Asilo e protezione internazionale

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LO STATUS DI RIFUGIATO

Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
La discriminazione per l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale (nel caso in esame l’orientamento sessuale del ricorrente, cittadino del Senegal) comporta, nella decisione del 27.11.2019 del Tribunale di Brescia , il riconoscimento dello status di rifugiato. Con particolare riferimento alla valutazione di credibilità, effettuata in seguito alla rinnovazione dell’audizione orale da parte del Tribunale,
il Collegio ha evidenziato come, in maniera lineare e senza contraddizioni, il ricorrente abbia fornito elementi per ritenere attendibile «nonostante qualche incertezza, spiegabile con la particolare delicatezza della materia» le dichiarazioni relative al proprio orientamento sessuale, al momento in cui si era accorto della propria inclinazione sessuale, al modo di vivere la propria sessualità, e alle conseguenze in termini di stigma sociale, soprattutto con riferimento al comportamento della propria famiglia (descritto con precisione in termini di netto rifiuto di fronte alla possibilità di accettare un figlio con orientamento omosessuale).
In merito alle informazioni sul Paese d’origine, il Tribunale ha precisato che: «l’attuale leggero miglioramento della condizione dei LGBT in Senegal rispetto agli anni precedenti, in un contesto nel quale esplicare l’omosessualità comporta ancora il rischio della misura carceraria e dell’aggressione fisica da parte dei concittadini (come concretamente avvenuto nel caso di specie tanto da essersi reso necessario l’intervento della polizia per fermare gli aggressori), non faccia venir meno la sussistenza del presupposto in fatto per riconoscere al ricorrente lo status di rifugiato, essendovi tuttora il ragionevole timore che egli, in caso di rimpatrio, possa essere vittima di persecuzione a causa del proprio orientamento sessuale».

 

Ancora in merito ai presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato in ragione dell’orientamento omosessuale del ricorrente, la Suprema Corte – nell’ordinanza n. 28197 del 31.10.2019, attraverso ampi richiami al consolidato orientamento di legittimità – ha ribadito che ove il richiedente adduca il rischio di persecuzione, al fine di ottenere la protezione internazionale, il giudice non deve valutare nel merito la sussistenza o meno del fatto, ossia la fondatezza dell’accusa, ma deve limitarsi ad accertare, ai sensi degli artt. 8, co. 2, e art. 14 lett. c) del d.lgs. 25.11.2017 n. 251, se tale accusa sia reale, cioè effettivamente rivolta al richiedente nel suo Paese, e dunque suscettibile di rendere attuale il rischio di persecuzione o di danno grave in relazione alle conseguenze possibili secondo l’ordinamento straniero. Nel caso in esame, invece, la Corte territoriale si era limitata a dare conto delle indagini fatte sulla situazione generale del Paese, omettendo di dare conto degli approfondimenti effettuati per appurare se il ricorrente fosse considerato dalle autorità omosessuale e per accertare come fosse trattata l’omosessualità in Gambia.

 

Opinioni politiche
Il Tribunale di Brescia, con decreto del 4.6.2019 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino della Guinea, cresciuto a Conakry, in quanto era stato condannato per il solo fatto di aver manifestato il proprio pensiero politico contro il Presidente della Repubblica. Nella domanda di protezione il ricorrente aveva precisato che non era mai stato un membro del partito, ma un manifestante che, in occasione di due manifestazioni in vista delle elezioni comunali, era stato arrestato dalla gendarmeria. Ha prodotto, solo nella fase giurisdizionale (grazie alla trasmissione da parte del fratello), documentazione attestante la sua condanna in contumacia a 5 anni di reclusione (per aver manifestato contro l’elezione del Presidente della Repubblica ed aver fatto resistenza ai pubblici ufficiali che cercavano di fermare la manifestazione), il suo mandato di arresto ed una copia dell’estratto del Casellario penale da cui risulta la condanna «per ribellione ed incitamento alla rivolta». Particolarmente significativo quanto ribadito dal Tribunale bresciano in merito al fatto che lo status di rifugiato non postula che il soggetto sia «un capo o un leader politico e comunque va riconosciuto anche a coloro che siano impediti ad esercitare liberamente il diritto di manifestare il proprio pensiero politico». Il riconoscimento della forma di protezione maggiore è stato effettuato all’esito di una completa ed accurata analisi delle informazioni sul Paese d’origine relative al rischio per il ricorrente, in caso di rimpatrio, di essere arrestato e costretto a scontare la pena comminata, nonché alla possibilità per i cittadini guineani di manifestare liberamente il proprio pensiero politico.

 

LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
Art. 14 lettera c), d.lgs. 19.11.2007 n. 251
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 14283/2019 del 24.5.2019, pur dando atto dell’esistenza di un opposto orientamento di legittimità (Cass. 33096/2018 e Cass. 4892/2019) – chiamata a pronunciarsi in merito al dovere del giudice di verificare la sussistenza di una situazione di violenza indiscriminata da conflitto armato interno invocata da un ricorrente, ritenuto inattendibile nella parte relativa alle ragioni che lo avevano spinto a lasciare il Paese d’origine – ha affermato che la protezione di cui all’art. 14, lett. c), d.lgs. 19.11.2007 n. 251, prescinde da fatti che attengono ad una vicenda individuale che il richiedente ha l’onere di allegare e provare. Ad avviso della Suprema Corte «il fatto costituivo della forma di protezione in esame è infatti la situazione di pericolo generalizzato dato dalla violenza indiscriminata in presenza di conflitto armato nel Paese o nella regione in cui l’istante deve essere rimpatriato. La prova di tale situazione, in difetto di attivazione della parte, va acquisita d’ufficio dal giudice».
Con decreto del 7.10.2019 il Tribunale di Milano ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino del Mali, nato e cresciuto a Kolokani, nella regione di Koulikoro, inserita, nel documento UNHCR Position on returns to Mali, Update II del luglio 2019 tra le regioni di non rimpatrio. Nella decisione del Tribunale meneghino sono stati esaminati, in ossequio al criterio olistico raccomandato dall’UNHCR, tutti i profili relativi agli sviluppi politici, alle condizioni di sicurezza, alla situazione dei diritti umani, all’assenza di un’adeguata risposta statale nonché al numero degli sfollati interni e alla situazione umanitaria.

