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Fascicolo 3, Novembre 2020


Le frontiere? – ha affermato il grande viaggiatore norvegese Thor Heyerdhal – Esistono eccome.

Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini.

 

(Aime M., Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004)

Rassegna di giurisprudenza europea: Corte europea dei diritti umani

Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti
Nel caso M.K. e altri c. Polonia (Corte Edu, sentenza del 23.07.2020) la Corte Edu riunisce i ricorsi avviati da tre famiglie russe per lamentare varie violazioni della Convenzione originate dal rifiuto delle autorità polacche di registrare le domande di protezione internazionale che avevano ripetutamente tentato di presentare al confine tra Bielorussia e Polonia.
 

Nonostante fosse chiara la loro intenzione di chiedere asilo temendo, una volta scaduto il titolo di soggiorno in Bielorussia, di essere rinviati in Cecenia, le autorità polacche al confine avevano ogni volta interrogato sommariamente i ricorrenti e, dopo aver adottato il relativo ordine, li avevano subito allontanati in Bielorussia. Ciò avveniva anche quando la Corte Edu aveva accolto, per ognuno dei ricorrenti, la richiesta di misure provvisorie ex art. 39 del suo regolamento, indicando al Governo polacco di sospendere il loro rinvio fino all’esame dei rispettivi casi. Per il Governo polacco, tuttavia, i ricorrenti erano unicamente migranti economici e non avevano alcun titolo per far ingresso in Polonia, non trattandosi a suo avviso di allontanamenti in senso proprio ritenendo impossibile rinviare qualcuno che, tecnicamente, non era ancora entrato in territorio polacco. La Corte Edu rigetta innanzitutto le obiezioni dello Stato convenuto ritenendo, in particolare, come tutte le azioni adottate nei confronti dei ricorrenti ricadessero nella sua giurisdizione trattandosi di un territorio di confine posto sotto l’esclusivo controllo delle autorità polacche (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 13.02.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020). Quanto alla lamentata esposizione dei ricorrenti al rischio di subire trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu se rinviati in Cecenia dopo il loro allontanamento in Bielorussia, la Corte Edu concorda con i ricorrenti nel ritenere che questi abbiano manifestato in modo evidente il rischio di refoulement, diretto e indiretto, alle autorità di confine. A tal fine rileva non solo la presentazione di richieste di asilo già compilate, ma anche il fatto che il Governo polacco fosse stato in vari modi informato della situazione dei ricorrenti considerate anche le richieste giunte dalla stessa Corte Edu. Ciononostante, non solo tali timori non sono stati adeguatamente considerati ma, tenuto conto delle note criticità del sistema di asilo in Bielorussia (ad es., Human Rights Watch, Rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani in Bielorussia, 2017), le autorità polacche al confine non hanno nemmeno tutelato la sicurezza dei ricorrenti permettendo loro di rimanere sotto la giurisdizione dello Stato convenuto fino a un esame completo dei loro casi. Vi è stata dunque una violazione dell’art. 3 Cedu, cui si aggiungono la violazione del divieto di espulsioni collettive (art. 4, Prot. 4) e del diritto a un ricorso effettivo (art. 13 Cedu) letto in combinato all’art. 3 e art. 4, Prot. 4, Cedu. Infatti, pur essendo stati interrogati e avendo ricevuto una decisione individuale ogni volta che si erano presentati al confine, non era stata comunque condotta una valutazione adeguata della situazione specifica dei ricorrenti facendo così assumere ai loro allontamenti quel carattere collettivo di cui all’art. 4, Prot. 4 Cedu (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, 1, 2012, p. 104; Corte Edu, 21.10.2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia, in questa Rivista, XVI, 3-4, 2014, p. 154). In tale situazione, era anche mancato un mezzo di ricorso effettivo attraverso cui far valere i rischi di refoulement individuale e di espulsione collettiva in contrasto a quanto invece richiede l’art. 13 Cedu. Infine, tenuto conto del mancato rispetto delle misure provvisorie indicate al Governo polacco, per la Corte Edu lo Stato convenuto è anche venuto meno all’osservanza degli obblighi derivanti dall’art. 34 della Convenzione.

