Asilo e protezione internazionale

Stampa

LO STATUS DI RIFUGIATO

Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
Il Tribunale di Bologna, con decreto del 16.12.2020 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad una donna, proveniente dall’Edo State (Nigeria), vittima di tratta ai fini di sfruttamento sessuale. Particolarmente interessante quanto osservato dai giudici bolognesi in merito alla valutazione di credibilità.
 
La ricorrente, infatti, è riuscita a rivelare le vicende relativa al viaggio ed alle violenze subite, per la prima volta, solo nel corso del procedimento giurisdizionale. Con riferimento a tale aspetto, il Tribunale sottolinea le palesi difficoltà nel disvelare le traumatiche esperienze passate in Libia, considerandole sintomatiche del trauma psicologico «che accomuna molte vittime di tratta, per le quali rievocare vissuti tanto dolorosi ed imbarazzanti provoca vergogna e tendenza alla rimozione degli aspetti più inquietanti».
Con riferimento al rischio prognostico in caso di rimpatrio, è stato evidenziato il rischio che la ricorrente non solo subisca pesanti ritorsioni da parte dei responsabili della tratta in ragione del mancato pagamento del viaggio, ma sia nuovamente oggetto di tratta, essendo entrata nella rete degli sfruttatori, o possa subire attentati alla vita o all’integrità fisica da parte degli appartenenti all’organizzazione criminale che potrebbero temere delazioni o accuse.
 
Con decreto del 7.12.2020 anche il Tribunale di Messina , chiamato a decidere sul ricorso proposto da una giovane donna nigeriana, vittima di tratta, si è soffermato sulle peculiarità della valutazione di credibilità. In particolare, nel decreto in esame si dà atto della presenza di elementi di incoerenza e dell’assenza di specifici dettagli, evidenziando come tali elementi possano essere riconducibili allo stato psicologico della ricorrente, alle violenze subite (anche durante il viaggio) ed alle difficoltà nell’accesso emotivo ai ricordi traumatici. In merito alla coerenza esterna, i giudici siciliani esaminano con accuratezza tutte le più aggiornate informazioni sul Paese d’origine, trovando specifico riscontro su molti degli elementi indicati dalla ricorrente.
 
Sul particolare gruppo sociale rappresentato dalle donne vittima di tratta si sofferma anche il Tribunale di Milano, nel decreto del 21.10.2020 . Di particolare rilievo quanto osservato dai giudici meneghini in merito al fatto che l’allegazione di una storia di tratta, che presenti fatti credibili, riconducibili ad almeno alcuni degli indicatori sopra menzionati, è da considerarsi completa non soltanto quando vi sia un’esplicitazione della richiedente in merito alla propria condizione di vittima, ma anche quando vi sia un riferimento agli elementi sintomatici di una simile esperienza nonostante alcune lacune nella narrazione (quali ad esempio, un giuramento ju-ju, il coinvolgimento di una persona che, sin dal Paese d’origine avrebbe organizzato il viaggio per la Libia, con promesse di lavori inesistenti, ecc.). Nel decreto si legge, infatti, come nelle peculiari questioni relative alla tratta di esseri umani non solo sia difficile che emerga in maniera esplicita il fatto che la richiedente sia stata vittima di tratta, ma come talvolta tale condizione venga espressamente negata dalla richiedente stessa, almeno nelle fasi iniziali.
 
Il Tribunale di Milano, con due decreti del 30.9.2020  e del 23.9.2020 , ha riconosciuto lo status di rifugiato, rispettivamente ad una donna della Costa D’Avorio e ad una donna del Camerun, in ragione degli atti persecutori subiti per motivi costantemente legati alla loro appartenenza a un genere (e, dunque, causalmente connessi ai motivi di cui all’art. 8 del d.lgs. 251/2007). Nell’analisi del genere (femminile, nel caso in esame) come fattore di inclusione, il Tribunale, in entrambi i casi, ha esaminato, in particolare, le Linee guida di UNHCR intitolate «La persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati». In particolare, nel decreto del 23.9.2020, i giudici meneghini sottolineano come in seguito alla ratifica, da parte dell’Italia (con la legge 27.6.2013 n. 77) della «Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica» i principi e le indicazioni già fornite dalle citate Linee guida assumano un valore vincolante anche per l’Italia.
 
La Suprema Corte, con ordinanza n. 27258/2020 ha cassato il decreto con il quale il Tribunale di Milano – decidendo sul ricorso proposto da una donna nigeriana fuggita dal Paese d’origine per sottrarsi alla condizione di violenta sottomissione nella quale il proprio compagno la aveva fatta vivere e per paura delle violenze che avrebbe potuto subire da parte della setta segreta cui il compagno aveva aderito – ha respinto le domande della ricorrente. In particolare, la Corte di cassazione ha affermato che i giudici meneghini si erano limitati ad escludere il rischio di persecuzione o grave danno da parte del compagno con il quale viveva, senza considerare se il predetto rischio sussistesse con riferimento alla dedotta condizione di donna in un contesto socio familiare particolarmente degradato.
Ad un cittadino del Ghana affetto da una malformazione ai piedi causata dalla ecterodattilia – il quale aveva riferito, con dichiarazioni ritenute credibili dal Collegio, di essere stato oggetto di scherno e derisione a causa della sua condizione fisica e di non aver trovato protezione dalle autorità statali – il Tribunale di Milano, con decreto del 30.9.2020  – dopo un’attenta analisi delle informazioni sul Paese d’origine che confermano come la disabilità, in Ghana, sia oggetto di stereotipi che portano le persone disabili ad essere discriminate ed escluse dalla società – ha riconosciuto lo status di rifugiato. Particolarmente interessanti le considerazioni dei giudici meneghini relative agli elementi necessari per la qualificazione del particolare gruppo sociale, anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia europea (cause riunite da C-199/12 a C-201/12) X, Y and Z v. Minister voor Immigratie en Asiel del 7 novembre 2013), nella quale si sottolinea come al richiedente non possa essere chiesto di nascondere la caratteristica fondante il gruppo sociale al fine di evitare la persecuzione.
 
Opinioni politiche
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 22873 del 21.10.2020, ha affermato come erroneamente i giudici di prime cure – decidendo sul ricorso di un cittadino ucraino fuggito dal Paese d’origine perché renitente alla leva – abbiano omesso di considerare l’evenienza della «plausibile o prevedibile sottoposizione» del ricorrente, in caso di rimpatrio, a un procedimento penale che – proprio in ragione del rischio di un coinvolgimento, anche solo indiretto, in un conflitto caratterizzato dalla commissione, o dall’alta probabilità di essa, di crimini di guerra e contro l’umanità – prevederebbe l’imposizione di una sanzione che (a prescindere dal fatto che non sia in sé sproporzionata) costituisce in sé un atto di persecuzione. La Suprema Corte ha sottolineato come, a fronte della prevedibile o plausibile futura sottoposizione ad un procedimento penale (che integra un atto di persecuzione), appaiano del tutto irrilevanti le circostanze relative all’eventuale costrizione del ricorrente all’arruolamento in caso di rimpatrio e alle modalità d’impiego dello stesso nell’ambito delle unità operative dell’esercito ucraino.
 
Nazionalità
Il Tribunale di Milano, con decreto del 26.10.2020 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino turco di etnia curda, ritenendo fondati il rischio di persecuzione per motivi politici e di nazionalità per la militanza politica nel partito HDP, il rischio di persecuzione nel corso della detenzione (che conseguirebbe alla renitenza alla leva) sempre per motivi politici e di nazionalità ed il rischio di persecuzione nel corso del servizio militare per motivi di nazionalità (in mancanza del diritto all’esercizio dell’obiezione di coscienza). Nel provvedimento, in cui si legge un’accurata ed analitica ricostruzione delle fonti relative ai rapporti tra il governo turno e la minoranza curda (che testimoniano l’esistenza di continue forme di discriminazione), alle violenze subite dai curdi durante il servizio militare ed alle plurime persecuzioni dei curdi per ragioni politiche (che riguardano non solo i dirigenti dell’HDP, ma anche i semplici aderenti), il Collegio si sofferma in particolare sul riconoscimento del fattore di protezione rappresentato dalla nazionalità, concetto che designa l’appartenenza ad un gruppo etnico e linguistico e che può, talvolta, coincidere con il concetto di “razza”.
 
Agente di persecuzione
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 24250/2020– esaminando il ricorso proposto da una richiedente che aveva riferito, dinanzi al Tribunale di Roma, di essere fuggita dal Paese d’origine perché perseguitata, per motivi religiosi, da parte della polizia locale – ha affermato che il riferimento allo «Stato» contenuto nell’art. 5, lett. a) del d.lgs. 251/2007 deve essere inteso per ragioni «logiche, sistematiche e storiche», non come Stato-ordinamento, ma come Stato-apparato, vale a dire come il «complesso delle autorità, delle persone e delle organizzazioni cui lo Stato-ordinamento attribuisce il potere di compiere gli atti giuridici e le attività materiali per il perseguimento dei propri fini istituzionali».
 
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
D.lgs. 19.11.2007 n. 251, art. 14, lett. a) e b)
Il Tribunale di Brescia, con decreto del 25.11.2020  ha riconosciuto la protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. b), d.lgs. 19.11.2007 n. 251, ad un ricorrente minorenne della Costa D’Avorio, vittima di lavoro forzato nel Paese d’origine da parte della sua famiglia, associato poi ai microbes e poi vittima di traffico transnazionale. Il Tribunale, compiutamente esaminate le informazioni relative alla condizione dei minori orfani in Costa D’Avorio, ha ritenuto che, in ragione della vulnerabilità del ricorrente, della sua giovane età e della mancanza di una rete parentale di riferimento, potesse ritenersi sussistente il rischio effettivo di essere nuovamente coinvolto nel traffico di esseri umani ed al lavoro forzato.
 