 

D.lgs. 19.11.2007, art. 14 lett. a) e b)
Il Tribunale di Firenze, con decreto n. 6427/2019 del 25.9.2019 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino del Pakistan, originario della zona di Lahore, in ragione del rischio di rimanere vittima di un c.d. delitto d’onore e, dunque, di subire una minaccia grave ed individuale alla propria incolumità. Nella domanda, il ricorrente, anche grazie ai chiarimenti resi nel corso dell’audizione dinanzi al Tribunale, ha precisato che, dopo aver intrattenuto una relazione sentimentale con una ragazza per oltre due anni aveva dovuto subire le violente reazioni della famiglia di lei che lo avevano costretto a lasciare il Paese d’origine. Nella motivazione del Collegio fiorentino, particolarmente accurata nella parte relativa alle informazioni sul Paese d’origine, si legge che le dichiarazioni del ricorrente, specifiche e circostanziate, riferiscono di una vicenda intrafamiliare di matrice etnico religiosa che ha dato origine ad un violento conflitto regolato «secondo rapporti di forza extra giuridici».

 

Il rischio di subire un trattamento inumano e degradante conseguente alle condizioni delle carceri in Ghana giustifica, nella decisione assunta dal Tribunale di Brescia (decreto del 14.5.2019) il riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b) d.lgs. 25.11.2007 n. 251. Nel caso preso in esame dal Tribunale bresciano, il ricorrente, originario di Kumasi – accusato di aver partecipato ad alcuni scontri che si erano verificati quando alcuni giovani, per ordine del capo Tafo, avevano abbattuto una recinzione eretta dai musulmani per proteggere un cimitero – è stato ritenuto esposto al rischio che, in caso di rimpatrio, avrebbe subito un danno ai sensi e per gli effetti del richiamato art. 14, in ragione del fatto che lo stesso avrebbe rischiato di essere condannato, quantomeno in concorso, per plurimi reati quali quelli contemplati dalle sezioni 196 e ss. codice penale del Ghana (rivolta) e 206 (detenzione di armi offensive), e quindi si sarebbe trovato ad essere ristretto in condizioni carcerarie estremamente dure e tali da integrare il trattamento inumano e degradante. Appare significativo sottolineare che, nella decisione in esame, il Tribunale ha ravvisato la sussistenza del rischio futuro in caso di rimpatrio anche in assenza di prova di ricerche da parte delle autorità e dell’inizio di un processo a carico del ricorrente.

 

Ancora le condizioni carcerarie in Ghana – ritenute dal Tribunale di Brescia, nel decreto del 12.12.2019 «non solo preoccupanti, ma tali da integrare un concreto pericolo di tortura o comunque un trattamento inumano o degradante» – costituiscono la ragione del riconoscimento della protezione sussidiaria ad un cittadino del Ghana, nato e vissuto a Takoradi. Solo all’esito dell’audizione svolta dinanzi al Tribunale il ricorrente è riuscito a chiarire alcune delle contraddizioni emerse nella fase amministrativa. In particolare ha riferito di aver emesso alcuni assegni senza provvista, per provare a far fronte ad un debito molto oneroso, che non riusciva a saldare, e di temere, per tale motivo, l’arresto (e, dunque, la detenzione nelle carceri ghanesi che prevedono che, alla pena detentiva, siano accompagnati i lavori forzati). Nella motivazione, il Collegio, all’esito delle ricerche effettuate nell’adempimento del dovere di cooperazione sullo stesso gravante, ha dato conto dell’esistenza della sezione 313A del Criminal Code del 1960, che punisce anche con una pena detentiva l’emissione di assegni a vuoto.

 

QUESTIONI PROCESSUALI
Valutazione di credibilità e dovere di cooperazione del giudice
La Suprema Corte, pronunciatasi sul contenuto della «cooperazione istruttoria», nell’ordinanza n. 16028 del 14.6.2019, ha precisato che: l’attenuazione del principio dispositivo in cui la c.d. «cooperazione istruttoria» consiste si colloca non dal versante dell’allegazione, ma esclusivamente da quello della prova; che il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova per espressa previsione normativa un preciso limite tanto nella “reticenza del richiedente” e nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Nella decisione in esame si afferma che il dovere di cooperazione istruttoria può essere “innescato” (per usare le parole della Corte di cassazione) solo ove si sia in presenza di allegazioni «precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili». Proseguendo nell’esame del dovere di cooperazione, la Suprema Corte, tornando ad utilizzare argomenti “funzionali” che sembrano particolarmente ricorrenti nelle decisioni della Corte di cassazione chiamata a decidere di ricorsi volti ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale, afferma che tale dovere rappresenta «l’unico strumento che l’ordinamento si riserva al fine di scongiurare un troppo comodo uso strumentale della normativa in discorso».