In Moustahi c. Francia (Corte Edu, sentenza del 25.06.2020), un padre e i suoi due figli, di cinque e tre anni all’epoca dei fatti, lamentano diverse violazioni della Cedu per il trattenimento e successivo respingimento dei ricorrenti minori alle Comore, da dove avevano tentato di raggiungere il padre, soggiornante in modo regolare a Mayotte, senza alcun accompagnatore. Intercettati in mare, i due minori venivano affidati a uno degli adulti presenti nell’imbarcazione, trattenuti senza l’adozione di alcun provvedimento a loro destinato e rinviati alle Comore nonostante i tentativi del padre di bloccare l’allontanamento. Dopo aver rigettato le obiezioni dello Stato convenuto, per il quale i ricorrenti hanno perso lo status di vittime ai sensi dell’art. 34 Cedu poiché hanno successivamente ottenuto un permesso di ingresso e soggiorno per motivi familiari, la Corte Edu esamina la lamentata violazione dell’art. 3 Cedu alla luce della sua giurisprudenza in materia che riconosce ai minori coinvolti nel processo migratorio una condizione di particolare vulnerabilità con l’affermazione di conseguenti obblighi positivi (cfr. Corte Edu, 12.07.2016, R.M. e altri c. Francia, e tutti gli altri casi decisi lo stesso giorno con la Francia in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Su tali basi, la Corte afferma che, nel caso di minori non accompagnati, le autorità nazionali devono fare tutto quanto possibile per stabilire con certezza i legami esistenti tra i minori interessati e l’adulto al/la quale intendono affidarli. Rispetto alla situazione specifica del territorio francese di Mayotte, essa osserva come esista una prassi sistematica di affidare i minori non accompagnati ad adulti sconosciuti non tanto per attuare il loro preminente interesse ma per permettere il loro rapido allontanamento. Ciò avviene nonostante l’ordinamento interno preveda la designazione di amministratore ad hoc che assista ogni minore non accompagnato. In effetti, nel caso dei ricorrenti minori, nessuna indagine preliminare era stata compiuta per chiarire i legami esistenti tra questi e l’adulto con cui sono stati trattenuti e poi allontanati. Inoltre, nonostante la loro specifica condizione, sono stati trattenuti come qualsiasi altro adulto e rinviati alle Comore senza alcuna previa garanzia circa adeguate condizioni di accoglienza all’arrivo. Così, tenuto conto dei sentimenti di angoscia e delle conseguenze traumatiche che tutto ciò ha potuto generare nei loro confronti, per la Corte Edu nel caso dei ricorrenti minori è stata superata la soglia di gravità richiesta dall’art. 3 Cedu con conseguente violazione di questa parte della Convenzione. Tale soglia non è invece stata superata relativamente alla sofferenza e all’inquietudine generate nel padre dagli eventi riguardanti i figli, essendo peraltro colui che li aveva indirizzati a intraprendere un viaggio di fortuna verso la Mayotte. Pertanto, nei suoi confronti non vi è stata violazione dell’art. 3 Cedu. Inoltre, i ricorrenti minori hanno subito anche una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza personale (art. 5, para. 1 e 4), poiché la privazione della loro libertà non aveva alcun fondamento giuridico e non era stata accompagnata da un ordine di trattenimento o allontanamento a loro specificamente rivolto, rendendo nulla ogni possibilità di ricorso dinanzi le autorità giudiziarie. A ciò si aggiungono: una violazione dell’art. 8 Cedu nei confronti di tutti i ricorrenti, in quanto l’interferenza subita con il trattenimento dei minori nonostante la presenza in loco del padre non era prevista dalla legge e comunque non rispondeva all’attuazione del loro preminente interesse; una violazione del divieto di espulsioni collettive (art. 4, Prot. 4 Cedu) nei confronti dei ricorrenti minori, in quanto le autorità interne non avevano condotto alcun esame individuale e oggettivo della loro situazione prima di rinviarli alle Comore; e una violazione del diritto a un ricorso effettivo (art. 13), letto in combinato con l’art. 8 e art. 4 del quarto Protocollo addizionale alla Cedu, poiché, data la particolare celerità con cui è avvenuto il trattenimento e il successivo allontanamento, qualsiasi esame della situazione da parte delle autorità giudiziare, anche rispetto ai ricorsi presentati nel giro di qualche ora dal sig. Moustahi, risultava di fatto impossibile.
 