Ad un cittadino etiope di etnia oromo – figlio di un membro dell’Oromo Liberation Front e più volte sottoposto a periodi di detenzione in ragione dell’etnia e della partecipazione a manifestazioni politiche di sostegno al predetto partito e di opposizione alle forze di governo – il Tribunale di Bologna, con decreto del 2.10.2020 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria. I giudici bolognesi, alla luce delle più recenti informazioni relative al miglioramento della situazione politica in Etiopia, hanno comunque ritenuto sussistente il rischio di carcerazione del ricorrente (per le attribuite opinioni politiche) ed il conseguente rischio di trattamenti inumani e degradanti nelle carceri etiopi.
 
Ad un cittadino ucraino, originario di Odessa, il Tribunale di Brescia, con decreto del 29.7.2020 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b) cit. Nel caso portato all’attenzione dei giudici bresciani il ricorrente aveva riferito di aderire alla religione dei testimoni di Geova e tale elemento è stato esaminato dal Tribunale per concludere che, alla luce delle fonti più aggiornate consultate, l’obiezione di coscienza per motivi religiosi non fosse garantita (in particolar modo nel distretto di Odessa), in quanto, nonostante l’esistenza di una norma che la consentiva, per ottenere il rispetto delle vigenti disposizioni di legge, sistematicamente violate dalle autorità amministrativa, si doveva ricorrere all’autorità giudiziaria. In merito alla circostanza che la pena carceraria per la renitenza alla leva fosse solo eventuale, nel decreto si sottolinea che il ricorrente – sottrattosi all’arruolamento dopo essersi registrato nel distretto militare per poter usufruire dell’esonero dalla chiamata alle armi sino al compimento dei tre anni del figlio – avrebbe corso un rischio effettivo di essere arrestato.
 
Nel decreto del 15.7.2020 il Tribunale di Brescia ha esaminato il diverso caso di un cittadino ucraino – che, dapprima inserito nel corpo di polizia dell’Ucraina e poi abbandonato il servizio per evitare di essere forzatamente inviato al fronte – è stato ritenuto dalle autorità disertore. Di particolare interesse l’esame delle fonti relative al Paese d’origine compiuta dal Collegio (che ha escluso la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato in ragione del fatto che il ricorrente non aveva invocato motivi riconducibili all’obiezione di coscienza), dalla quale emergono le differenze tra il trattamento dei renitenti alla leva e quello dei disertori.
 
Il rischio effettivo di subire trattamenti inumani e degradanti da parte dei ribelli militanti del Delta del Niger – ai danni di un ricorrente nigeriano di Port Harcourt – giustifica il riconoscimento della protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. b). Nel decreto del 19.12.2020 il Tribunale di Venezia , ritenuto credibile il racconto del ricorrente (anche alla luce dei chiarimenti e delle precisazioni fornite nel corso dell’audizione in Tribunale), ha esaminato il profilo della coerenza esterna, con un attento richiamo alle più recenti fonti di informazione sulle modalità di azione dei gruppi militanti nel Delta del Niger.
 
Con decreto del 7.10.2020 il Tribunale di Brescia ha riconosciuto la protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. b) cit., ad un cittadino del Togo, in ragione del rischio effettivo di subire trattamenti inumani e degradanti da parte del capo del villaggio e della comunità che aveva accusato i di lui genitori di stregoneria. Con particolare riferimento all’autore del «grave danno», i giudici bresciani si soffermano sugli ampi poteri attribuiti in Togo al capo villaggio, di cui aveva riferito il ricorrente e confermati dalle informazioni sul Paese d’origine consultate dal Collegio. In ragione dei predetti poteri, della persistenza dei riti della religione tradizionale, dell’ampio ricorso alle pratiche di stregoneria e dell’assoluta libertà di gestione dei capi villaggio – i quali devono rispondere solo all’URO (autorità suprema tradizionale) e non alle autorità statali – il Tribunale ha ritenuto fondato il timore del ricorrente di essere, in caso di rimpatrio, lasciato alla mercé del capo villaggio ed in tal caso o venire assoggettato al rito in luogo dei genitori ovvero, avendoli accompagnati nella fuga, di essere ritenuto responsabile e quindi essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti senza potersi avvalere della protezione delle autorità del proprio Stato.
 
Con ordinanza n. 21437/2020 del 6.10.2020, la Corte di Cassazione ha ribadito che costringere una donna ad un matrimonio forzato vuol dire «calpestarne la dignità e sottoporla ad un trattamento degradante» e che, ove ritenuto fondato un timore di tal genere, è configurabile la fattispecie di cui alla lettera b) dell’art. 14 del d.lgs. 215/2007. Nel decreto oggetto del ricorso, secondo la Suprema Corte, il Tribunale di Venezia è venuto meno al proprio dovere di cooperazione istruttoria, omettendo di approfondire se il matrimonio forzato (cui i genitori della ricorrente volevano costringerla) delle giovani donne fosse o meno una pratica tollerata dalle autorità dello Sri Lanka e non verificando, quindi, la possibilità di un’effettiva protezione dalle dette autorità.
 
QUESTIONI PROCESSUALI
Termini dimidiati per la proposizione del ricorso e procedure accelerate
La Suprema Corte, con ordinanza n. 23121/2020 – chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità dei termini ridotti di cui all’art. 28-bis, co. 2, d.lgs. 28.1.2008 n. 25 – ha precisato che la valutazione di infondatezza rappresenta un prius logico rispetto all’adozione delle modalità e delle forme della procedura accelerata con conseguente operatività del dimezzamento dei termini per impugnare. La Corte di cassazione ha, inoltre, chiarito come non possa non individuarsi la disciplina della procedura accelerata per il solo fatto che, in base ad una valutazione postuma, la Commissione per la protezione internazionale abbia adottato una decisione di infondatezza della domanda all’esito dell’istruttoria e della procedura ordinaria, non potendo quella accelerata essere recuperata a posteriori a seconda del contenuto della decisione adottata dalla Commissione. Nella decisione in esame, la Corte di cassazione ha chiarito che il termine di 15 giorni può trovare applicazione solo se la procedura sia stata adottata sin dall’inizio (ovvero sin dalla proposizione della domanda alla questura) nelle forme accelerate (o se si tratti di ricorrente trattenuto nei Centri di cui all’art. 14, d.lgs. 286/1998).
 
Paesi di origine sicura
La Suprema Corte, con sentenza n. 25311/2020, con riferimento alla questione della rilevanza del ius superveniens conseguente al d.m. 4.10.2019, a proposito della individuazione dei Paesi di origine sicuri, ai sensi dell’art. 2-bis del decreto legislativo 28.1.2008, n. 25, posta dall’ordinanza interlocutoria n. 7841/2020, ha affermato che la designazione di Paese di origine sicuro può produrre i suoi effetti solo per i ricorsi giurisdizionali dei soggetti provenienti dagli Stati indicati nell’elenco (o dagli apolidi presenti nel loro territorio) proposti dopo l’entrata in vigore del d.m. 4.10.2019. I giudici di legittimità hanno affermato tale principio in ragione del fatto che la presentazione del ricorso contro la decisione della Commissione territoriale richiede il rispetto di oneri di allegazione rafforzati in ordine alle ragioni per le quali il Paese deve essere considerato non sicuro per la situazione particolare in cui il richiedente si trova (ovvero alle ragioni per le quali, nonostante l’indicazione desumibile – in generale – dall’inserimento del Paese nel novero di quelli cd. sicuri, sussistano comunque i presupposti della protezione internazionale). Nella decisione in esame si ribadisce come i principi del giusto processo (art. 111 Cost.) ostino al mutamento in corso di causa delle regole alle quali deve essere informato l’onere di allegazione. La Suprema Corte ha affermato, inoltre, che nelle cause per le quali ratione temporis rileva la designazione di un Paese come sicuro, ove l’onere di allegazione sia dal ricorrente rispettato, resta comunque intatto per il giudice il potere-dovere di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi utili a indagare sulla sussistenza degli indicati presupposti della protezione internazionale.
 
Udienza di comparizione e rinnovazione dell’audizione del ricorrente
La Corte di cassazione, con la sentenza 21584/2020 – con motivazioni del tutto coincidenti con quelle di cui alla sentenza 26124/2020 –, ha esaminato la questione, rimessa all’udienza pubblica, relativa all’individuazione dei casi in cui, in assenza della videoregistrazione del colloquio svolto nella fase amministrativa, il giudice abbia l’obbligo di procedere all’audizione del ricorrente. All’esito di un attento esame dell’art. 16 della c.d. Direttiva Procedure, dell’art. 35-bis d.lgs. 25/2008 e delle pronunce della Corte di giustizia sulle questioni relative alla necessità della rinnovazione dell’audizione ed alle modalità di esame dei fatti nuovi, emersi dopo l’audizione svolta nella fase amministrativa, gli Ermellini hanno affermato che «nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinnanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) quest’ultimo nel ricorso non ne faccia istanza, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire i predetti chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile».
 
Procura
Con ordinanza interlocutoria n. 28208/2020, la Seconda sezione civile della Suprema Corte di cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite delle questioni relative alle condizioni in forza delle quali possano ritenersi soddisfatti i requisiti di cui all’art. 35-bis, co. 13, d.lgs. 25/2008 (con riferimento al requisito dell’autenticazione da parte del difensore della sola sottoscrizione, senza specifici riferimenti alla data) nonché alla ritualità di un’autenticazione riferita espressamente alla sola sottoscrizione (con la conseguente dubbia possibilità di estendere la volontà certificativa oltre quanto dichiarato con la formula «è vera la firma» o «per autentica della sottoscrizione»).
 