 

Ancora in merito al dovere di cooperazione, la Corte di cassazione – con ordinanza n. 25900 del 14.10.2019 – aderisce all’orientamento di legittimità in forza del quale, qualora le dichiarazioni del ricorrente vengano ritenute inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui all’art. 3 del d.lgs. 25.11.2017 n. 251, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la situazione persecutoria nel Paese di origine prospettata dal richiedente ai sensi dell’art.14 lett. a) e b) del citato decreto, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (a medesime conclusioni giunge anche la Corte di cassazione nell’ordinanza n. 24868 del 4.10.2019).

 

La Suprema Corte nella pronuncia n. 23459 del 20.9.2019 – chiamata a pronunciarsi sul tema del dovere di cooperazione istruttoria del giudice – ha ribadito come, a prescindere dal fatto che il richiedente, nella fase amministrativa, abbia fatto riferimento o meno alla condizioni di instabilità del Paese d’origine, il giudice sia tenuto ad una verifica aggiornata al momento della decisione, anche in ragione del fatto che la necessità di ricevere protezione dal Paese ospitante può sorgere anche in un momento successivo rispetto alla partenza del richiedente dal Paese di origine ovvero all’arrivo in quello ospitante. Nella fattispecie presa in esame dalla Corte di cassazione il ricorrente aveva allegato che, per le accuse contro di lui formulate, egli sarebbe stato passibile di morte. Proprio per questo, ad avviso della Suprema Corte, il Tribunale di primo grado avrebbe dovuto esaminare la posizione del ricorrente anche alla luce di informazioni aggiornate sul contesto del sistema criminale della Nigeria, onde così pervenire a un giudizio completo in ordine al possibile trattamento che il sistema criminale del Paese di provenienza avrebbe riservato al richiedente, accusato di aver commesso un grave reato.

 

Il dovere di cooperazione, le informazioni sul Paese d’origine (c.d. COI) e il contraddittorio costituiscono i temi oggetto della decisione della Corte di cassazione n. 29056 dell’11.11.2019. Nella decisione in esame la Suprema Corte, dopo aver ricostruito in punto analitico e accurato il quadro normativo e giurisprudenziale sul dovere di cooperazione e sulla acquisizione delle COI, distingue due ipotesi.
Nella prima – fattispecie nella quale la parte non abbia offerto alcuna informazione precisa, pertinente e aggiornata sulle condizioni del Paese di origine – la acquisizione d’ufficio delle COI costituisce attività integrativa che sana l’inerzia della parte, e quindi non diminuisce le garanzie processuali del soggetto, anzi le amplia, né lede in alcun modo i suoi diritti. «In virtù del dovere di cooperazione il giudice verifica, infatti, se sussista una chance, alla luce della COI come sopra assunte, di accoglimento dell’istanza di protezione, quale che sia poi in concreto l’esito della causa. Nessun vulnus concreto al diritto di difesa si può in questo caso prospettare se il giudice non sottopone preventivamente le COI assunte d’ufficio al contraddittorio, purché renda palese nella motivazione a quali COI ha fatto riferimento, onde consentire, eventualmente, la critica in fase di impugnazione, nel merito o sulla legittimità della procedura di acquisizione».
Nella seconda, invece – quella nella quale la parte abbia esplicitamente indicato COI, aggiornate e pertinenti, specificamente riferite al rischio che è stato dedotto, indicandone la fonte, la data e prendendo posizione sulle condizioni del Paese di origine, sulla loro incidenza nella posizione individuale del richiedente, e su come le COI indicate consentano di ritenere il racconto attendibile, nonché concreto ed attuale il rischio dedotto – ove in ipotesi il giudice ritenga di utilizzare altre COI, di fonte diversa o più aggiornate, che depongono in senso opposto a quelle offerte dal richiedente, egli dovrà sottoporle preventivamente al contraddittorio, perché diversamente si arrecherebbe, in concreto, un irredimibile vulnus al diritto di difesa.

 

Domande reiterate
La Prima Sezione civile, con ordinanza n. 25876 del 12.9.2019, chiamata a pronunciarsi su una decisione di inammissibilità pronunciata dal Tribunale di Milano, ha precisato che se il ricorrente, dopo aver proposto una prima domanda di protezione internazionale, ne propone una successiva, sulla base di nuovi documenti, anche in presenza di una declaratoria di inammissibilità da parte della Commissione (che, dopo aver sentito il ricorrente e valutato i nuovi documenti, non ha deciso nel merito, ma ha dichiarato la domanda inammissibile), egli aveva diritto di impugnare nel termine ordinario di 30 giorni e non nel termine ridotto di 15 giorni. La Suprema Corte ha precisato che «diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale milanese, ai fini del termine per la proposizione dell’impugnazione doveva aversi riguardo all’effettivo contenuto del provvedimento impugnato, che si atteggiava quale rigetto nel merito di una domanda reiterata ammissibile, nonostante l'incongruo dispositivo».

 

