranieri che avessero fatto richiesta del certificato di idoneità alloggiativa pagandolo euro 210,00 nel periodo di validità della delibera e cioè dal mese di ottobre 2014 al mese di gennaio 2019.
 
Natura del diritto alla non discriminazione
La Corte di Cassazione con sentenza del 15.2.2021 n. 3842 (in Banca dati Asgi) ha respinto il ricorso del Comune di Civitanova Marche avverso la sentenza della Corte di Appello di Ancona che, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Macerata, aveva condannato il predetto Comune per aver posto in essere nei confronti di una famiglia rom un comportamento indirettamente discriminatorio, mediante l’emanazione della delibera n. 413/2013 apparentemente neutrale, impedendone lo stanziamento compatibile con le sue modalità di vita realizzando un effetto di esclusione. La vicenda trae origine da un comportamento del Comune di Civitanova Marche che aveva fortemente voluto impedire l’insediamento sul proprio territorio di una famiglia di origini rom (una mamma con due figlie delle quali una minore) allorquando dopo anni di anonimato, visto che la minore frequentava regolarmente la scuola, la donna chiedeva che le venisse assegnata un’area dove potersi collocare stabilmente ed in sicurezza. Da quel momento, come ha evidenziato la Corte di Appello di Ancona, la reazione alla richiesta della famiglia è stata caratterizzata da un generale atteggiamento ostruzionistico da parte dell’amministrazione, realizzato mediante atti apparentemente legittimi quali: la negazione all’iscrizione anagrafica, continue visite delle forze dell’ordine, l’emanazione di una delibera che vietava il campeggio nell’intera area comunale, lo spostamento forzoso nella zona industriale del paese a distanza di chilometri dalla scuola della minore e ove non erano presenti mezzi pubblicie, per finire, svariate contravvenzioni fino poi allo sgombero forzoso. La sentenza della Corte di Cassazione evidenzia la corretta valutazione, operata dai giudici di merito, della condotta discriminatoria posta in essere dal Comune attraverso la sequenza cronologica dei comportamenti, pressoché contestuali e segnatamente la emanazione della delibera sopra citata in risposta alla richiesta della donna rom dell’individuazione di un’area attrezzata in cui potersi stabilire. La Corte di Cassazione ha sottolineato che il diritto a non essere discriminati si configura, in considerazione del quadro normativo costituzionale (art. 3 Cost.), sovranazionale (dir. 2000/43/CE) ed interno (artt. 3 e 4, d.lgs. 215/2003 e 44 d.lgs. 286/1998) di riferimento come un diritto soggettivo assoluto da far valere davanti al giudice ordinario a nulla rilevando che il dedotto comportamento discriminatorio consista nella emanazione di un atto amministrativo perché, accertata la discriminazione, il potere del giudice ordinario non si estende alla possibilità di annullare l’atto, bensì è diretto ad impedire la realizzazione degli effetti in capo al soggetto discriminato.