Onere della prova e valutazione di credibilità
Il tema della valutazione di credibilità delle dichiarazioni rese da un ricorrente che aveva allegato, come fattore di inclusione, l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale (rappresentato dall’essere omosessuale) è stato esaminato dalla Suprema Corte nell’ordinanza 23891/2020. Nella decisione in esame, i Giudici di legittimità hanno evidenziato come la decisione del Tribunale di Venezia – che aveva ritenuto non credibile il ricorrente perché non aveva dimostrato un «percorso di consapevolezza sofferta» nonostante la presenza di leggi omofobe nel Paese d’origine – riveli la sussistenza di un «giudizio morale, che risponde ad una mera opinione personale del giudicante» e non esprime una valutazione che deve essere basata, invece, su regole oggettive. La Suprema Corte ha, altresì, precisato come l’affermazione – dei giudici di prime cure – della sussistenza di un legame “fisiologico” tra ricerca inesausta di rapporti ed orientamento sessuale si manifesta «frutto di un pregiudizio ingiustificato» e di una lettura di «mortificazione punitiva – sul piano della “moralità sociale” – degli orientamenti omosessuali».
 
Sulla valutazione di credibilità torna a pronunciarsi la Corte di cassazione, con ordinanza 22527/2020  che – dopo aver ribadito il principio per cui la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente asilo non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poiché incombe al giudice, nell’esercizio del detto potere-dovere di cooperazione, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi – ha affermato che l’art. 3, co. 5, d.lgs. 251/2007 prevede, come doverosa, una valutazione complessiva e non atomistica della narrazione ed una generale attendibilità del richiedente asilo, rispetto alla quale deve essere valorizzato anche il beneficio del dubbio.
 
La Suprema Corte, con ordinanza 24183/2020, torna a pronunciarsi sul significato dell’espressione «è, in generale, attendibile» di cui all’art. 3, co. 5, lett. e) del d.lgs. 251/2007. Nella decisione in esame i Giudici di piazza Cavour affermano che «pur senza escludere, in astratto, che una specifica incongruenza relativa anche soltanto ad un profilo accessorio possa, per il ruolo specifico della circostanza narrata, inficiare del tutto la valutazione di credibilità del ricorrente la norma, ponendo come condizione che il racconto sia “in generale, attendibile” non può che essere intesa nel senso di ritenere sufficiente che il racconto sia credibile “nell’insieme” – e dunque, attribuendo alle parole il loro esatto valore semantico, e cioè all’inciso “in generale” quello di “complessivamente” o “globalmente”».
 
Sull’interpretazione dell’art. 3, co. 5, d.lgs. 251/2007 e sui limiti del suo sindacato in Cassazione si è pronunciata la Suprema Corte con l’ordinanza n. 28782/2020. Nella decisione in esame la Corte precisa come i criteri del citato art. 3 siano «non vincolanti e non tassativi» e come, di conseguenza, non esista alcun «automatismo legale tra il fatto che il racconto del richiedente protezione soddisfi le condizioni elencate nell’art. 3, co. 5, d.lgs. 251/07, ed un preteso obbligo del giudicante di credergli», ben potendo il giudice ritenere inattendibile il richiedente asilo anche quando siano soddisfatti tutti i criteri di cui alle lettere (a)-(d) dell’art. 3 cit., «se sussistano altri elementi dimostrativi della falsità delle sue dichiarazioni», da valutare anche in ragione del contegno processuale della parte, ai sensi dell’art. 116, co. 2, ultimo periodo, c.p.c.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla Suprema Corte in precedenti decisioni (cfr. Cass. 8819/2020), nell’ordinanza in esame gli Ermellini hanno affermato che la valutazione con cui il giudice di merito reputi attendibile od inattendibile quanto riferitogli dallo straniero che richieda concessione della protezione internazionale, in tutte le sue forme, lo stabilire se questi sia incorso in contraddizioni, il valutare se tali contraddizioni riguardino elementi decisivi o di dettaglio, «costituiscono altrettanti giudizi di fatto, sindacabili in sede di legittimità solo in tre casi: quando il giudice di merito abbia trascurato di valutare un fatto controverso e decisivo; quando non abbia in alcun modo motivato la propria decisione; quando abbia adottato una motivazione insanabilmente contraddittoria od assolutamente incomprensibile».
Mentre nella pronuncia n. 23891/2020, sopra citata, la Suprema Corte aveva censurato la decisione dei giudici di prime cure proprio per aver valutato il ricorrente inattendibile, sulla base di una opinione soggettiva, nella decisione in esame i Giudici di Piazza Cavour affermano come, in sede di legittimità, «non potrà mai ascriversi, quale error in iudicando o in procedendo, di avere valutato l’attendibilità del richiedente in base ad una “opinione soggettiva”, perché questo equivarrebbe ad addebitargli come errore quel che invece costituisce la quidditas della sua funzione».
Nell’ordinanza 28782/2020 la Suprema Corte – con un’interpretazione chiaramente restrittiva delle ipotesi in cui può ritenersi ammissibile il sindacato di legittimità sulle motivazioni relative alla valutazione di credibilità (interpretazione restrittiva che si legge nella scelta dell’aggettivo “estrema”) – conclude ritenendo che l’art. 3, co. 5, d.lgs. 251/2007 potrà dirsi violato solo «nell’ipotesi estrema in cui il giudice, nel decidere sulla domanda di protezione, affermi che non debba tenersi conto delle circostanze elencate dalla suddetta norma».
 
Dovere di cooperazione e informazioni sul Paese d’origine (COI)
Con ordinanza n. 24010/2020, la Suprema Corte ha ribadito che il dovere di cooperazione istruttoria del giudice, una volta assolto da parte del richiedente asilo il proprio onere di cooperazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti ad una vicenda personale nella quale siano presenti aspetti contraddittori che ne mettano in discussione la credibilità, in quanto tale dovere è finalizzato a raggiungere il necessario chiarimento su realtà e vicende che presentano una peculiarità rispetto a quelle di altri Paesi e che, solo attraverso informazioni acquisite da fonti affidabili, riescono a dare una logica spiegazione alla narrazione dell’asilante. Nella decisione in esame, gli Ermellini hanno ribadito che l’accertamento della predetta situazione – e dunque anche l’esercizio dei poteri-doveri istruttori – sul piano strettamente logico, ancor prima che cronologico, deve precedere e non seguire la valutazione di credibilità e che la ritenuta inattendibilità della narrazione non può essere posta a base del diniego di cooperazione istruttoria.
 
Sul tema delle informazioni sul Paese d’origine (c.d. COI) si è soffermata ancora la Corte di cassazione per precisare che il giudice di merito, ai fini della valutazione di una situazione di violenza indiscriminata, è tenuto a indicare specificatamente le fonti in base alle quali sia stato svolto l’accertamento richiesto e non può limitarsi a dar conto di imprecisate informazioni prive di attinenza alla situazione presa in considerazione dall’art. 14, lett. c), d.lgs. 251/2007 (Cass. 29031/2020). È tenuto ad indicare l’autorità o ente dalla quale la fonte consultata proviene e la data o l’anno di pubblicazione, in modo da assicurare la verifica del rispetto dei requisiti di precisione e aggiornamento previsti dal richiamato art. 8, co. 3, d.lgs. n. 25 del 2008, che sono garantiti anche dalla specifica provenienza delle COI indicate in detta disposizione (Cass. 29260/2020).
 Con specifico riferimento al tema delle COI ed all’onere di allegazione del ricorrente che impugni una decisione di rigetto che si ritiene abbia utilizzato informazioni non pertinenti ed aggiornate, la Corte di Cassazione, con ordinanza 25545/2020 ha chiarito che, ove il giudice di merito non abbia utilizzato fonti “attendibili”, “idonee” ed “aggiornate”, è sufficiente che la censura che il ricorrente prospetta in sede di legittimità evidenzi la non attualità delle fonti, in quanto la data di esse costituisce un elemento oggettivo che non necessita di ulteriori specificazioni critiche, pur essendo necessario che venga allegata una condizione attuale del Paese di origine diversa e più grave di quella rappresentata dalle informazioni (erroneamente) utilizzate, preservandosi in tal modo l’interesse all’impugnazione. Da tale affermazione consegue che il ricorrente non ha alcun onere di indicare specificamente, riportandone il contenuto, fonti alternative a quelle utilizzate, non essendo tenuto a supplire ad una carenza istruttoria che costituisce oggetto di uno specifico obbligo ex lege del giudice di merito.
 
LA RIFORMA DELLA DISCIPLINA DELLA PROTEZIONE SPECIALE
Con d.l. n. 130/2020, entrato in vigore il 21 ottobre 2020, è stata riformata l’intera disciplina della protezione speciale introdotta dal d.l. n. 113/2018 in sostituzione della protezione umanitaria, ed è stato parzialmente ripristinato l’originario testo dell’art. 5, co. 6 TU d.lgs. 286/98, nella parte relativa al dovere di rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato, che era stata espunta dal cd. decreto sicurezza del 2018. Quanto alla protezione speciale, il d.l. n. 130 ha ampliato i presupposti per il suo riconoscimento, riformulando interamente l’art. 19, co. 1.1 TU immigrazione e prevedendo due autonomi percorsi per conseguirla (co. 1.2.), uno nell’ambito del sistema della protezione internazionale, l’altro con richiesta formulata direttamente al questore ma con onere di rilascio di parere della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.
Quanto, invece, all’art. 5, co. 6 TU, la nuova formulazione non comprende più i «seri motivi, in particolare di carattere umanitario» dell’originaria previsione ma esclusivamente gli obblighi costituzionali o internazionali, sussistendo i quali va rilasciato alla persona straniera un permesso di soggiorno. La nuova disposizione ha un’autonoma collocazione nel TU (nella parte relativa al soggiorno) ma è espressamente richiamata anche nella nuova formulazione dell’art. 19, che riguarda i divieti di espulsione, respingimento ed estradizione, l’accertamento dei quali determina il riconoscimento della protezione speciale nei due percorsi dianzi indicati.
Da precisare che il nuovo permesso di soggiorno per protezione speciale ha una durata biennale e può essere convertito in motivi di lavoro (art. 6, d.l. n. 130/2020), diversamente dalla previsione originaria.
Il d.l. n. 130/2020 prevede anche una disposizione transitoria, stabilendo che le nuove previsioni «si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto avanti alle Commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei Tribunali», con esclusione dei giudizi di rinvio dalla Cassazione (art. 15) e non essendo compresi nemmeno quelli ancora pendenti davanti alle Corti d’appello, destinati certamente ad esaurirsi dopo la riforma processuale di cui al d.l. n. 13/2017 ma ancora presenti in gran numero.
L’immediata applicabilità della nuova, ampia, ipotesi di protezione speciale, sia nei procedimenti amministrativi che davanti ai Tribunali, apre varie questioni, le quali dovranno essere affrontate soprattutto in sede giudiziale. Si tratterà, infatti, di comprendere se le due fattispecie siano sovrapponibili o se l’una sia a compasso più largo dell’altra, così come se, a fronte di identici diritti ad entrambe sottesi, sia ancora attuale la necessità di operare la comparazione tra la condizione attuale del/della richiedente asilo con il rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali in caso di rimpatrio.
La prima questione riguarda la disciplina applicabile nei periodi temporali delle riforme succedutesi nel 2018 e nel 2019, nel tentativo di dare concretezza ed effettività al regime intertemporale previsto dal d.l. 2020.
La seconda trae origine dai principi espressi nella storica sentenza n. 4455/2018 della Cassazione (seguita, invero, da altre importanti pronunce, anche a Sezioni Unite), i quali hanno avuto una variegata e diversificata declinazione, sia nella giurisprudenza di merito che in quella di legittimità, non sempre coerente o conforme, soprattutto in relazione all’importanza assunta dall’integrazione sociale in Italia in riferimento all’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Il d.l. n. 130/2020, richiamando implicitamente quel diritto tra i vari divieti di espulsione, respingimento ed estradizione, ha precisato i criteri con i quali esso va accertato. Criteri che non richiedono necessariamente la comparazione pretesa per la protezione umanitaria, o meglio il bilanciamento propende oggi verso un maggior rilievo della vita in Italia, tale per cui è il rimpatrio in sé a rappresentare violazione del diritto alla vita privata, sradicando la persona straniera dal contesto sociale in cui si è integrata.
Questioni aperte delle quali la Rivista cercherà di dar conto.
 