Il Tribunale di Milano, con decreto del 13.11.2019 – adito da un ricorrente cui era stato notificato un provvedimento con il quale l’ufficio immigrazione della questura di Milano aveva dichiarato «l’inammissibilità ex lege della domanda di protezione internazionale reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento ex art. 29-bis del d.lgs. 25/2008 introdotto dal d.l. 113/2018 convertito con l 132/2018» ha affermato che la previsione del richiamato art. 29-bis si pone in contrasto con l’art. 40 della direttiva 2013/32/UE in quanto: «radica la competenza a decidere sulla ammissibilità della domanda reiterata ad un ente accertatore diverso rispetto a quello previsto dagli art. 3 e 4 d.lgs. 25/08 ordinariamente deputato a ricevere le domande ed al di fuori delle ipotesi (tassative) previste dall’art. 4 co. 2, lettere a) e b) dir. 32/2013»; «conferisce un valore ex lege alla inammissibilità escludendo, cioè, ogni potere di valutazione, anche in via preliminare, sui fatti allegati a fondamento della domanda stessa e ciò sulla base di un fattore temporale/circostanziale costituto dall’essere stata la domanda reiterata presentata in costanza di un provvedimento di allontanamento dal territorio dello Stato ed attribuendo alla domanda, secondo una presunzione di strumentalitàiure et de iure (come espressamente indicato dalla circolare della Commissione nazionale asilo n. 1 in data 2.1.2019), lo scopo di voler ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento stesso». Sulla base dei predetti elementi, il Tribunale meneghino, pertanto, applicando direttamente la normativa comunitaria (art. 40 sopra richiamato) in luogo dell’art. 29-bis ritenuto incompatibile con la detta normativa, ha demandato alla Commissione territoriale di compiere l’esame preliminare della domanda proposta dal ricorrente.

 

Regime intertemporale
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 25113 dell’8.10.2019 – con riferimento al disposto dell’art. 35-bis, co. 2, del d.lgs. 25.1.2008 n. 25, inserito dall’art. 6, co. 1, lett. g) del d.l. n. 13 del 2007 – ai sensi del quale è previsto che i termini per l’impugnazione del provvedimento reiettivo della Commissione territoriale sono dimezzati nei casi di cui al d.lgs. n. 25 del 2008, art. 28-bis ovvero quando nei confronti del richiedente la protezione sia stata adottata una misura di trattenimento ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 142 del 2015 – ha affermato che il termine dimezzato di impugnazione, nei giudizi introdotti prima dell’entrata in vigore del d.l. 4.10.2018 n. 113, può trovare applicazione solo nel caso in cui la domanda sia stata presentata in base a questioni prive di alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi del d.lgs. 19.11.2007, n. 251 e non anche nel diverso caso in cui la Commissione abbia ritenuto la domanda stessa manifestamente infondata.

 

Richiesta di sospensiva dell’efficacia esecutiva del provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale
Il Tribunale di Bologna, con decreto del 25.11.2019, nel valutare la sussistenza dei «fondati motivi», ai sensi dell’art. 35-bis, co. 13, del d.lgs. 25/2008, ha affermato che, trattandosi di istanza in materia cautelare, nella valutazione della domanda di sospensiva debba esservi necessariamente una valutazione del periculum in mora, in relazione al grave ed irreparabile danno che possa derivare al ricorrente dalla messa in esecuzione della decisione, anche in ragione di un’interpretazione costituzionalmente orientata. In merito a tale requisito, i giudici bolognesi ne hanno ravvisato l’esistenza in ragione del rischio della non ripristinabilità della situazione soggettiva sulla quale il provvedimento di diniego ha inciso, della fuoriuscita dal sistema di accoglienza e della perdita dell’attività lavorativa. Con specifico riferimento alla valutazione della fondatezza dei motivi, il Tribunale ha precisato che, per l’accoglimento dell’istanza, non può essere richiesta una puntuale prognosi di accoglibilità dell’impugnazione del provvedimento, da parte dello stesso giudice che lo ha emesso, atteso che la stessa si tradurrebbe in un riesame della propria decisione, che non compete a detto giudice.

 

Udienza di comparizione e rinnovazione dell’audizione
Nella sentenza 23.10.2019 n. 27073 la Suprema Corte ha affermato che solo con il ricorso introduttivo il richiedente ha l’onere di indicare gli elementi costitutivi della domanda (petitum e causa petendi) e dunque di allegare i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della pretesa, oltre all’indicazione specifica di eventuali mezzi di prova e documenti dei quali intenda valersi.
Con specifico riferimento al rapporto tra fase amministrativa e fase giurisdizionale, nella pronuncia in esame gli ermellini hanno affermato che «qualora il richiedente proponga nel ricorso giurisdizionale motivi nuovi, o anche solo elementi di fatto nuovi, che si riferiscano, integrandoli in modo significativo, ai motivi già proposti, e che non siano stati sottoposti alla Commissione territoriale, sebbene antecedenti alla domanda di protezione internazionale, secondo quanto affermato dalla Corte di giustizia, il giudice debba sottoporli all’autorità amministrativa e, quindi, valutarli ai fini della decisione». Tale argomentazione è stata sostenuta in forza di un espresso richiamo alla sentenza della Corte di giustizia 4.10.2018 – causa C-652/2016, Nigyar Rauf Kaza Ahmedbekova,Rauf Emin Ogla Ahmedbekov contro Zamestnik-predsedatel na Darzhavna agentsia za bezhantsite – resa però con riferimento ad un ordinamento giuridico nel quale il giudice della protezione internazionale ha poteri solo di annullamento e non di riconoscimento della protezione, a differenza di quanto accade nell’ordinamento italiano.
Viene ribadito, infine, che i nova devono essere valutati dal giudice, consentendo al richiedente di illustrarli di persona, ove manchi la videoregistrazione e si tratti di nuovi motivi o di elementi di fatto nuovi, che il richiedente non ha illustrato dinanzi alla Commissione territoriale, a meno che gli elementi non siano privi di rilevanza o non siano sufficientemente distinti da quelli già presi in considerazione dall’autorità accertante, secondo la espressa valutazione del giudice.