Il caso M.S. c.Slovacchia e Ucraina (Corte Edu, sentenza dell’11.06.2020) riguarda un cittadino afghano che, temendo persecuzioni in seguito all’omicidio del padre, aveva raggiunto la Slovacchia attraverso il confine ucraino. Fermato dalle autorità di confine slovacche, veniva interrogato con il supporto di un interprete e, dopo aver dichiarato di non voler richiedere protezione internazionale, veniva consegnato alle controparti ucraine. In Ucraina veniva trattenuto e, una volta rigettata la sua domanda di asilo, allontanato in Afghanistan. Lamentava quindi la violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3 Cedu) e del diritto alla libertà e alla sicurezza personale (art. 5 Cedu) da parte sia della Slovacchia sia dell’Ucraina. La Corte Edu innanzitutto rigetta come manifestamente infondate le parti del ricorso relative alle presunte violazioni da parte della Slovacchia, le cui autorità avevano sostanzialmente osservato tutte le garanzie procedurali a tutela del ricorrente prima e durante il suo rinvio in Ucraina, nonché alla lamentata violazione dell’art. 3 Cedu per le condizioni materiali di detenzione in Ucraina non essendo supportata da prove. Invece, quanto all’operato delle autorità ucraine in relazione all’allontanamento del ricorrente in Afghanistan, la Corte Edu osserva come esse non abbiano esaminato in modo appropriato l’eventuale rischio cui poteva essere esposto il sig. M.S. nel suo Paese di origine. Ciò si desume dalle contraddizioni e dagli errori materiali riscontrabili anche nelle decisioni destinate al ricorrente, ma anche dal fatto che l’ordine di allontanamento fosse stato notificato dopo che il suo trasferimento era già stato avviato. Venute meno tali garanzie procedurali (diversamente ad es. da Corte Edu, 25.02.2020, A.S.N. e altri c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XXII, 2, 2020), e indipendentemente dall’esito a cui tale esame avrebbe condotto, per la Corte Edu vi è stata una violazione dell’art. 3 Cedu da parte dell’Ucraina. Inoltre, considerato che le autorità ucraine non hanno presentato sufficienti elementi volti a confutare la denuncia del ricorrente circa la mancata informazione, in una lingua a lui comprensibile, delle ragioni per cui veniva trattenuto e sui mezzi di ricorso disponibili per contestare la legittimità dello stesso trattenimento, vi è anche stata una violazione dell’art. 5, para. 2 e 4, Cedu.
 
Nel caso S.A. c. Paesi Bassi (Corte Edu, sentenza del 2.06.2020) un cittadino sudanese, identificatosi come originario del Darfur e di origine etnica non araba, lamenta l’eventuale violazione dell’art. 3 Cedu nel caso in cui venisse allontanato nel suo Paese di origine. L’ordine di allontanamento era seguito al rigetto delle ripetute domande di protezione internazionale per ragioni di non credibilità. In particolare, durante le interviste il sig. S.A. aveva fornito risposte vaghe sul Darfur e, al contempo, risultavano contraddittorie le sue dichiarazioni in merito alle sue identità e origini rispetto alle risultanze del test linguistico cui era stato sottoposto per stabilirne la reale provenienza. La Corte Edu ribadisce, in primo luogo, che nel Sudan non si riscontra una situazione così grave da comportare essa stessa una violazione dell’art. 3 Cedu in caso di rinvio (Corte Edu, 30.05.2017, A.I. v. Svizzera e N.A. c. Svizzera, in questa Rivista, XIX, 3, 2017). In secondo luogo, dopo aver ricordato come rispetto alle circostanze personali del ricorrente le autorità interne siano meglio posizionate per valutarne la credibilità, la Corte ritiene che, nel corso dei vari procedimenti, il sig. S.A. abbia avuto varie opportunità per chiarire le contraddizioni a lui contestate, che l’esame della sua situazione sia stato condotto in modo adeguato e che, in tutti i procedimenti, sia stato anche assistito da un avvocato. Inoltre, per la Corte Edu, se è vero che una persona come il ricorrente possa comunque essere discriminata in Sudan per le sue origini, ciò non è sufficiente per ritenere che il sig. S.A. possa essere esposto a un trattamento vietato dall’art. 3 Cedu. Inoltre, non vi sono elementi tali per ritenere che le autorità sudanesi nutrano un qualche interesse per il ricorrente. Di conseguenza, l’allontanamento del sig. S.A. non darebbe luogo a una violazione del divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti. Quanto invece alla presunta violazione del diritto a un ricorso effettivo (art. 13 Cedu) nel lamentare i rischi cui sarebbe esposto in Sudan, la Corte Edu conclude che non vi è stata violazione di tale disposizione proprio perchè il ricorrente aveva avuto la possibilità di contestare le decisioni con cui erano state rigettate le sue domande di asilo e di avanzare, nel corso dei vari procedimenti interni, tutti gli elementi utili per un esito a lui favorevole.
 