LA PROTEZIONE UMANITARIA E LA PROTEZIONE SPECIALE DI CUI AL D.L. N. 130/2020
La nuova formulazione della protezione speciale e, in particolare, l’introduzione della rilevanza del diritto al rispetto della vita privata e familiare, che evoca l’art. 8 CEDU pur non esplicitandolo, ha indotto la Corte di cassazione, con ordinanza 28316/2020, a porsi il problema se, con riguardo alla protezione umanitaria ante riforma 2018 (applicabile alle domande di riconoscimento della protezione internazionale presentate prima del 5 ottobre 2018, data di entrata in vigore del d.l. n. 113/2018, come stabilito dalla Corte di cassazione SU n. 29460/2019), sia ancora pertinente il giudizio di comparazione affermato dalla Suprema Corte a partire dalla sentenza n. 4455/2018, oppure se, tenuto anche conto della nuova disciplina 2020, l’integrazione sociale della persona straniera sia di per sé rilevante, senza necessità di comparazione col Paese di origine. In altri termini, se il rimpatrio di persona straniera integrata in Italia costituisca in se stesso violazione del diritto alla vita privata, il rispetto del quale consente il riconoscimento della protezione umanitaria applicabile anche ai giudizi pendenti davanti alla Corte di cassazione.
Sulla base di tali considerazioni, con detta ordinanza la Cassazione ha chiesto il rinvio alle Sezioni Unite, partendo dalla ricostruzione della non uniforme giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di comparazione, pur originata dal medesimo principio secondo cui anche la protezione umanitaria è ricompresa nell’alveo del diritto d’asilo costituzionale di cui all’art. 10, co. 3 Cost. e dunque «necessariamente collegata ai diritti fondamentali che l’alimentano, sì da assurgere, in via evolutiva e col sostegno dell’art.8 della CEDU, a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione.».
Variegata è stata, nella ricostruzione della Corte, l’individuazione del «preciso contenuto dell’indagine comparativa», quale sia cioè il livello di caratterizzazione soggettiva e quale il nucleo essenziale dei diritti umani a rischio di compromissione in caso di rimpatrio, se la povertà vi rientri, se siano rilevanti i legami familiari nel Paese di origine, se abbia un valore la durata dell’emigrazione, se, infine, possa applicarsi una “comparazione attenuata” laddove più intensa sia la vulnerabilità accertata in giudizio.
Nell’oggettiva difficoltà di parametri certi, e tenendo conto delle novità introdotte dal d.l. n. 130/2020 con riguardo alla nuova fattispecie della protezione speciale, pur non applicabile nei giudizi di legittimità, la Corte introduce un ulteriore criterio valutativo da sottoporre alle Sezioni Unite, ovverosia se il rimpatrio rappresenti in sé rischio di violazione di diritti fondamentali rispetto ai quali l’ordinamento offre protezione, a fronte di un radicamento sociale nel Paese di accoglienza che, precisa l’ordinanza in esame, è «da intendersi riferita non solo all’inserimento lavorativo, che è indice indubbiamente significativo, ma anche ad altri ambiti relazionali rientranti nell’alveo applicativo dell’art. 8», come si evince nella giurisprudenza, anche recente, della Corte EDU.
Ordinanza, dunque, molto importante e sarebbe auspicabile che le Sezioni Unite seguissero il tracciato delineato dall’ordinanza di rimessione, che avrebbe, tra gli altri, l’effetto di unificare i due istituti della protezione umanitaria e della protezione speciale di nuovo conio, entrambi espressione dell’art. 10, co. 3 della Costituzione.
 
Il  Tribunale di Brescia, con decreto 17.11.2020 - RG. 17043/2018 , ha negato il riconoscimento della protezione sussidiaria a richiedente asilo della Costa d’Avorio, escludendo sia l’individualizzazione del rischio di danno grave ex art. 14, lett. b) d.lgs. 251/2007, sia l’esistenza di una violenza indiscriminata e diffusa rilevante ai sensi della lettera c) della medesima norma, pur dando atto che, a seguito della 3^ candidatura alla presidenza di Ouattara, vi sono state repressioni delle manifestazioni di opposizione e varie forze politiche sono state illegittimamente escluse dalla competizione elettorale. Il Tribunale ha, invece, riconosciuto al richiedente asilo la protezione speciale di cui all’art. 19, commi 1 e 1.1 TU immigrazione, dopo avere affrontato la questione della disciplina applicabile per la protezione complementare a seguito della riforma attuata con il recente d.l. n. 130/2020, analizzando la quale ha ritenuto che con esso «Il legislatore ha pertanto nuovamente conformato il diritto d’asilo ex art. 10, co. 3, Costituzione, nel rispetto dei vincoli costituzionali, a partire dai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale della comunità verso i cittadini nel caso stranieri (art. 2, co. 2, Costituzione), e di quelli europei ed internazionali ex art. 117, co. 1, Costituzione (artt. 19, paragrafo 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 3 e 8 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali)». Con specifico riguardo alla parte in cui i divieti di espulsione sono stati ampliati anche al rischio di lesione del diritto alla vita privata e familiare conseguente al rimpatrio, il Collegio ravvisa una «sostanziale continuità» con le previsioni dell’art. 5, co. 6 TU ante riforma del 2018, in virtù della quale ritiene che anche con riguardo alla nuova protezione speciale debba essere effettuata una valutazione comparativa tra la condizione attuale in Italia e quella a cui il richiedente sarebbe esposto per effetto del rimpatrio, perché «Come allora, tuttora, si deve pervenire alla conclusione per cui non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore in Italia, sotto il profilo dell’integrazione sociale,personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima dellapartenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio (Cass. civ., sez. I, n. 7733/2020 cit.), al fine di accertare se lo straniero sia al punto sradicato dal Paese di provenienza (sul piano socioeconomico e su quello personale), che il solo rimpatrio costituisca motivo di pregiudizio di diritti fondamentali personali».
Da tali premesse, il Tribunale giunge a riconoscere al richiedente asilo ivoriano la protezione speciale (ex art. 15 d.l. n. 130/2020), in applicazione della prima ipotesi normativa di cui all’art. 19, co. 1.1 TU 286/1998 novellato, ovverosia per «la situazione di grave instabilità politica che connota ora la Costa d’Avorio, di cui ne costituisce indice il rischio di una nuova guerra civile, è accompagnata dal continuo aumento dei rifugiati (https://www.unhcr.org/news/briefing/2020/11/5faa5ac74/unhcr-expands-aid-ivorian-refugee-numbers-top-8000.html), fatto che è significativo di una, anche solo incipiente, emergenza umanitaria generalizzata», che esporrebbe il richiedente al rischio per la propria incolumità.
 
Nel senso della continuità normativa tra la protezione umanitaria di cui all’art. 5, co. 6 TU 286/98, nel testo precedente l’abrogazione recata dal d.l. 113018, e la protezione speciale, come riformulata nell’art. 19, commi 1, 1.1 e 1.2 ad opera del d.l. n. 130/2020, si pone anche il  Tribunale di Napoli, con decreto 7.1.2021 , che, dopo avere analizzato a fondo i due istituti, giunge alla conclusione che anche per la nuova protezione speciale sia necessario effettuare la comparazione «tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio (Cass. civ., sez. I, n. 7733/2020 cit.)», ma al fine di accertare se il rimpatrio in sé rappresenti lesione del diritto alla vita privata, stante il radicamento sul territorio nazionale.
Il Tribunale ha esaminato la credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo della Guinea Conakry (partito dal Paese minorenne e arrivato in Italia, dopo anni, appena maggiorenne), arrivando ad un giudizio negativo di essa ma riconoscendogli la protezione speciale di nuovo conio in ragione del suo inserimento sociale in Italia e della instabile situazione ancora esistente nel suo Paese, anche se non assurge ad un livello di violenza da integrare i presupposti di cui all’art. 14, lett. c) d.lgs. 251/2007.
 