 

DIRITTO D’INGRESSO IN ITALIA per MOTIVI di ASILO ex art. 10, co. 3 COSTITUZIONE

La sentenza n. 22917/2019 del 28.11.2019 del Tribunale di Roma è la prima che affronta, in anni recenti, la questione del diritto d’ingresso in Italia di richiedenti asilo, ai quali sia stato impedito con respingimenti collettivi alla frontiera e che affronta quel diritto d’ingresso in applicazione diretta dell’art. 10, co. 3 della Costituzione al fine di potere presentare la domanda di riconoscimento della protezione internazionale.
Enorme è la portata di questa pronuncia, sia per l’accertata responsabilità dello Stato italiano per i respingimenti collettivi ed il rinvio in Libia, ove è acclarato da anni che i migranti vengono sottoposti a torture e trattamenti inumani e degradanti, sia per il potenziale espandersi del diritto d’ingresso per asilo per tutti coloro ai quali sia concretamente impedito.
Ricordando la sentenza del 1999 nel caso Ocalan, sempre del Tribunale di Roma, è confermata la diretta precettibilità dell’art. 10, co. 3 della Costituzione e l’inviolabilità del diritto in esso espresso, inteso, vale la pena ripeterlo, anche come diritto di accedere nel territorio italiano.
Importanti sono anche i profili risarcitori contenuti nella sentenza del Tribunale di Roma, così come l’accertamento dello Stato italiano che non poteva non conoscere, già nel 2009, quanto accadeva in Libia, integrandosi pertanto la sua colpevole condotta.
I fatti come esposti: «….gli attori hanno rappresentato di essere fuggiti dal proprio Paese di origine, l’Eritrea, e di essere partiti, in data 27 giugno 2009, dalle coste libiche a bordo di un’imbarcazione, con l’obiettivo di arrivare in Italia e di vedere riconosciuto il proprio diritto alla protezione internazionale. Gli attori hanno esposto che il 30 giugno 2009, quando si trovavano a poche miglia da Lampedusa, si verificava l’avaria del motore, che lasciava il gruppo, composto da 89 persone, in balia delle onde fino all’arrivo di militari della Marina italiana che, giunti a bordo di un gommone, proveniente dalla Nave Orione, provvedevano ad attivare il salvataggio trasportando le persone a bordo dell’imbarcazione. Gli odierni attori hanno precisato di essere stati perquisiti dai militari a bordo della Nave Orione che procedevano a sequestrare gli effetti personali in loro possesso (tra cui foto, denaro e documenti), di essere stati fotografati, con attribuzione a ciascuno di un numero identificativo, e rassicurati sul fatto che sarebbero stati condotti sul territorio italiano dove avrebbero potuto chiedere la protezione internazionale. Secondo la ricostruzione dei fatti contenuta degli atti di parte attrice al sopraggiungere delle prime ore del mattino dell’1 luglio 2009, i naufraghi presenti sull’imbarcazione si sarebbero accorti che la nave non stava andando in direzione dell’Italia ma, al contrario, era diretta verso la Libia; conseguentemente, il panico si sarebbe diffuso nel gruppo che avrebbe iniziato a protestare, suscitando la reazione del personale della Marina militare italiana. In particolare, gli attori hanno esposto che quando la nave italiana veniva affiancata da un’imbarcazione libica l’agitazione sarebbe aumentata, molte persone avrebbero urlato ripetendo di aver bisogno di protezione internazionale e di voler chiedere asilo e domandando di non essere riconsegnati ai libici, deducendo che in Libia erano stati torturati, incarcerati e perseguitati al pari di quanto era accaduto nei loro Paesi di origine. Gli stessi hanno rappresentato che nonostante ciò erano stati consegnati alle autorità libiche e forzatamente trasportati a bordo della imbarcazione libica, dove venivano ammanettati con fascette di plastica».
Dopo essere stati imprigionati in Libia per vari mesi, torturati e maltrattati, i potenziali richiedenti asilo hanno raggiunto Israele, dove sono stati arrestati e poi rilasciati senza alcuna garanzia, nonostante la richiesta di riconoscimento del rifugio politico e dove si troverebbero attualmente sottoposti a trattamenti lesivi dei loro diritti fondamentali e a rischio di refoulement.
Nella causa proposta nel 2016 davanti al Tribunale di Roma, gli attori hanno chiesto l’adozione di misure cautelari finalizzate all’ingresso e nel merito l’accertamento della responsabilità risarcitoria dello Stato italiano, ex art. 2043 c.c., nonché l’adozione di atti idonei all’ingresso in Italia al fine di formalizzare la domanda di protezione internazionale.
Nel giudizio così proposto, le Amministrazioni dello Stato si sono costituite, chiedendo il rigetto delle domande, in quanto nessuno degli 82 migranti salvati avrebbe manifestato la volontà di chiedere la protezione internazionale o l’asilo.
Dopo il rigetto dell’istanza cautelare – per difetto di prova della coincidenza degli attori con i migranti salvati nel 2009 – il giudizio si è svolto con lunga istruttoria, nell’ambito della quale quella prova si è formata attraverso varie testimonianze, sono state superate varie eccezioni processuali dedotte dalle Amministrazioni dello Stato ed accertata la loro condotta illegittima per violazione del principio fondamentale di non refoulement, di cui all’art. 33 Convenzione di Ginevra, del divieto di espulsioni collettive, di cui al Protocollo n. 4 alla CEDU, del divieto di respingimento in caso di rischio di assoggettamento a trattamenti inumani e degradanti ex art. 3 CEDU e, non da ultimo, per violazione dell’art. 10, co. 3 della Costituzione.