Con il caso N.H. e altri c. Francia (Corte Edu, sentenza del 2.07.2020) la Corte Edu torna a esaminare congiuntamente i ricorsi relativi a presunti violazioni dell’art. 3 Cedu lamentate da richiedenti asilo che, arrivati in Francia, non avevano avuto accesso alle misure di accoglienza previste dall’ordinamento interno e che, nonostante i ripetuti appelli, venivano di fatto abbandonati al loro destino dalle autorità competenti (cfr. Corte Edu, 9.1.2020, B.L. e altri c. Francia, in questa Rivista, XXII, 2, 2020). In particolare, per il sig. N.H. e gli altri ricorrenti, tutti cittadini afghani, era stato inizialmente impossibile dimostrare il loro status di richiedenti asilo perchè avevano visto fissare la registrazione della loro domanda di protezione internazionale molte settimane dopo il loro arrivo. Una volta avvenuta la registrazione, però, avevano continuato a non aver accesso ai servizi essenziali previsti dalla normativa interna data la situazione di emergenza generata da un elevato afflusso di richiedenti asilo, rimandendo quindi in una situazione di precarietà estrema. Dopo aver radiato dal ruolo uno dei ricorsi, la Corte Edu ricorda come situazioni di significativo afflusso di richiedenti asilo, ritenuti vulnerabili per il percorso migratorio e le esperienze traumatiche affrontate, non esonerano gli Stati parte dall’osservare le garanzie previste dall’art. 3 Cedu tenuto conto del suo carattere assoluto e del valore fondamentale che ricopre in una società democratica (tra le altre, Corte Edu, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017, par. 184). Il suo rispetto, tuttavia, non implica l’obbligo di garantire ai richiedenti asilo e rifugiati un particolare standard di vita. La Corte Edu nota come, non essendo autorizzati a lavorare, i ricorrenti fossero totalmente dipendenti dal supporto delle autorità pubbliche. Ciononostante, a causa del ritardo nella registrazione delle loro domande di protezione internazionale, erano stati costretti a vivere per lungo tempo (fino a 262 giorni nel caso più grave) con il timore di essere espulsi dalla Francia, alloggiando per strada e senza accesso a pasti regolari, a cure o a qualche tipo di aiuto finanziario. Inoltre, alla luce del gran numero di arrivi, le soluzioni di emergenza pur previste dalle autorità locali venivano assicurate sulla base della vulnerabilità delle persone interessate, escludendo di fatto richiedenti maschi, adulti e senza figli come i ricorrenti. Alla luce di ciò e considerata l’inerzia delle autorità francesi pur sollecitate, la Corte Edu ritiene che tre ricorrenti siano stati effettivamente esposti a un trattamento degradante, in violazione dell’art. 3 Cedu, che ha suscitato in loro “sentimenti di paura, angoscia o inferiorità che possono condurre alla disperazione” (par. 184) (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 21.01.2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, in questa Rivista, XIII, 2, 2011, p. 111; Corte Edu, 18.05.2017, S.G. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, 3, 2017). Invece, nel caso del richiedente che ha visto registrata la sua domanda di asilo entro un mese dal suo arrivo e che ha ottenuto un aiuto finanziario dopo ‘soli’ 63 giorni, per la Corte Edu il trattamento a lui riservato non ha raggiunto il livello di gravità richiesto dall’art. 3 Cedu. Pertanto, rispetto a quest’ultimo, non vi è stata violazione di tale disposizione.
 
Infine, nel periodo in esame, la Grande Camera della Corte Edu ha ritenuto inamissibile il ricorso presentato da una famiglia siriana che lamentava, tra l’altro, una violazione dell’art. 3 Cedu per aver visto negata la loro richiesta di visto umanitario, presentata nell’Ambasciata del Belgio in Libano, per fare ingresso legalmente in Europa e chiedere protezione internazionale rispetto alla violenza cui erano esposti in Siria (Corte Edu, Grande Camera, M.N. e altri c. Belgio, decisione del 5.05.2020). Per la Corte Edu, che distingue questo caso da tutti gli altri casi di respingimento o presenza di migranti e richiedenti asilo alla frontiera, i ricorrenti non rientrano nella giurisdizione del Belgio ai sensi dell’art. 1 Cedu (Corte Edu, Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, n. 1, 2012, p. 104; Corte Edu, Grande Camera, 13.02.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020). Infatti, per quanto sia vero che le autorità belghe abbiano esercitato il potere pubblico nell’esaminare e negare la richiesta di visto dei ricorrenti, il sig. M.N. e la sua famiglia non si trovavano in territorio belga o sotto il controllo extraterritoriale del Belgio. Se la loro presenza nella rappresentanza diplomatica dello Stato convenuto non risulta rilevante a tal fine, essendo stati peraltro liberi di entrare e uscire dai locali dell’Ambasciata senza risultare, in alcun momento, sotto il controllo di fatto degli agenti diplomatici, non esistevano particolari legami che potessero ricondurli sotto la giurisdizione belga (ad es. la cittadinanza belga o situazioni relative alla loro vita privata o familiare). Per la Corte Edu, nemmeno i procedimenti giudiziari instaurati in Belgio in seguito all’appello presentato dai ricorrenti contro il diniego del visto rappresentano una circostanza eccezionale che possa giustificare, di per sè, l’applicazione extraterritoriale della Convenzione. Infatti, in caso contrario, si darebbe alla Cedu un’applicazione quasi universale, potendo ogni individuo, indipendentemente dal luogo in cui si trova nel mondo, generare unilateralmente un legame giurisdizionale con uno Stato parte della Cedu attraverso la presentazione di un ricorso dinanzi i giudici interni. Una tale posizione sarebbe, per la Corte, contraria al diritto inalienabile degli Stati parte di controllare i propri confini. Per queste ragioni, il ricorso è stato ritenuto quindi inammissibile.
 
Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza
Il caso Muhammad Saqawat c. Belgio (Corte Edu, sentenza del 30.06.2020) riguarda un cittadino del Bangladesh che, giunto in Belgio, veniva collocato in un centro di trattenimento per stranieri in attesa della valutazione della sua domanda di protezione internazionale, poco dopo rigettata. Nonostante ne venisse ordinata la liberazione in quanto per i giudici interni le autorità competenti non avevano esaminato la sua situazione personale e avevano adottato decisioni motivate in modo stereotipato, il ricorrente vedeva continuamente privata la sua libertà personale sulla base di nuove decisioni di trattenimento per un totale di cinque mesi circa. Ritenendo di aver subito un trattenimento illegittimo, anche per la mancanza di un mezzo di ricorso effettivo attraverso cui ottenere la sua liberazione, il sig. Saqawat lamentava una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza di cui all’art. 5, para. 1 e 4, Cedu. Limitando l’esame del caso ai periodi detentivi relativi alle decisioni contro cui il sig. Saqawat aveva effettivamente presentato ricorso sollevando anche la presunta violazione della Cedu dinanzi i giudici interni, la Corte Edu concorda con questi ultimi nel ritenere che il trattenimento del ricorrente non poteva essere considerato regolare ai sensi dell’art. 5, para. 1, Cedu durante due periodi specifici (pari più o meno a una settimana ciascuno) poiché, rispettivamente, non fondato su una decisione motivata da un esame circostanziato della sua situazione personale il primo e non coperto da alcuna decisione in quanto decaduta e non rinnovata il secondo. Vi è stata pertanto una violazione di tale disposizione. Inoltre, tenendo conto che il ricorrente aveva ottenuto più decisioni a lui favorevoli ma non era stato liberato perchè venivano adottate di seguito nuove decisioni di trattenimento, vi è stata anche una violazione dell’art. 5, para. 4, Cedu per l’inesistenza di un ricorso che potesse statuire in modo definitivo e in tempi brevi sulla legittimità del trattenimento subito dal sig. Saqawat ordinandone la liberazione.
 
Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare
In Keita c. Ungheria (Corte Edu, sentenza del 12.05.2020) la Corte Edu si pronuncia in merito al ricorso presentato da un apolide di discendenza somala e nigeriana che, giunto irregolarmente in Ungheria, non era riuscito a regolarizzare il suo status per circa quindici anni. Dopo aver rigettato la sua domanda di asilo, le autorità ungheresi ne ordinavano l’allontanamento in Nigeria senza informare il ricorrente della procedura prevista dalla legge per ottenere il riconoscimento dello status di apolide. Venuto a conoscenza di tale procedura, il sig. Keita vedeva rigettata la sua domanda in quanto lo status di apolide poteva essere riconosciuto unicamente a chi possedeva già un regolare titolo di soggiorno. Nel corso di un secondo procedimento interno, tale requisito veniva ritenuto dalla Corte Costituzionale contrario agli obblighi internazionali dell’Ungheria, in particolare alla Convenzione delle Nazioni Unite sullo status delle persone apolidi del 1954, e quindi abrogato. Il ricorrente veniva così riconosciuto quale apolide potendo godere di benefici, come le cure essenziali o l’accesso al lavoro, che gli erano stati a lungo negati. Ritenendo opportuno esaminare il caso sotto il profilo dell’art. 8 Cedu, in particolare del rispetto per la vita privata alla luce dei legami oramai stabiliti dal sig. Keita in Ungheria, la Corte Edu si concentra sull’esistenza di una procedura chiara e accessibile attraverso cui il ricorrente potesse regolarizzare la sua posizione (cfr. Corte Edu, 26.04.2018, Hoti c. Croazia, in questa Rivista, XX, 2, 2018). A tal fine, la Corte nota come il suo status di apolide fosse evidente già poco dopo il suo arrivo in Ungheria, sin dal rifiuto opposto dalle autorità nigeriane di riconoscere il sig. Keita come proprio concittadino. Nonostante ciò, per il modo in cui era formulata la legge in materia di apolidia, prima della decisione della Corte Costituzionale il ricorrente non aveva avuto alcuna concreta possibilità di regolarizzare la sua posizione con serie ripercussioni sul godimento del diritto al rispetto per la sua vita privata, inclusa l’impossibilità di contrarre matrimonio con la sua compagna. Pertanto, nel suo caso, vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu.
Il caso Rana c. Ungheria (Corte Edu, sentenza del 16.07.2020) riguarda un cittadino iraniano che aveva ottenuto lo status di rifugiato in ragione della sua identità di genere e che lamentava una violazione del diritto di cui all’art. 8 Cedu per l’impossibilità di ottenere, in Ungheria, la modifica del sesso indicato nei suoi documenti di identità iraniani in modo che questi corrispondessero alla sua identità di genere (cfr. su tali richieste www.sogica.org e la raccolta bibliografica presente nella relativa banca dati). Secondo le autorità ungheresi, la nascita del sig. Rana era stata registrata da autorità straniere per cui esse non erano competenti in materia. Pur affermando la stretta connessione tra diritto al nome, diritto al cambio di genere e inviolabilità della dignità personale, la Corte Costituzionale ungherese riteneva come il quadro giuridico interno non permettesse ai non aventi la cittadinanza ungherese di ottenere la modifica richiesta dal ricorrente e esortava unicamente il Governo ad apportare le necessarie modifiche legislative a tal fine. Dopo aver ricordato che il diritto al rispetto per la vita privata tutela l’identità di genere e il cambio del nome come componenti essenziali dell’identità individuale (Corte Edu, 11.10.2018, S.V. c. Italia, par. 57-59), la Corte Edu ritiene che gli Stati parte della Cedu godono di un margine di apprezzamento sensibilmente ristretto quando sono in gioco aspetti così fondamentali della persona, anche nonostante l’esistenza di un interesse generale a mantenere regole stringenti in materia di stato civile. Poiché la Cedu protegge i diritti in modo effettivo e non illusorio, le autorità ungheresi avrebbero dovuto tenere conto della ragione per cui il sig. Rana ha ottenuto lo status di rifugiato, non essendo ragionevole attendersi che quest’ultimo potesse rivolgersi alle autorità del suo Paese proprio in relazione al motivo per cui teme di essere perseguitato. Pertanto, venendo meno all’obbligo di garantire un corretto bilanciamento tra gli interessi individuali e collettivi in gioco nel caso specifico, vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu.
 
Nel caso Omorefe c. Spagna (Corte Edu, sentenza del 23.06.2020), una cittadina nigeriana soggiornante irregolarmente in Spagna chiedeva, subito dopo il parto, che suo figlio fosse affidato temporaneamente alle autorità competenti, a causa della sua condizione di precarietà. Dopo aver dichiarato il minore in stato di abbandono, le autorità spagnole informavano la ricorrente che avrebbe potuto riavere suo figlio a condizione che, entro un determinato periodo, avesse superato le sue difficoltà socio-economiche dando prova di risorse stabili e adatte ad assicurare il normale sviluppo del minore. Ciononostante, non veniva predisposto alcun piano di sostegno nei confronti della ricorrente e, poco dopo, il minore veniva collocato in affido preadottivo e le visite della madre venivano sospese. Se in un primo momento l’Audienca provincial accoglieva il ricorso della sig.ra Omorefe che si opponeva all’adozione, ritenendo che questa misura non fosse supportata né da appropriati esami psicologici né dalla situazione di povertà della ricorrente, la stessa Corte ne dichiarava poi l’adottabilità data l’età oramai raggiunta dal minore e i legami creatisi con la famiglia affidataria. Sulla base degli obblighi positivi di facilitare i legami familiari nonché l’esigenza di attribuire un’adeguata considerazione agli interessi del minore alla luce delle circostanze specifiche di ogni caso (cfr. Corte Edu, 16.07.2015, Akinnibosun c. Italia, in questa Rivista, XVII, 3-4, 2015), la Corte Edu si concentra sulla necessità in una società democratica dell’interferenza subita dalla ricorrente nel godimento del rispetto per la sua vita familiare a causa dell’adozione del figlio. A tal fine, la Corte nota come le autorià spagnole non si siano attivate prontamente per facilitare il raggiungimento delle condizioni poste al reintegro del minore nella sua famiglia naturale. Tenuto conto delle tempistiche dell’affidamento preadottivo, per la Corte Edu tale reintegro non è mai stato preso seriamente in considerazione dalle autorità interne, le quali non hanno proceduto a un serio bilanciamento tra gli interessi della madre e quelli del minore come dimostrato anche dall’assenza di qualsiasi rapporto psicologico o esami indipendenti nell’autorizzare l’adozione in assenza del consenso materno. Con il loro comportamento, le autorità spagnole hanno invece reso definitiva una rottura dei legami familiari che inizialmente era solo temporanea. Vi è stata quindi violazione dell’art. 8 Cedu. Inoltre, tenendo conto delle circostanze particolari del caso, ai sensi dell’art. 46 Cedu, la Corte Edu ha invitato le autorità interne a riconsiderare in tempi rapidi le circostanze della ricorrente e del minore al fine di permettere il ripristino dei contatti tra gli stessi.
 