Il Tribunale di Bologna con ord. 30.11.2020 - RG. 9723/2020  ha deciso un ricorso con cui una cittadina del Ghana ha impugnato il diniego di rinnovo del permesso umanitario (che le era stato riconosciuto in sede giudiziaria nel giudizio afferente la protezione internazionale), fondato sul parere negativo espresso dalla Commissione territoriale nella vigenza del d.l. n. 113/2018, riconoscendole, all’esito dell’ampia istruttoria svolta, la protezione speciale introdotta dal d.l. n. 130/2020, con riguardo al diritto al rispetto alla vita privata. L’ordinanza affronta preliminarmente varie questioni, dal rito applicabile quando impugnato è il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno (art. 19-ter, d.lgs 150/2011: rito sommario di cognizione ma a composizione collegiale), alla pertinente disciplina sostanziale (permesso ricadente nell’ambito dell’art. 1, co. 8, d.l. 113/2018, essendo in corso al momento della sua entrata in vigore e dunque soggetto alle disposizioni dell’art. 32, co. 3 d.lgs. 25/2008 riformato), alla ammissibilità della richiesta giudiziale di rivalutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale (esclusa perché già esaminata nello specifico giudizio avverso l’originaria decisione della Commissione territoriale). Con riguardo alla protezione speciale il Tribunale felsineo premette l’immediata applicabilità della riforma di cui al d.l. 130/2020 e svolge un’ampia analisi della fattispecie di cui all’art. 8 CEDU, sia in generale che nel caso di specie, richiamando varie pronunce della Corte di Strasburgo. Rapportati i principi giurisprudenziali della Corte EDU, il Tribunale valorizza l’aspetto del diritto alla vita privata della cittadina straniera, ritenendo che i suoi contorni, come definiti dal novellato art. 19, co. 1.1. TU immigrazione, siano solo parzialmente sovrapponibili all’art. 8 CEDU, pone l’accento sul suo inserimento nella comunità territoriale, non necessariamente riferito all’attività lavorativa ed è interessante nella parte in cui richiama il concetto di identità sociale, con implicito riferimento alla comunità territoriale di appartenenza anziché a quella formale. Infine prende in considerazione anche i diritti del figlio minore di vedersi garantito il diritto alla salute e all’istruzione.
Il Tribunale compie una comparazione tra il vissuto attuale della ricorrente e la condizione a cui sarebbe esposta in caso di rientro in Ghana, accertando attraverso specifiche COI la condizione della donna, madre sola, e quella dei minori, arrivando a concludere che il rimpatrio nel Paese di origine sarebbe misura sproporzionata ed un’indebita ingerenza nel diritto della donna e del figlio al rispetto della loro vita privata.
 
Sempre con riguardo al diritto al rispetto della vita privata, si segnala l’ulteriore ordinanza 10.12.2020 - RG. 2019/7923 del Tribunale di Bologna , con cui è stata riconosciuta la protezione umanitaria, ex art. 5, co. 6 TU 286/98, ad un cittadino del Marocco, in sede di giudizio relativo al diniego di riconoscimento della protezione internazionale ma con impugnazione limitata alla protezione umanitaria. Il giudice monocratico bolognese ha accertato che il richiedente ha fatto ingresso in Italia, per ricongiungimento con i genitori, più di 20 anni or sono, ancora minorenne e, pur gravato da precedenti penali risalenti alla giovane età, ha mostrato un inserimento sociale e lavorativo tale da indurre a ritenere che il suo rimpatrio rappresenterebbe un’indebita ingerenza della sua vita privata. Il Tribunale prende atto della sopravvenuta riforma di cui al d.l. n. 130/2020, applicabile ai procedimenti in corso, ed afferma che «L’art. 19 come oggi modificato, che prevede il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale, fa salva quindi la tutela della vita privata e familiare di cui all’art. 2 Cost. e art. 8 CEDU. Ne consegue che anche con l’applicazione della nuova normativa non muterebbe il riconoscimento del diritto avanzato dal ricorrente».
 
LA PROTEZIONE UMANITARIA
La protezione umanitaria e l’integrazione sociale
Lordinanza n. 28436/2020 della Corte di cassazione concretizza le questioni poste dalla ordinanza di rimessione alla Sezioni Unite, dianzi rassegnata, censurando una decisione del Tribunale di Milano che ha escluso il riconoscimento della protezione umanitaria nonostante l’ottima integrazione sociale dimostrata dal richiedente, titolare di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di un contratto di locazione e con buona conoscenza della lingua italiana. Precisando che la preclusione alla rivalutazione nel merito della vicenda, tipica del giudizio di legittimità, è superata qualora sia necessario partire dal fatto per valutare la sua riconducibilità alla clausola generale, la Corte evidenzia che l’esclusione dalla protezione umanitaria effettuata dal giudice di 1^ grado non è stata corretta in riferimento al parametro normativo di cui all’art. 5, co. 6 TU immigrazione, «non potendosi richiedere altro da uno straniero, oltre che lavorare in modo stabile, conoscere la lingua, avere un alloggio con mezzi propri», ma anche perché non ha considerato che la vulnerabilità può configurarsi in relazione ad un rientro nel Paese di appartenenza dopo lungo tempo trascorso al di fuori e con inevitabili difficoltà a recuperare in esso «le condizioni di vita raggiunte in Italia e perdute a causa del rimpatrio».
 
Con un’ulteriore ordinanza, n. 22528/2020 la Corte di cassazione ribadisce la necessità del bilanciamento funzionale in materia di riconoscimento della protezione umanitaria, da effettuarsi attraverso una valutazione comparativa, caso per caso, che consideri la vita privata in Italia e la situazione personale vissuta prima della partenza, verificando se ad essa il richiedente potrebbe essere esposto nuovamente in caso di rimpatrio. Accertamento che deve essere effettuato sia con le allegazioni del richiedente che con le informazioni officiosamente e doverosamente assunte dall’autorità giudiziaria.
In termini analoghi anche l’ordinanza n. 25536/2020, con cui la Cassazione ribadisce quei principi e censura la decisione del Tribunale di Roma che aveva escluso la vulnerabilità del richiedente asilo del Gambia in riferimento al solo art. 19 TU immigrazione, mentre è principio consolidato che l’art. 5, co. 6 TU è una norma a “compasso largo”, non circoscrivibile a fattispecie chiuse e tassative.
 
Con ordinanza n. 27717/2020 la Corte di cassazione, dopo avere dichiarato inammissibile il ricorso avverso un decreto del Tribunale di Brescia, nella parte relativa al mancato riconoscimento delle due forme di protezione internazionale, ha accolto l’impugnazione con riguardo al diniego anche della protezione umanitaria, perché il giudice lombardo ha omesso di effettuare la comparazione richiesta per la tutela complementare, in riferimento sia al rispetto dei diritti umani fondamentali in Nigeria, sia al grado di inserimento del richiedente asilo in Italia.
 
Protezione umanitaria, povertà e diritto alla salute
L’ordinanza n. 25547/2020 della Corte di cassazione ha annullato la decisione della Corte d’appello di Milano che, parimenti al Tribunale meneghino, aveva negato ad un richiedente asilo del Bangladesh il riconoscimento della protezione internazionale e di quella umanitaria poiché i motivi del suo espatrio, nel 2013, erano stati ritenuti riconducibili a ragioni economiche ed in particolare alla necessità di avere un lavoro che consentisse di far fronte alle spese sanitarie di cui necessitava il padre.
La Cassazione accoglie il ricorso del richiedente, circoscritto alla sola protezione umanitaria, ritenendo che i giudici di merito abbiano disatteso i principi espressi dalla sentenza n. 4455/2018 omettendo di effettuare quel «bilanciamento tra l’integrazione sociale acquisita in Italia e la situazione oggettiva del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ne ha determinato la partenza, così da accertare la condizione personale di effettiva deprivazione dei diritti umani che abbia giustificato l’allontanamento». Precisa la Corte che il diritto alla salute «partendo da una interpretazione estensiva della protezione umanitaria debba essere tutelato non solo quando riguarda il richiedente ma anche un proprio familiare», se esso non sia loro garantito nel Paese di origine per l’impossibilità di trovare lavoro nella zona di provenienza, caratterizzata da condizione di estrema povertà.
Varie pronunce, sia di merito che di legittimità, hanno ricompreso nella protezione umanitaria il diritto alla salute, quale espressione di diritti fondamentali compresi nell’alveo dell’art. 5, co. 6 TU 286/98.
 
Con ordinanza n. 21162/2020 la Cassazione ha censurato la sentenza della Corte d’appello di Torino che, parimenti al Tribunale, aveva negato ad un richiedente asilo ivoriano anche la tutela umanitaria, ignorando le sue certificate condizioni di salute, conseguenti ai gravi traumi subiti durante il travagliato percorso migratorio ed il correlato rischio di emarginazione sociale in caso di rientro nel Paese di origine. La Corte precisa che, fermo restando il dovere per il giudice di accertare la condizione di vulnerabilità del richiedente, che ricomprende anche chi è affetto da grave malattia (art. 2, co. 11 d.lgs. 25/2008) «occorre altresì misurare l’impatto che una malattia invalidante determina sull’esercizio del diritto al lavoro quale mezzo di sostentamento autonomo, pur tenendo conto dell’eventuale profilo elementare dell’occupazione reperibile, specie in contesti di maggiore degrado o povertà o debole offerta di mercato; e va al contempo verificato, ove tale diritto appaia del tutto conculcato, se nel medesimo ambito di reinserimento della persona disabile nemmeno sia sviluppato un minimale sistema ordinamentale o comunque effettivo di coordinato sostegno assistenziale, cui possa fare riferimento la persona rimpatriata».
La Corte censura il difetto di comparazione richiesto per il riconoscimento della protezione umanitaria, in violazione dei principi affermati, tra le altre, con la nota sentenza n. 4455/2018 e ribaditi dalle Sezioni Unite n. 29460/2019 e da Cass. 23778/2019.
 