Secondo il Tribunale, infatti, «si ritiene che laddove le autorità di uno Stato intercettino in mare dei migranti sorga in capo alle stesse l’obbligo di esaminare la situazione personale di ciascuno e di non attuare il respingimento dei rifugiati verso un territorio in cui la loro vita o la loro libertà sarebbero minacciate e in cui essi rischierebbe la persecuzione, con la precisazione che la mancata richiesta di asilo non consente di ignorare che in taluni Paesi sia riscontrabile una situazione di sistematico mancato rispetto dei diritti umani».
Sottolinea il Tribunale che «assume rilevanza la circostanza che al momento della commissione dei fatti contestati erano già stati diffusi dei rapporti realizzati da accreditate organizzazioni internazionali nei quali venivano denunciate e condannate le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia», richiamando vari di quei rapporti e pertanto le autorità italiane erano in grado di sapere che la Libia, Paese che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951, «non potesse considerarsi, all’epoca dei fatti di causa, approdo sicuro, con concreto rischio che i migranti venissero arrestati, sottoposti a violenze, nonché respinti verso l’Eritrea».
Il giudice romano ritiene irrilevante anche l’Accordo Italia-Libia, sia perché non riguarda espressamente il respingimento in Libia, sia soprattutto perché nessun accordo può mai derogare agli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la ratifica degli strumenti di tutela internazionali, come affermato anche dalla Corte europea dei diritti umani nella causa Hirsi c. Italia, del 2012.
Il Tribunale ritiene, dunque, accertata la responsabilità dell’Italia per fatto illecito (art. 2043 c.c.), non potendo considerarsi incolpevole la condotta tenuta.
Quanto al risarcimento del danno, il Tribunale di Roma ha esaminato le allegazioni dei ricorrenti per le sofferenze patite e per le violazioni di diritti fondamentali di rango costituzionale, conseguenti al respingimento in Paese non sicuro, ha analizzato la giurisprudenza di legittimità in materia di risarcimento del danno non patrimoniale ed applicato il principio presuntivo del danno, liquidando equitativamente a favore di ogni attore la somma di € 15.000, in analogia alla sentenza della CEDU nel caso Hirsi.
Destinatari della condanna sono stati ritenuti la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della difesa, la prima perché soggetto che ha stipulato l’Accordo Italia-Libia, il secondo perché la nave di soccorso e che ha effettuato il respingimento è della Marina militare.
Il Tribunale affronta, infine, la richiesta di condanna al risarcimento in forma specifica, cioè di adozione di atti necessari per consentire l’ingresso in Italia per presentare la domanda di protezione internazionale ed in particolare di rilascio di visti umanitari ai sensi dell’art. 25 regolamento 810/2009 (cd. Codice di visti).
Precisa il giudice romano che tale richiesta non può avere natura di risarcimento in forma specifica, ex art. 2058 c.c. («in quanto rientra nella nozione di risarcimento in forma specifica il rimedio consistente nella eliminazione materiale del danno mediante il ripristino della situazione anteriore all’illecito») e dunque qualifica la domanda come «di accertamento del diritto ad inoltrare domanda di protezione internazionale», respingendo l’eccezione delle Amministrazioni dello Stato secondo cui i fatti contestati sono avvenuti in acque internazionali, in quanto i profughi sono stati trasportati su una nave militare italiana e questa è qualificabile come facente parte del territorio italiano ex art. 4 codice della navigazione.
Qualificata, dunque, la domanda nei termini sopra detti, il Tribunale afferma di non potere ordinare un facere alla pubblica amministrazione, cioè il rilascio dei visti umanitari, in applicazione del principio di separazione dei poteri.
Tuttavia, il Tribunale giunge al medesimo risultato attraverso un diverso iter argomentativo e giuridico, ovverosia richiamando l’art. 10, co. 3 della Costituzione, diritto soggettivo perfetto, che fino all’abrogazione della protezione umanitaria di cui al d.l. n. 113/2018 era ritenuto essere completamente attuato all’interno del sistema della protezione internazionale, richiamando la giurisprudenza, anche recentissima, delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 29460/2019) ed arrivando a riconoscere il diritto di ingresso sul territorio nazionale, al fine di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale, in applicazione diretta dell’art.10, co. 3 della Costituzione.
Conclude così il Tribunale di Roma: «In altri termini, si ritiene che la qualificazione del diritto di asilo quale diritto soggettivo perfetto, rientrante nel catalogo dei diritti umani e di derivazione non solo costituzionale ma anche convenzionale imponga di individuare una forma di protezione in quei casi che, pur non rientrando nell’ambito applicativo della normativa nazionale di attuazione dell’art. 10 Cost., risultino meritevoli di tutela.
Si ritiene che in questo ambito possa espandersi il campo di applicazione della protezione internazionale mediante una diretta applicazione dell’art. 10, co. 3, Cost., volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana, si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione di principi costituzionali e della Carta dei diritti dell’Unione europea».
Per queste ragioni il Tribunale, oltre alla condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dai richiedenti, «accerta il diritto degli attori di accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale ovvero di protezione speciale, secondo le forme che verranno individuate dalla competente autorità amministrativa».

