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Fascicolo 3, Novembre 2020


Le frontiere? – ha affermato il grande viaggiatore norvegese Thor Heyerdhal – Esistono eccome.

Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini.

 

(Aime M., Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004)

Famiglia e minori

FAMIGLIA

Ricongiungimento del genitore del rifugiato: prova del legame familiare e della vivenza a carico
Con la sentenza del 18.6.2020, n. 2975 (in Banca dati De Jure), la Corte d’appello di Roma ha avuto modo di enunciare alcuni principi importanti in materia di mezzi per provare il legame familiare e la vivenza a carico del genitore, ai fini del ricongiungimento dello stesso con un rifugiato.
 
La Corte ha in primo luogo individuato la fonte normativa rilevante, in relazione a tale specifica questione, nel secondo comma dell’art. 29-bis del d.lgs. 25.07.1998, n. 286, che espressamente prevede che «qualora un rifugiato non possa fornire documenti ufficiali che provino i suoi vincoli familiari, in ragione del suo status, ovvero della mancanza di un’autorità riconosciuta o della presunta inaffidabilità dei documenti rilasciati dall’autorità locale […], le Rappresentanze diplomatiche o consolari provvedono al rilascio di certificazioni, […], sulla base delle verifiche ritenute necessarie effettuate a spese degli interessati. Può essere fatto ricorso, altresì, ad altri mezzi atti a provare l’esistenza del vincolo familiare, tra cui elementi tratti da documenti rilasciati dagli organismi internazionali ritenuti idonei dal Ministero degli affari esteri. Il rigetto della domanda non può essere motivato unicamente dall’assenza di documenti probatori».
Nella fattispecie decisa, il richiedente aveva dedotto che la propria madre, cittadina somala, viveva da anni in un campo profughi in Kenya ed era gravemente malata. La prova del vincolo di filiazione era stata data con l’esame del DNA. Quanto alla prova dell’assenza di altri familiari che potessero occuparsi della madre, essendo quest’ultima impossibilitata a produrre un certificato di famiglia o i certificati di morte dei familiari, la madre era ricorsa ad un’autocertificazione resa davanti ad un notaio di Nairobi e timbrata dall’Ambasciata di Somalia in cui la donna dichiarava che, a seguito del decesso degli altri familiari, il ricorrente era il suo unico figlio.
Secondo la Corte d’appello, in difetto di accertamenti di segno contrario, doveva ritenersi che le dichiarazioni fossero veritiere, ben potendo l’Amministrazione svolgere – anche in corso di giudizio – le indagini necessarie per esaminare l’effettiva corrispondenza al vero di quanto dichiarato.
Per i giudici della Corte del merito, in assenza di contestazione di veridicità, l’Amministrazione non poteva rigettare la richiesta di ricongiungimento, sulla sola base della impossibilità di utilizzare autodichiarazioni quali mezzi di prova; ne doveva conseguire la condanna dell’Ambasciata al rilascio del visto di ingresso a favore della madre del ricorrente.
A margine di questa interessante pronuncia, due osservazioni possono essere effettuate.
In primo luogo, si osserva che, a differenza dell’ordinamento italiano, altri ordinamenti, come quello somalo, riconoscono agli affidavit (cioè alle dichiarazioni giurate dell’interessato) un valore giuridico non diverso dalle certificazioni e spesso la prova di determinati fatti può legalmente essere fornita solo tramite tali atti. Questa considerazione che tiene conto della diversità degli ordinamenti giuridici si ritiene importante ai fini della valutazione della sufficienza della prova.
In secondo luogo – ed è questo il principio affermato dal giudice del merito – nel caso in cui si verta in un’ipotesi di ricongiungimento di rifugiati, l’onere probatorio dello straniero deve ritenersi molto attenuato, dal momento che non solo può essere dedotta qualsiasi genere di prova, ma ai sensi del sopra richiamato comma 2 dell’art. 29-bis, «il rigetto della domanda non può essere motivato unicamente dall’assenza di documenti probatori».
Ciò impone un elevato onere di cooperazione sia sull’autorità amministrativa che su quella giudiziaria, chiamate a rendere effettivo l’esercizio del diritto all’unità familiare dei rifugiati.
 