Nello stesso solco si pongono le pronunce di merito del Tribunale di Bologna, 9.11.2020 - RG. 487/2018  e del Tribunale di Milano 21.10.2020 - RG. 35908/2018
Il primo ha riconosciuto la tutela umanitaria a richiedente asilo nigeriano, affetto da grave patologia alla vista, dopo avere accettato con precise COI che in Nigeria non avrebbe avuto accesso alle cure mediche, riservate di fatto a chi possiede risorse economiche significative. In caso di rimpatrio, dunque, il richiedente asilo avrebbe subito una grave compromissione del suo diritto fondamentale alla salute, in relazione al quale l’art. 5, co. 6 TU 286/98 offre protezione.
Il Tribunale meneghino, invece, ha affrontato un diverso aspetto nel riconoscere la protezione umanitaria a richiedente asilo ivoriano, ritenuto credibile nella sua narrazione, anche se il giudice ricorda che per questa residuale tutela la credibilità non ha la stessa valenza giuridica come per la protezione internazionale (Cass. 8080/2020). L’aspetto interessante della pronuncia è che il giudizio di comparazione, tra l’integrazione del richiedente in Italia ed il rischio di violazione dei diritti fondamentali in caso di rimpatrio, ha riguardato non solo la sua specifica condizione di salute e il grado di inserimento sociale, ma anche il rischio connesso alla pandemia da COVID-19 in Costa d’Avorio, accertato attraverso numerose e specifiche COI.
Richiamando i principi in materia di protezione umanitaria della giurisprudenza di legittimità ed anche quelli espressi dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di non refoulement (sent. 19.3.2019, nelle cause C-163/17 e C-297/17 e altre), secondo cui «la condizione di vulnerabilità viene ad essere determinata non solo dalle condizioni soggettive, ma anche dal contesto sociale in cui la persona potrebbe trovarsi in caso di rimpatrio», il Tribunale di Milano ha ritenuto sproporzionati i due contesti di vita «ed in particolare nel godimento del diritto alla salute, considerato altresì che i già esistenti profili di vulnerabilità del richiedente da un lato verrebbero accentuati dal rimpatrio e, dell’altro, non farebbero che esacerbarne le conseguenze in un contesto – quale quello della Costa d’Avorio ed in particolare della sua zona di provenienza – già fortemente minato dalla pandemia in corso», riconoscendo pertanto la protezione umanitaria.
Da evidenziare che il Tribunale ha ritenuto di non disporre la comparizione del richiedente, basando la decisione sulle produzioni documentali e gli atti del procedimento amministrativo, presenti nel giudizio.
 
Con un ulteriore pronuncia, 28.10.2020 - RG. 46543/2018, il Tribunale di Milano  ha riconosciuto ad un richiedente asilo del Pakistan la protezione umanitaria, in relazione al rischio di lesione del diritto alla salute derivante dall’attuale pandemia da COVID-19. Il decreto collegiale fa un’ampia ricostruzione, anche giurisprudenziale, dei principi in materia di protezione umanitaria, analizzando il concetto di «vulnerabilità» («Si ritiene […] non vada inteso come limitato a concrete situazioni di “pericolo” cui sarebbe esposto un diritto fondamentale dello straniero se costretto al rimpatrio, ma che tale vulnerabilità può ravvisarsi anche (in assenza di pericolo) allorché, sulla base di un giudizio prognostico sorretto da una concreta comparazione fra le condizioni soggettive che caratterizzano la sua vita nel nostro Paese e quelle in cui verrebbe a trovarsi nel Paese di origine, si possa ragionevolmente presumere che, se costretto a far rientro nel suo Paese, lo straniero vedrebbe compromesse in modo apprezzabile la sua dignità e il suo diritto ad un’esistenza libera e dignitosa, raggiunti nel nostro Paese») e ribadendo la necessità di effettuare una comparazione attenuata qualora emerga una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità. Nell’effettuare detta comparazione, il Tribunale premette che devono essere tenuti in considerazione anche gli elementi nuovi sopravvenuti alla decisione della Commissione territoriale, essendo il giudice tenuto a rivalutare completamente la domanda di protezione (CGUE causa C-585/16 del 25.7.2018, Alheto; Cass. SU 29459/2019) e che può essere introdotto anche il “fatto notorio”, quale è nel caso di specie la pandemia.
Il Tribunale esamina, poi, con dovizia di COI, la situazione pandemica in Pakistan e il sistema sanitario ivi esistente (assai precario e privatizzato), arrivando a concludere per l’accertamento di un rischio di lesione del diritto del ricorrente di godere, in caso di rimpatrio, dei diritti minimi della persona.
 
Protezione umanitaria, povertà e calamità
Con ordinanza n. 25143/2020 la Corte di Cassazione ha annullato la decisione del Tribunale di Caltanissetta, di rigetto della richiesta di riconoscimento della protezione sussidiaria o di quella umanitaria, proposta da un richiedente asilo del Bangladesh. Se i motivi di impugnazione relativi alla forma sussidiaria di protezione sono stati rigettati, è stato, invece, ritenuto fondato il vizio di motivazione apparente (così qualificato d’ufficio dal Giudice di legittimità) con riguardo alla tutela complementare, per avere il Tribunale omesso un’effettiva comparazione tra l’integrazione sociale del ricorrente in Italia e il rischio di compromissione dei diritti fondamentali in caso di rimpatrio, atteso che il richiedente aveva motivato la sua emigrazione anche per l’inemendabile povertà, conseguente ad eventi calamitosi ivi accaduti. Dopo avere richiamato la pronuncia di Cassazione n. 2563/2020, l’ordinanza in esame afferma che «la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, non potendosi tipizzare le categorie soggettive meritevoli di tale tutela che è invece atipica e residuale», indicando il percorso che deve essere seguito per detta comparazione e ribadendo che il diritto alla salute sussiste anche in relazione alle condizioni climatiche in un dato Paese.
 
Protezione umanitaria, povertà e natura economica della migrazione
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 23718/2020 ha rigettato l’impugnazione proposta dal Ministero dell’interno, che chiedeva l’annullamento delle decisioni di merito trentine le quali, nei due precedenti gradi di giudizio, avevano riconosciuto la protezione umanitaria ad un richiedente asilo del Bangladesh, emigrato da anni per cercare opportunità lavorative che consentissero a lui ed alla famiglia di sopravvivere. La Corte precisa che «una cosa è l’emigrazione che intenda perseguire un miglioramento delle condizioni economiche, altra è l’espatrio giustificato da una situazione di povertà assoluta e inemendabile, tale da compromettere la stessa sopravvivenza», e il giudice di merito aveva accertato che il richiedente era espatriato per tutelare l’intero suo nucleo familiare, essendo l’unico in grado di farlo, riconoscendogli, pertanto, correttamente la protezione umanitaria.
 
L’ordinanza n. 26129/2020 della Corte di cassazione annulla una sentenza della Corte d’appello di Bologna che aveva negato a richiedente asilo del Pakistan ogni forma di protezione qualificando non credibili le sue dichiarazioni in quanto non aveva chiesto asilo in Grecia (ove era stato in precedenza) e ritenendo di natura economica la sua migrazione. Il Giudice di legittimità ha censurato la motivazione apparente di detta pronuncia, totalmente disancorata dai criteri legali per la valutazione della credibilità (art. 3 d.lgs. 251/2007) e frutto di una valutazione induttiva priva di valore, senza alcun approfondimento istruttorio (avendo peraltro negato la richiesta di nuova comparizione in giudizio). Precisa la Cassazione che «questa Corte ha affermato che la natura economica della migrazione non preclude il riconoscimento della protezione umanitaria a un soggetto vulnerabile deprivato nei diritti umani fondamentali nel Paese di origine, che sia effettivamente integrato in Italia (Cass., SU, 13 novembre 2019, n. 29459)».
Nello specifico del mancato riconoscimento della protezione umanitaria, la Cassazione evidenzia la violazione dei principi giurisprudenziali in materia, tra i quali la valutazione autonoma rispetto alla protezione internazionale, nonché l’omessa necessaria comparazione tra la condizione attuale del richiedente in Italia e la possibile compromissione dei suoi diritti fondamentali in caso di rimpatrio.
 
Valutazione autonoma per la protezione umanitaria
Con ordinanza n. 27261/2020 la Corte di cassazione ha annullato una sentenza della Corte d’appello di Bologna che aveva negato al richiedente asilo sia la protezione internazionale che quella umanitaria, per asserito difetto di credibilità. La Cassazione censura l’automatismo nell’esame della protezione umanitaria, ricordando che essa sottende una autonoma valutazione che deve poggiarsi su «uno scrutinio avente ad oggetto l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti (Cass. 12 novembre 2018, n. 28990; Cass. 15 maggio 2019, n. 13088)».
 
Il rito in materia di protezione umanitaria
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 26364/2020, ha affrontato la questione del rito applicabile nel caso di impugnazione della decisione negativa della Commissione territoriale limitata alla richiesta di riconoscimento della protezione umanitaria. Ipotesi che il Collegio ha precisato essere diversa da quella già risolta con precedenti pronunce, che riguardavano il caso di giudizio promosso avverso il diniego di rinnovo del permesso umanitario (Cass. nn. 16458 e 16459 del 2019).
La Corte analizza le disposizioni processuali vigenti in materia (art. 32, co. 3, 35 e 35-bis d.lgs. 25/2008, nonché artt. 3 e 4 d.l. n. 13/2017) riconducendo ad unità il diritto sotteso all’impugnazione avverso la decisione della Commissione territoriale ma distinguendo la disciplina processuale applicabile nel regime previgente la riforma processuale recata dal d.l. n. 13/2017, che su dette norme è intervenuto, a seconda che sia impugnata l’intera decisione della Commissione territoriale oppure solo la parte afferente la protezione umanitaria. Disciplina che è nuovamente mutata con la novella di cui al d.l. 113/2018.
Nel periodo tra la riforma del 2017 e quella del 2018, pertanto, il rito applicabile nel caso di impugnazione per il riconoscimento della sola protezione umanitaria è quello ordinario o quello sommario di cognizione, con il doppio grado di giudizio di merito, oltre a quello generale di impugnazione in Cassazione. Giudizio comunque assegnato alle sezioni specializzate del Tribunale ma in composizione monocratica e non collegiale (cfr. Cass. n. 9658/2019).
Secondo la Cassazione, invece, «con riguardo alle ipotesi in cui il ricorso venga proposto con più domande, dirette ad ottenere in via principale lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria ed in via subordinata la protezione umanitaria […], si applica per tutte le domande ii rito camerale di cui all’art. 35-bis decreto legislativo n. 25/2008 davanti alla sezione specializzata del Tribunale in composizione collegiale, in ragione della connessione esistente tra dette domande e della prevalenza della composizione collegiale del Tribunale in forza del disposto dell’art. 281-nonies c.p.c., tenuto altresì conto del carattere unitario dell’accertamento dei presupposti dei vari tipi di tutela, dell’esigenza di evitare contrasto di giudicati e del principio della ragionevole durata del processo».
Quanto alle conseguenze della decisione assunta erroneamente in composizione collegiale anziché monocratica, l’ordinanza in esame afferma che trattasi di un’autonoma causa di nullità della sola decisione «con la sua conseguente convertibilità in motivo di impugnazione e rinvio alla sezione specializzata del Tribunale in composizione collegiale (Cass., 3 marzo 2020, n. 5858)».
Negli stessi termini, la Corte di cassazione si è pronunciata con l’ordinanza n. 28640/2020.
 