 

LA PROTEZIONE UMANITARIA NEL PROCEDIMENTO DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE
La non retroattività del d.l. n. 113/2018 in materia di protezione umanitaria
La Corte di cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 29460/2019, ha posto fine alla controversa questione dell’applicazione immediata del d.l. n. 113/2018, nella parte in cui, abrogando l’art. 5, co. 6 TU 286/98 che consentiva il rilascio del permesso di soggiorno umanitario in presenza di seri motivi umanitari o derivanti da obblighi costituzionali o internazionali, ha abrogato anche la possibilità di sua applicazione da parte delle Commissioni territoriali nell’ambito del sistema della protezione internazionale.
Nonostante l’orientamento maggioritario della Cassazione, cristallizzato nella sentenza n. 4860/2019, abbia ritenuto irretroattiva la nuova disciplina, la questione è arrivata alle Sezioni Unite su rinvio di una posizione minoritaria, secondo cui, invece, il d.l. n. 113 doveva essere applicato a tutti i procedimenti e a tutti i giudizi in corso, in quanto il diritto alla protezione umanitaria sorge con il suo riconoscimento, all’esito dello specifico procedimento a formazione progressiva (cfr. le Rassegne in questa Rivista nn. 1 e 2 del 2019).
La pronuncia qui in esame affronta tutte le questioni poste dall’ordinanza di rinvio, partendo dalla constatazione della mancanza, nel d.l. n. 113/2018, di una norma espressamente transitoria e pertanto dovendosi affrontare la questione secondo «le regole che scandiscono la successione delle leggi nel tempo». In generale, afferma la Corte, la legge che abroga si applica immediatamente per il futuro ma «non si può escludere l’applicabilità della legge abrogata per il passato, ossia per il periodo anteriore all’abrogazione» se la nuova legge modifichi una situazione giuridica già compiuta e proprio per evitare tale modificazione l’art. 11 delle preleggi vieta la retroattività della legge garantendo «il divieto di modificazione della rilevanza giuridica dei fatti che già si siano compiutamente verificati […] o di una fattispecie non ancora esauritasi».
Nello specifico della protezione umanitaria la sentenza n. 29460 contesta la fondatezza della tesi della «fattispecie a formazione progressiva», afferma, in linea con molteplici pronunce, che il diritto alla protezione umanitaria non sorge con il suo riconoscimento ma preesiste ad esso, dovendo solo essere accertato nell’ambito di uno specifico procedimento. Le Sezioni Unite ribadiscono la natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti fondamentali della persona, ex art. 2 Cost. e art. 3 CEDU, prevista anche dal diritto europeo (direttiva 2008/115/CE, art. 6, par. 4), nel contempo espressione, insieme alla protezione internazionale, del diritto d’asilo costituzionale, ex art. 10, co. 3 Cost., rispetto al quale il legislatore ha il solo potere di accertamento e di delineare le modalità di suo esercizio.
Ed è proprio la ricomprensione della tutela umanitaria nell’alveo costituzionale che, secondo le Sezioni Unite, esclude la retroattività della disciplina del d.l. n. 113/2018, perché, se così non fosse, opererebbe una «diversa valutazione giuridica di fatti già accaduti», escludendo il diritto al rilascio del permesso di soggiorno, con il rischio «di entrare in frizione con la tenuta dei valori costituzionalmente tutelati».
La sentenza precisa che il diritto di asilo nasce con l’ingresso sul territorio nazionale ma è la presentazione della domanda «che identifica ed attrae il regime normativo della protezione per ragioni umanitarie da applicare» e richiama, in proposito, l’art. 3, d.p.r. 21/2015, secondo cui la polizia di frontiera informa il richiedente asilo, che manifesta la volontà di chiedere il riconoscimento della protezione internazionale, a recarsi entro 8 gg. alla questura per la formalizzazione della domanda, pena l’integrarsi della irregolarità di soggiorno. Regolarità che è soggetta alle norme in quel momento vigenti, così come lo è la valutazione sugli «elementi utili» all’esame, che il richiedente deve indicare nella domanda.
Nessuna discriminazione, dunque, tra coloro che presentano la domanda prima o dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 perché è «nella discrezionalità del legislatore delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme […] ed è ragionevole che si applichino regole diverse a seconda del momento in cui il titolare della situazione soggettiva innesti il procedimento indirizzato alla tutela di essa, diversamente disciplinato nel tempo dal legislatore».
Ad ulteriore conferma, la sentenza evidenzia che il legislatore della riforma del 2018 ha previsto il protrarsi degli effetti della previgente disciplina, ritenendo che i permessi umanitari già rilasciati rimangono validi fino alla scadenza, così come siano validi gli accertamenti delle Commissioni territoriali con i quali sia già stata valutata la sussistenza dei presupposti della protezione umanitaria, anche se non ancora tradotti in permessi di soggiorno (oggi denominati «casi speciali»).
Conclude la Corte: «L’interpretazione costituzionalmente conforme della novella impone allora che, a fronte di tale sussistenza, recessiva sia la circostanza che vi sia stato un accertamento, meramente ricognitivo. Sicché non soltanto nel caso in cui, alla data di entrata in vigore del d.l. n. 113/18, la Commissione territoriale abbia già ritenuto la sussistenza dei gravi motivi di carattere umanitario (come stabilito dall’art. 1, co. 9, del d.lgs. n. 113/18), ma anche in quello in cui l’accertamento sia comunque in itinere il titolo di soggiorno dovrà rispondere alle modalità previste dall'art. 1, co. 9, del d.l. n. 113/18».
Chiara, dunque, è l’irretroattività, sul punto, della riforma 2018.