Prova della vivenza a carico del genitore resa in corso di causa; rilevanza delle presunzioni ai fini della prova della vivenza a carico
Con la   sentenza del 17.6.2020, n. 2912, la Corte di appello di Roma  si è pronunciata sempre sul tema della prova della vivenza a carico del genitore.
Anche in quel caso, il ricorrente, titolare di permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, si era visto negare il diritto al ricongiungimento con la madre dall’Ambasciata italiana a Nairobi sulla base del rilievo che sarebbe mancata la prova «che il familiare residente in Italia» fosse «l’unica fonte di sostegno finanziario, e che tale sostegno fosse continuo e prolungato».
Il ricorso dello straniero era stato accolto dal Tribunale di Roma, con ordinanza impugnata dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Nel proprio atto di appello, il Ministero deduceva che erroneamente il Tribunale avrebbe dato valore ad alcune dichiarazioni sull’onore e ai documenti attestanti quattro versamenti economici effettuati dal ricorrente in favore della madre. Invero, per l’Amministrazione, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, le prime non rivestirebbero alcun valore probatorio mentre i secondi non assicurerebbero alcuno grado di certezza quanto al requisito in esame.
Nel rigettare l’appello, la Corte territoriale dichiara di non condividere l’assunto dell’Amministrazione secondo cui le rimesse in denaro, tutte successive al provvedimento di diniego del visto da parte dell’Ambasciata italiana, non sarebbero idonee, in mancanza di ulteriori riscontri probatori, a dimostrare il requisito della vivenza a carico del familiare da ricongiungere, per non essere stato adeguatamente provato che il genitore non fosse economicamente autosufficiente e che vivesse a carico dell’appellante.
Secondo i giudici di appello, due argomentazioni si opporrebbero alle censure del Ministero.
Da un lato, dal momento che l’accertamento richiesto al Tribunale riguardava la sussistenza di un diritto soggettivo al momento della decisione, e non la regolarità del provvedimento dell’Amministrazione, lo straniero aveva diritto a provare il diritto fatto valere in giudizio anche con documenti formatisi successivamente al diniego di visto, quali le rimesse in denaro. Correttamente dunque il giudice di primo grado aveva deciso la controversia sulla base di documenti formatisi successivamente all’instaurazione del giudizio, rilevando il carattere successivo della prova fornita solo in relazione alla questione delle spese di giudizio.
Quanto all’idoneità delle rimesse a provare la vivenza a carico, la Corte rilevava che oltre a tali documenti, la decisione del Tribunale era stata fondata anche su ulteriori elementi, di natura indiziaria, quali lo stato di vedovanza della madre del ricorrente, la sua precaria condizione di salute, il minore costo della vita nel Paese ove viveva l’interessata, tutti elementi non espressamente contestati in primo grado dall’Amministrazione.
Venivano poi in rilievo fatti notori in relazione alla scarsità delle occasioni di lavoro in Somalia, a maggior ragione per una vedova anziana, sola e affetta da patologia cardiaca, con la conseguenza che era presumibile che la donna non potesse procurarsi alcun reddito.
Alla luce di tali considerazioni, dovendo ritenersi adeguatamente provata per presunzioni la sussistenza dei requisiti per il ricongiungimento familiare, sarebbe spettato all’Amministrazione che contestava la circostanza offrire la prova contraria.
Nel caso di specie, ciò non era avvenuto, «pur essendo la competente Ambasciata munita di tutti i necessari strumenti per effettuare le necessarie verifiche».
Per tale ragione, l’appello viene rigettato, con conferma del diritto al ricongiungimento familiare con la madre dello straniero appellato.
 
Rilievo della presenza di un figlio con cui lo straniero intrattiene rapporti, ai fini della decisione sulla legittimità dell’espulsione
Nell’impugnare il decreto di espulsione di cui era stato destinatario, all’esito del rigetto da parte del questore dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, uno straniero deduceva, da un lato, di convivere stabilmente con una cittadina straniera, dall’altro, di intrattenere una relazione stabile con il figlio avuto da una precedente relazione.
Il Giudice di pace aveva ritenuto infondati gli argomenti dedotti dal ricorrente, che aveva impugnato il provvedimento di rigetto avanti la Corte di cassazione.
Con la sentenza del 19.6.2020, n. 11955, la Corte di Cassazione prende posizione su entrambe le situazioni familiari dedotte dallo straniero, di convivenza e di relazione con un figlio.
Quanto alla convivenza, i Giudici di legittimità osservavano che la convivenza more uxorio non rientra normalmente tra le situazioni tutelabili, in forza dell’esigenza di “certezza” dei rapporti giuridici. Tale principio, in alcuni casi, meriterebbe di essere rimeditato, come fatto dalla medesima Corte in un caso in cui dalla convivenza erano nati dei figli (Cassazione 8889/2019).
Nel caso concreto, però, il figlio minorenne era convivente con la madre dalla quale il ricorrente si era separato: pertanto, correttamente il Giudice di pace non aveva dato rilievo alla dedotta convivenza. La decisione impugnata doveva invece ritenersi errata in relazione alla circostanza che non era stato riconosciuto alcun rilievo al rapporto che lo straniero espulso intratteneva con il figlio, rapporto di cui il ricorrente aveva fornito numerose prove.
Secondo i Giudici di legittimità, il diritto all’unità familiare impone al giudice di «di dare conto di tutti gli elementi qualificanti l’effettività di dette relazioni (rapporto di coniugio, durata del matrimonio, nascita di figli e loro età, convivenza, dipendenza economica dei figli maggiorenni) oltre che delle difficoltà conseguenti all’espulsione, dalle quali possa derivare la definitiva compromissione della relazione affettiva».
In relazione al caso concreto, la Corte rileva come «la distanza tra il Paese di origine del ricorrente e il luogo di residenza del bambino rappresenta un elemento che ricadrebbe pesantemente sulla possibilità di mantenere in vita il rapporto tra padre e figlio».
I Giudici di legittimità ricordano che la decisione, anche alla luce dell’art. 8 CEDU, deve essere ispirata alla «piena adesione ai principi costituzionali e sovranazionali in materia di tutela della genitorialità e, correlativamente, del diritto del minore a non perdere la relazione affettiva con il genitore non convivente che, pur resa difficile dalla lontananza, contiene potenzialità che si evolvono durante il percorso di crescita e che l’ordinamento, anche sovranazionale, tutela».
 