QUESTIONI PROCEDIMENTALI E DIRITTI CIVILI
Richiedenti asilo e Covid-19
Il commento di S. Rossi, Diritto alla salute e discrezionalità amministrativa sulla soglia dei Centri di accoglienza straordinaria, pubblicato in questo numero della Rivista, tratta delle decisioni assunte dal Tribunale di Bologna nell’ambito di un giudizio d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., promosso da ASGI nei confronti del Ministero dell’interno, della Prefettura di Bologna, del Comune di Bologna e del Consorzio L’Arcolaio (ente gestore del Centro di accoglienza straordinaria - CAS Mattei). Ricorso che, partendo dalla constatazione della conformazione edilizia del CAS – con inadeguati spazi comuni e camere che ospitano 8-10 richiedenti asilo in ciascuna – e dalla presenza, nel marzo 2020, di alcuni ospiti isolati per sospetto contagio da COVID-19, riteneva che la struttura d’accoglienza fosse di per sé incompatibile con le misure legali emanate dal Governo per il contenimento della pandemia, tra le quali l’obbligo di mantenere distanze personali di almeno 1 metro. Nelle more del giudizio cautelare, una decina di ospiti sono risultati positivi al COVID-19.
Rinviando alle considerazioni giuridiche dell’articolo sopra citato, si pubblicano in questa rassegna i due provvedimenti cautelari con i quali il Tribunale di Bologna ha rigettato il ricorso innanzitutto per ritenuto difetto di giurisdizione, assumendo che la domanda giudiziale proposta sottenda l’esercizio di un potere discrezionale della prefettura e dunque censurabile solo davanti al giudice amministrativo. Secondo il decreto di rigetto 7.5.2020 - RG. 2020/4235 , infatti, «l’associazione ricorrente ha lamentato, nel proprio atto, una serie di inefficienze/inerzie delle amministrazioni convenute, che possono agevolmente distinguersi in due macro categorie, [...] di disporre l’immediato trasferimento dei richiedenti asilo ospiti del CAS Mattei in altra/altre strutture di minore capienza, comportanti minore assembramento, e, solo nelle more del provvedimento, di adottare alcune misure positive, già in parte prescritte per legge, volte a porre rimedio agli altri lamentati inadempimenti descritti in narrativa». Richiesta che il Tribunale collega ad un’unica normativa, ovverosia l’art. 6, co. 7, d.l. 18/2020, il quale presupporrebbe l’esercizio di un potere discrezionale e non vincolato. Tesi contestata da ASGI in quanto oggetto della controversia è l’accertamento della lesione del diritto alla salute degli ospiti del CAS Mattei in conseguenza dell’oggettiva inidoneità della struttura a garantire le misure legali prescritte dal legislatore per il contenimento del COVID-19, stante l’assembramento oggettivo che si crea nelle stanze nelle quali vivono e dormono 9-10 persone (dato riconosciuto dalle stesse parti convenute). Accertamento che si basa su dati oggettivi, scevri di valutazione discrezionale, cui doveva e deve conseguire il trasferimento delle persone in altre strutture idonee a garantire il rispetto di quelle prescrizioni, ed è evidente che l’individuazione di quali altre strutture e con quali modalità non afferisce certamente al giudizio proposto, fermo restando la richiesta di trasferimento proprio al fine di garantire il diritto alla salute. 
Il Tribunale di Bologna, nel giudizio cautelare, ha altresì adombrato il difetto di legittimazione attiva di ASGI, poiché nel caso di specie «non si è di fronte ad un interesse di matrice superindividuale, che i titolari non potrebbero tutelare se non in forma associata, in quanto appartenente a tutti e a nessuno».
Affermazione a cui si è replicato in sede di reclamo, analizzando ampia giurisprudenza in materia di enti esponenziali di interessi diffusi e che appartengono, nel contempo, anche all’ente stesso, come affermato anche di recente dal Consiglio di Stato, Adunanza plenaria n. 24/2020.
Anche la fase di interposto reclamo ha avuto un esito negativo, di rigetto con decreto collegiale 14.7.2020 - RG. 5877/202 , sempre per ritenuto difetto di giurisdizione, con motivazione in parte diversa o quantomeno più articolata rispetto alla decisione di 1^ grado. Con il decreto di luglio, infatti, il Tribunale parte da una disamina della normativa in materia di accoglienza (d.lgs. 142/2015), rinvenendo in essa un ampio potere discrezionale («misure di accoglienza altamente discrezionale e vieppiù dotata di un’alta componente di vera e propria discrezionalità tecnica, perché involgente profili multidisciplinari e multi settoriali quali ordine pubblico, sicurezza pubblica, igiene e sanità, solo per citare i più significativi ed evidenti») che verrebbe intaccato dal  provvedimento giudiziale chiesto da ASGI. Secondo il Tribunale, pertanto, «non è del tutto sbagliato evidenziare che sarebbe proprio la scelta di merito dell’azione amministrativa ad essere intaccata da un ordine del tipo di quello richiesto dall’Associazione ricorrente, merito che, peraltro, è contrassegnato da una elevato contenuto di discrezionalità soprattutto tecnica».
Conclude il Tribunale che «In buona sintesi la tesi sostenuta dalla reclamante per sostenere la giurisdizione del Giudice Ordinario sembra esprimere fedeltà a quell’orientamento tradizionale, che ha avuto la sua più compiuta affermazione proprio in tema di diritto alla salute, e che si potrebbe definire come approccio massimalista o oltranzista. Secondo questa ricostruzione il diritto de quo è sempre tutelato nella sua forma più pregnante di diritto soggettivo, con la conseguenza che sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario». Orientamento che, ad avviso del giudice felsineo, sarebbe totalmente superato.
La causa sta ora proseguendo nel merito e, verosimilmente verrà proposto regolamento di giurisdizione.
 
Il domicilio per la domanda di riconoscimento della protezione internazionale
Il  Tribunale di Firenze con ordinanza 21.12.2020 - RG. 11307/200 ha accolto un ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., finalizzato ad accertare il diritto alla formalizzazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, a fronte del rifiuto di fatto opposto dalla questura di Firenze, senza provvedimento formale, per difetto di documentazione attestante il domicilio, preteso tramite cessione di fabbricato o dichiarazione di ospitalità. Il Tribunale censura tale comportamento, qualificandolo ingiustificato e contrario alle previsioni di legge che impongono una determinata tempistica per la formalizzazione della domanda, senza che essa possa essere dilazionata mediante indebite pretese. Nello specifico del domicilio, il giudice fiorentino afferma che l’art. 6, co. 1 d.lgs. 25/2008 «non definisce la tipologia di dimora la quale potrebbe essere anche non stabile e transeunte […], mentre deve ritenersi che si debba fare riferimento alla situazione di fatto da chi si trova già sul T.N. in una situazione di irregolarità (che intende, appunto, trasformare in regolare)». Quanto al rischio di irreparabilità del danno il Tribunale evidenzia che, in difetto di formalizzazione dell’istanza di protezione, al/alla richiedente verrebbero negati i servizi sociali connessi alla regolarità di soggiorno, irrilevante che, nel caso esaminato, la richiedente abbia maturato dopo anni la volontà di chiedere protezione.
 
Apertura conto corrente per richiedente asilo
Con decreto inaudita altera parte, del 21.12.2020 - RG. 64733/2020, il Tribunale di Roma  ha ritenuto discriminatorio il rifiuto opposto da Poste italiane ad un richiedente asilo di apertura di un conto corrente perché in possesso della sola ricevuta di avvenuta formalizzazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale e non del permesso di soggiorno. Il giudice romano censura tale rifiuto, evidenziando che la ricevuta dell’avvenuta formalizzazione della richiesta d’asilo costituisce permesso di soggiorno provvisorio, ex art. 4, co. 3, d.lgs. 142/2015 e che l’art. 126-noviesdecies del TU bancario richiede, per l’apertura di conti correnti, unicamente la regolarità di soggiorno e specifica che riguarda anche le persone senza fissa dimora ed i richiedenti asilo. Quanto all’irreparabilità del danno, il Tribunale lo rinviene nell’impedimento allo svolgimento di attività lavorativa (diritto riconosciuto anche ai richiedenti asilo) in quanto il datore di lavoro è tenuto a versare le retribuzioni in conti correnti dei lavoratori, con divieto di corresponsione in contanti, come precisato anche dall’ABI e dall’Ispettorato nazionale del lavoro.
Impedimento all’esercizio del diritto al lavoro che, ad avviso del Tribunale, potrebbe riverberarsi negativamente sulla stessa domanda di riconoscimento della protezione internazionale.
 