Il caso Hirtu e altri c. Francia (Corte Edu, sentenza del 14.05.2020) riguarda sette cittadini rumeni di etnia Rom, stanziati in un accampamento di fortuna con le loro famiglie alla periferia di Parigi, ai quali veniva ordinato di sgomberare l’area in brevissimo tempo e senza la predisposizione di soluzioni abitative alternative. Mentre i ricorsi presentati da alcuni di essi contro l’ordinanza del prefetto venivano rigettati, prima della data prevista per l’evacuazione forzata la gran parte dei ricorrenti si spostavano in un altro accampamento dal quale, tuttavia, venivano comunque allontanati dalla polizia con il sequestro di quasi tutte le loro roulotte. Se alcuni tornavano infine in Romania, altri venivano supportati dai servizi sociali. Per lo sgombero subito e le conseguenti condizioni di vita, tutti i ricorrenti lamentavano una violazione degli artt. 3, 8 e 13 Cedu. Pronunciandosi solo nei confronti di quei ricorrenti che avevano mantenuto i contatti con il loro rappresentante legale, la Corte Edu ritiene molto rapidamente che non vi è stata violazione dell’art. 3 Cedu dal momento che lo sgombero non era di fatto avvenuto. Se in generale non erano emersi episodi di violenza, le autorità francesi non si erano nel complesso del tutto disinteressate alla loro situazione successiva. Passando alla presunta violazione del diritto alla vita privata e familiare, la Corte Edu riconosce tuttavia che l’ordinanza del prefetto e gli eventi successivi hanno certamente determinato un’interferenza nel godimento del diritto di cui all’art. 8 Cedu. Se tale interferenza era prevista dalla legge e volta a perseguire scopi legittimi, inclusa la tutela della sicurezza e della salute pubblica, occorreva stabilire se essa potesse definirsi anche necessaria in una società democratica alla luce della condizione di particolare vulnerabilità riconosciuta alla comunità Rom (Corte Edu, 17.10.2013, Winterstein e altri c. Francia, in questa Rivista, XV, 4, 2013). A tal fine, la Corte nota come, nonostante le autorità interne possano legittimamente sgomberare un terreno occupato in modo abusivo, le modalità con cui avevano operato nel caso specifico risultavano discutibili. Oltre al breve preavviso, le autorità francesi non avevano prontamente offerto alloggi alternativi né avevano fatto ricorso a una procedura che permettesse agli interessati di veder esaminata, in modo certo, la proporzionalità della misura adottata nei loro confronti rispetto agli scopi pubblici perseguiti. Pertanto, venendo anche meno tali garanzie procedurali, per la Corte Edu vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu. A quest’ultima si aggiunge una violazione del diritto a un ricorso effettivo (art. 13 Cedu), letto in combinato con gli artt. 3 e 8 Cedu, in quanto per la Corte i mezzi di ricorso a disposizione dei ricorrenti interessati non potevano definirsi effettivi. Lo dimostra, tra l’altro, la mancata considerazione delle presunte violazioni della Cedu da parte dei giudici di primo e secondo grado intervenuti, a vario titolo e in tempi comunque non rapidi, nel caso dei ricorrenti.
 