MINORI
Art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998: i figli minori della coppia di stranieri già presenti in Italia si presumono vulnerabili e quindi meritevoli di tutela
Con la sentenza dell’1.9.2020, n. 18188, la Corte di Cassazione ha deciso il ricorso di una coppia di cittadini albanesi che avevano visto rigettare nei due gradi di merito l’istanza volta ad ottenere l’autorizzazione al soggiorno ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 in relazione ai propri figli di sei e quattro anni.
Secondo il giudice d’appello, non vi erano i presupposti per rilasciare la speciale autorizzazione prevista dall’art. 31, da un lato, perché le esigenze rappresentate non erano temporanee, ma inquadrabili in «una situazione di tendenziale stabilità», dall’altro, perché faceva difetto qualsiasi condizione personale (di salute o altro genere) che imponesse la permanenza in Italia, anziché il rientro in Albania.
La Corte di cassazione ritiene che nessuno dei due argomenti richiamati dal giudice del merito sia di per sé sufficiente per escludere la sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 31, co. 3.
In primo luogo, quanto alla circostanza che le motivazioni dedotte non avrebbero carattere temporaneo, i Giudici di legittimità osservano che tale fatto non era ostativo al rilascio dell’autorizzazione, che avrebbe potuto essere rilasciata per un tempo determinato, con successivo riesame della situazione familiare e della condizione dei minori coinvolti.
In secondo luogo, se era vero che in caso di speciale autorizzazione all’ingresso, la stessa era subordinata alla puntuale allegazione e dimostrazione della sussistenza dei gravi motivi per lo sviluppo psicofisico del minore richiesti dalla norma, lo stesso non valeva nella diversa ipotesi in cui il nucleo sia già presente sul territorio nazionale. In tal caso, infatti, «si deve presumere, fino a prova contraria, un radicamento del minore nel suo ambiente nativo, per cui i gravi motivi possono essere collegati all’alterazione di tale ambiente, che consegue, alternativamente, alla perdita della vicinanza con la figura genitoriale, ovvero dal repentino trasferimento in altro contesto territoriale e sociale».
La Corte ricorda come, dalla complessiva elaborazione giurisprudenziale in sede di legittimità, si ricava che il giudice di merito è tenuto ad eseguire un bilanciamento in concreto, nell’ambito del quale va dato valore preminente – ancorché non assoluto – alle esigenze del minore.
Nel caso concreto, tale bilanciamento sarebbe stato del tutto omesso, non avendo il giudice del merito tenuto conto del principio secondo cui «l’età del minore assume un rilievo presuntivo decrescente con l’aumentare della stessa», con la conseguenza che «in presenza di un minore in età prescolare la sussistenza del grave danno, alternativamente derivante dalla sua separazione dai genitori naturali o dal suo sradicamento e trasferimento insieme ad essi nel Paese d’origine, va presunta fino a prova contraria».
Dopo avere dato atto della presunzione di vulnerabilità, legata alla condizione di minorenne e a quella specifica di minore in età prescolare, il giudice avrebbe dovuto effettuare un’operazione di bilanciamento sulla scorta del principio – elaborato dalla Suprema Corte in materia di protezione sussidiaria e di protezione umanitaria, ma da estendersi anche al diritto del minore alla stabilità dei legami familiari fondamentali – della cosiddetta «comparazione attenuata» che impone un peculiare bilanciamento tra la condizione personale della persona interessata e la situazione che deriverebbe dal suo eventuale rimpatrio. In base a tale criterio, per i Giudici di legittimità, «va ritenuta, sino a prova contraria, la prevalenza della condizione di vulnerabilità del minore rispetto alle norme regolanti il diritto di ingresso e di soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, e va quindi dato primario rilievo al danno che deriverebbe sulla persona del minore e sulle sue aspettative di vita in Italia, per effetto del rimpatrio in un contesto socio-territoriale con il quale il minore stesso non abbia in concreto alcun rapporto».

Sito realizzato con il contributo della Fondazione "Carlo Maria Verardi"

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