Risarcimento del danno per illegittimo comportamento della questura
Con  sentenza 29.10.2020 - RG. 7124/2019 e n. 7258/2019 la Corte d’appello di Roma ha condannato il Ministero dell’interno al risarcimento del danno subito da richiedente asilo a cui la questura di Roma aveva, più volte, negato l’accesso per la formalizzazione della domanda reiterata di riconoscimento della protezione internazionale. All’esito di un articolato giudizio, descritto nella pronuncia, ove già il Tribunale in via d’urgenza aveva ordinato alla questura di ricevere la formalizzazione della domanda e a cui detta PA aveva opposto un provvedimento di irricevibilità (eludendo l’ordine giudiziale), la Corte d’appello ha confermato la decisione di primo grado affermando l’incompetenza della questura a valutare l’ammissibilità o meno della domanda reiterata (di stretta competenza della Commissione territoriale), ha escluso ogni automatismo tra domanda reiterata e sua inammissibilità (che deve essere frutto di specifica valutazione della Commissione) e dopo avere esaminato le prove testimoniali sul trattamento subito dal richiedente asilo per effetto dell’illegittimo operato della questura (almeno per 5 volte ha tentato di accedere in questura, due volte dormendo per strada davanti all’ufficio immigrazione per essere tra i primi, costretto a vivere per strada non potendo accedere al sistema di accoglienza, nonostante affetto da patologie sanitarie), ha ritenuto violato il principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. In particolare, nella sentenza in esame sono stati accertati danni non patrimoniali afferenti alla sofferenza fisica ed al patema d’animo del richiedente asilo per i trattamenti subiti; danno patrimoniale sussistente anche in assenza di fatto-reato (Cass. SU 26972/2009 ed altre), avendo «pregiudicato un diritto di rilievo costituzionale ed il danno è stato rilevante, poiché ha riguardato il diritto di chiedere la protezione internazionale ed ha pregiudicato la concreta possibilità di condurre un’esistenza dignitosa nell’attesa della domanda».
La Corte d’appello, dunque, ha condannato il Ministero dell’interno a risarcire il richiedente dei danni subiti, liquidati in € 3000,00 oltre interessi legali.
 
Azione popolare e trattamenti inumani e degradanti in un CIE (oggi CPR)
All’esito di un’azione popolare intrapresa da due cittadini baresi, con sentenza n. 2020/2020 la Corte d’appello di Bari ha condannato il Ministero dell’interno a risarcire i danni per lesione dell’identità del Comune di Bari, conseguenti ai trattamenti inumani e degradanti inflitti ai cittadini stranieri detenuti nel CIE (oggi CPSR) di Bari, dopo averli accertati con perizia acquisita in giudizio. L’azione, del tutto peculiare, aveva avuto inizio nel 2011, allorquando due avvocati, in qualità di cittadini residenti a Bari, hanno chiesto al Tribunale di Bari un accertamento tecnico preventivo finalizzato a valutare le condizioni all’interno del CIE, con particolare riguardo allo stato dei luoghi ed alle conseguenti condizioni delle persone ivi trattenute.
Nel giudizio di 1^ grado proseguito a detta fase preliminare, il Tribunale di Bari aveva accertato la lesione del diritto all’immagine del Comune e dell’allora esistente Provincia di Bari, per essere stato detto CIE collocato sul territorio comunale nonostante non ci fosse condivisione con il Ministero. Per la ricostruzione dei due giudizi si rinvia a due commenti (di D. Papa, Natura giuridica del trattenimento del cittadino straniero e principio di legalità: riflessioni a margine di Corte d’Appello di Bari (sentenza 30 novembre 2020, n. 2020, in Giustizia Insieme), nonché quello di D. Belluccio, “Non luoghi”, violazione dei diritti umani e controllo democratico: dalla “minorata difesa” al protagonismo. Riflessioni a margine dalla sentenza della Corte di Appello di Bari n. 202/2020 sul CPR di Bari, in Diritti senza confiniQuestione giustizia).
In questa rubrica si intende mettere a disposizione le due pronunce e richiamare l’attenzione sulla loro importanza, a partire dal tipo di azione giudiziale esercitata, ovverosia l’azione popolare ai sensi dell’art. 9, co. 1, d.lgs. 267/2000 (Testo unico Enti locali), a natura suppletiva ed eccezionale, in quanto può essere esercitata da “ciascun elettore” che si può sostituire all’Ente locale, nell’inerzia di questi, nel far valere un suo diritto. Sia la pronuncia di 1^ grado che quella della Corte d’appello sono estremamente articolate affrontando questioni strettamente processuali, quali la giurisdizione e la legittimazione attiva dei proponenti, così come il merito dell’accertamento della lesione dei diritti. La sentenza della Corte d’appello analizza in maniera particolare la condizione delle persone straniere trattenute nel CIE, dando visibilità a chi è giuridicamente invisibile e detenuto in luoghi che, sin dalla loro introduzione, sono stati definiti «luoghi di non diritto».
 
I PROVVEDIMENTI ex REGOLAMENTO n. 604/2013 DUBLINO III
Il Tribunale di Roma, con decreto collegiale del 22.10.2020 - RG. 30653/2020  nel solco di una sua costante giurisprudenza, ha accolto il ricorso proposto da un richiedente asilo del Pakistan, al quale l’Unità Dublino aveva notificato un provvedimento di rinvio in Austria quale Paese di primo arrivo, ai sensi del Regolamento n. 604/2013. Provvedimento annullato per violazione degli obblighi informativi di cui agli artt. 4 e 5 di detto Regolamento cd. Dublino, evidenziando che la prova dell’adempimento di essi è in capo all’Amministrazione dello Stato e precisando che in fase di formalizzazione della domanda di asilo ci sono due distinti ed autonomi obblighi informativi, l’uno relativo alla determinazione dello Stato competente all’esame, l’altro afferente la procedura di asilo strettamente intesa, i quali non sono sovrapponibili (Cass. 17963/2020).
 
Il Tribunale di Torino, con decreto 28.10.2020 - RG. 11726/2020  ha annullato un provvedimento di rinvio cd. Dublino verso l’Austria, di richiedenti asilo armeni, non tanto per avere accertato l’esistenza di carenze sistemiche nelle procedure d’asilo austriache, rilevanti ex art. 3 CEDU, quanto perché, nella valutazione del caso di specie, ha ritenuto contrario al superiore interesse dei figli minori il rinvio, che avrebbe comportato un ennesimo trasferimento del nucleo familiare e un nuovo onere di adattamento dei minori alla nuova situazione.
 
Sempre il Tribunale di Torino, con decreto 29.9.2020 - RG. 12340/2020 , ha annullato un provvedimento di rinvio cd. Dublino di un richiedente asilo verso la Bulgaria, avendo riscontrato, attraverso specifiche COI, che in detto Paese ci sono gravi carenze sistemiche nelle procedure d’asilo, con uso della forza da parte della polizia per cercare di impedire l’ingresso dei richiedenti sul territorio nazionale, per le restrizioni alla libertà di movimento dei richiedenti asilo, per carenze nei servizi di accoglienza e supporto, oltre che per percentuali estremamente esigue di riconoscimento della protezione internazionale.
Decreto che, invece, ha escluso la rilevanza della eccepita violazione degli obblighi informativi, poiché il ricorrente non ha dimostrato la loro incidenza sul diritto di difesa. Pronuncia che, relativamente a questo aspetto, si pone in contrasto con la giurisprudenza della Corte di cassazione n. 17963/2020 (in questa Rivista n. 3.2020).
 
LE MISURE DI ACCOGLIENZA
Il Tar Veneto, con sentenza n. 1096/2020, ha annullato il provvedimento con cui il prefetto di Verona ha revocato le misure di accoglienza di un richiedente asilo che si era allontanato temporaneamente dalla struttura di accoglienza, senza previa autorizzazione della prefettura. Premessa la natura sanzionatoria della revoca (Cons. St. nn. 3297/2018 e 80/2018), in relazione alla quale la motivazione deve essere particolarmente approfondita (Tar Milano n. 2201/2018) e rispettosa dei principi di proporzionalità e rispetto della dignità umana (Tar Milano n. 1970/2020 e CGUE 12.11.2019 C-233/18), il giudice amministrativo veneto ha censurato il provvedimento di revoca perché non preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 legge 241/90 e s.m. In via di fatto, il ricorrente si era allontanato un’unica volta, per visitare la fidanzata abitante a Reggio Emilia ed era stato ivi trattenuto stante il divieto di circolazione durante il lockdown da COVID-19, ma mettendosi in comunicazione con gli operatori del CAS ospitante.
 
Con sentenza RG. 851/2020 il Tar Veneto  ha accolto il ricorso proposto da richiedente asilo ai sensi dell’art. 23 d.lgs. 104/2010, cioè avverso il silenzio serbato dalla prefettura di Padova rispetto alle istanze di ripristino delle misure di accoglienza. Il caso ha riguardato una richiedente asilo, che già nel 2016 aveva presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale, nell’ambito del cui procedimento era stata accolta nel sistema pubblico di accoglienza, da cui si era però allontanata, tratta in inganno dalla falsa promessa di lavoro ed indotta, invece, alla prostituzione. Rientrata in Italia nel 2018, fuggendo dalla rete degli sfruttatori, aveva presentato nuova domanda di protezione e chiesto il ripristino delle misure di accoglienza, senza ricevere risposta formale. Accolta in sede cautelare la domanda, con conseguente ordine di ripristino delle misure di accoglienza, nel merito il giudice amministrativo ha accolto il ricorso, affermando che l’obbligo per la PA di rispondere ad una istanza può sorgere da una specifica disposizione di legge ma anche da principi generali dell’ordinamento, quali il dovere di correttezza e buona amministrazione della parte pubblica (Cons. St. nn. 2545/2014 e 6183/2012).
Pur ritenendo di non potere entrare nel merito della domanda di ripristino delle misure di accoglienza, in quanto afferenti ad un potere discrezionale della PA, il Tar ha dichiarato illegittimo il silenzio serbato dalla prefettura, con ordine di provvedere entro 30 gg., garantendo nelle more le misure di accoglienza.