Infine, in quattro diversi ricorsi relativi a interferenze nel godimento del diritto al rispetto per la vita privata e/o familiare generate da ordini di allontanamento e/o divieti di reingresso, la Corte Edu giunge alla medesima conclusione ritenendo il bilanciamento dei diversi interessi in gioco operato dalle autorità interne sostanzialmente corretto alla luce della giurisprudenza consolidata in materia (Corte Edu, 6.06.2013, Uner c. Svizzera, in questa Rivista, XV, 2, 2013, p. 89). In Pormes c. Paesi Bassi (Corte Edu, sentenza del 28.07.2020), riguardante un cittadino indonesiano che era ignaro delle sue vere origini essendo arrivato in Europa con il presunto padre olandese all’età di quattro anni e aveva vissuto da sempre come se avesse la cittadinanza dello Stato ospitante, la Corte Edu ritiene che le autorità interne hanno operato un corretto bilanciamento tra interessi in gioco nell’ordinare il suo allontanamento in seguito a numerose condanne penali. Infatti, anche se il ricorrente ha costruito forti legami con i Paesi Bassi e sono quasi assenti relazioni con l’Indonesia, occorre tenere conto dei ripetuti reati commessi dal ricorrente, alcuni dei quali anche contro l’integrità fisica di giovani donne. Inoltre, quale giovane adulto, per la Corte Edu non avrebbe grosse difficoltà a stabilirsi nel suo Paese di origine, mentre potrebbe continuare a mantenere rapporti con la sua famiglia (di fatto) olandese attraverso mezzi virtuali o dopo aver richiesto i visti previsti dall’ordinamento interno. Pertanto, non vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu. Allo stesso modo, nel caso Azerkane c. Paesi Bassi (Corte Edu, sentenza del 2.06.2020), relativo a un cittadino marocchino nato e vissuto con la sua famiglia nei Paesi Bassi e al quale era stato revocato il permesso di soggiorno con un contestuale divieto di re-ingresso per dieci anni, la Corte Edu ritiene giustificata l’ingerenza subita dal ricorrente nel godimento del diritto al rispetto per la vita privata e familiare. Infatti, oltre a essere prevista dalla legge e perseguire fini legittimi, tale interferenza risulta anche necessaria in una società democratica poiché, tenuto conto del suo evidente profilo criminoso date le condanne subite e del carattere temporaneo del divieto di reingresso, lo Stato convenuto non ha accordato un peso eccessivo all’esigenza di prevenire il crimine rispetto agli interessi personali del sig. Azerkane. Quindi, nonostante i legami con il Paese di origine siano limitati, per la Corte Edu l’esecuzione delle misure previste nei confronti del ricorrente non darebbero luogo a una violazione dell’art. 8 Cedu. Simile ragionamento è stato seguito dalla Corte Edu in Veljkovic-Jukic c. Svizzera (Corte Edu, sentenza del 21.07.2020), riguardante una cittadina della Bosnia-Herzegovina che per diciotto anni aveva vissuto regolarmente in Svizzera ma che, in seguito a una condanna per traffico di stupefacenti, vedeva revocato il suo permesso di soggiorno con un contestuale divieto di reingresso per sette anni. Nel valutare la legittimità dell’intereferenza subita dalla ricorrente, la Corte Edu attribuisce particolare importanza al tipo di reato commesso ritenendo che le autorità degli Stati parte devono dare prova di particolare fermezza nella lotta al traffico di droga. Pertanto, nonostante la sig.ra Veljkovic-Jukic sia ben integrata in Svizzera, abbia una vita familiare stabile e abbia assunto un comportamento responsabile dopo aver scontato la sua pena, la Corte Edu concorda con il bilanciamento di interessi operato dalle autorità svizzere. Tenuto peraltro conto del carattere temporaneo del divieto di reingresso e dei legami ancora esistenti tra la ricorrente e il suo Paese di origine che ne faciliterebbero il suo ricollocamento, nel suo caso non vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu. Per le stesse ragioni legate alla gravità di condanne legate a traffico di stupefacenti, la Corte Edu ritiene giustificata l’interferenza nel godimento del diritto al rispetto per la vita familiare lamentata da un cittadino kosovaro che era stato allontanato dalla Svizzera, con divieto temporaneo di reingresso, dopo aver soggiornato nello Stato convenuto per diaciannove anni ma in cui, tuttavia, né risultava integrato né manteneva rapporti regolari con la moglie e il figlio, entrambi con significativi problemi di salute (Corte Edu, K.A. c. Svizzera, sentenza del 7.07.2020). Ritenendo le misure contestate dal ricorrente proporzionali allo scopo legittimo perseguito dalle autorità interne, anche in questo caso per la Corte Edu non vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu.
 

1 La rassegna relativa all’art. 3 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 5-8 di C. Danisi.

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