 

La sentenza a Sezioni Unite n. 29460/2019 affronta l’ulteriore questione posta dall’ordinanza interlocutoria, cioè quale sia l’incidenza dell’integrazione sociale del richiedente asilo in Italia per il riconoscimento della protezione umanitaria, nell’ambito della comparazione che, affermata nella sentenza n. 4455/2018, deve essere compiuta tra la condizione oggettiva e soggettiva del richiedente asilo nel Paese di origine.
L’ordinanza interlocutoria aveva contestato il quadro giuridico delineato dalla pronuncia n. 4455/2018, ritenendo che quella valutazione comparativa abbia «un contenuto vago ed indefinito e che prima ancora lo stesso parametro dell’integrazione sociale ha basi normative assai fragili, in mancanza di disposizioni che ne facciano menzione» ed inoltre perché la tutela umanitaria, legittimata dal diritto nazionale, si sovrapporrebbe alla protezione internazionale, di matrice unionale.
La Corte nega la fondatezza di siffatta tesi, a partire dall’evidenziare che già il diritto europeo apre a forme nazionali di protezione, diverse da quella internazionale (art. 2 lett. g) direttiva 2011/95/UE – CGUE, Grande Sezione, 9.11.2010 cause C-57/09 e C-101/09), ed afferma che nessuna sovrapposizione può paventarsi qualora la situazione nel Paese di origine del richiedente asilo, correlata alla sua specifica condizione, conduca al riconoscimento di una delle due forme della protezione internazionale in applicazione dei chiari principi giurisprudenziali ben delineati sia nell’ordinamento italiano che in quello europeo (dei quali la pronuncia in commento offre ampia rassegna). Infatti «L’identificazione dei presupposti delle protezioni maggiori esclude il rischio di improprie sovrapposizioni paventato in ordinanza».
Nel merito, la sentenza premette che «Quanto ai presupposti utili a ottenere la protezione umanitaria, non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano» e ribadisce che la protezione umanitaria non può essere tipizzata perché ne limiterebbe «le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali», ciò che esclude la fragilità della base normativa della tutela umanitaria e pertanto «l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della CEDU, promuove l'evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione».
Conseguentemente, la comparazione tra l’integrazione sociale in Italia del richiedente asilo e la situazione soggettiva ed oggettiva nel Paese di origine consente all’interprete di verificare se «il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale», senza che questo comporti rilevanza del solo segmento dell’integrazione sociale italiana, dovendosi, invece, effettuare proprio quella necessaria comparazione.

 

I presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria
Con ordinanza n. 13096/2019 la Corte di cassazione ha esaminato il ricorso di una richiedente asilo della Nigeria (che aveva posto a base della richiesta d’asilo le minacce perpetrate ai suoi danni da una minoranza religiosa animista e le violenze sessuali subite in Libia durante i due anni di permanenza in quel Paese), di impugnazione della sentenza della Corte d’appello di Napoli, con cui le era stato negato il riconoscimento della protezione internazionale per difetto di credibilità delle dichiarazioni, nonché della protezione umanitaria per ritenuta insussistenza di una condizione di vulnerabilità.
Il Giudice di legittimità ha ritenuto inammissibile il ricorso nella parte relativa alla protezione internazionale, in quanto prospettava una critica alla valutazione dei fatti effettuata dal giudice di merito, inammissibile, per l’appunto, davanti alla Cassazione, nel contempo affermando che il dovere di cooperazione istruttoria si attiva necessariamente a fronte di una credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo. Ha ritenuto, altresì, irrilevanti le violenze subite in Libia, Paese di transito, perché l’indagine sui presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale va effettuato con riguardo al solo Paese di origine.
Ha, invece, accolto l’impugnazione nella parte relativa alla protezione umanitaria per avere omesso di valutare sia l’integrazione sociale della richiedente asilo, in Italia da 10 anni, sia le violenze sessuali subite in Libia che non erano state negate come fatto storico dal giudice di merito.
Secondo la Cassazione, infatti, l’integrazione sociale non rileva come fattore esclusivo ma «come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), nel caso di specie, non risulta essere stata compiuta alcuna valutazione del fatto (dedotto in giudizio sin dal primo grado) rappresentato dalla violenza sessuale subita, non nel Paese d’origine, ma in Libia, Paese di transito ed anche di permanenza per un biennio, potenzialmente idoneo, ove vagliato, quale elemento in grado di ingenerare nella persona un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla suddetta condizione di vulnerabilità ed ad essere quindi ostativa ad un rientro nel Paese d’origine (nella specie, la Nigeria)».
La violenza sessuale subita in un Paese di transito può, dunque, costituire elemento di comparazione per la valutazione della vulnerabilità soggettiva (la Corte richiama, in premessa, anche l’art. 19, co. 2-bis TU d.lgs. 286/98, introdotto dal d.l. 89/2011), tale da rendere il rimpatrio un rischio di violazione di diritti umani.

 

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 10922/2019, affronta la questione dell’incidenza della credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria. Nel caso esaminato, la Corte rigetta per inammissibilità il ricorso di un richiedente asilo del Gambia perché davanti alla Corte d’appello non era stata adeguatamente censurata proprio la valutazione di non credibilità delle dichiarazioni espressa dal Tribunale, formandosi conseguentemente il giudicato interno.
Ha accolto, invece, l’impugnazione relativa al diniego di protezione umanitaria perché il giudice di 2^ grado non ne aveva valutato autonomamente i presupposti, rigettando automaticamente in conseguenza della scarsa credibilità del richiedente. La Cassazione ribadisce i principi già espressi in precedenti pronunce (Cass. 28990/2018), ovverosia che la protezione umanitaria deve essere frutto di una valutazione autonoma e non può dipendere dal rigetto della forme maggiori di protezione, in quanto «Non può infatti ritenersi che la scarsa credibilità della narrazione del richiedente in relazione alla specifica situazione per la quale ha richiesto la protezione internazionale (status di rifugiato) possa assumere efficacia preclusiva sulla valutazione delle concrete circostanze che denotano una situazione di “vulnerabilità” quale presupposto della protezione c.d. umanitaria, da effettuarsi su base oggettiva e previa integrazione, anche officiosa, delle allegazioni del ricorrente ed in cui può farsi piena applicazione del principio del dovere di cooperazione istruttoria».
Secondo la Corte, «Il giudizio sulla credibilità non esclude dunque l’esame degli ulteriori profili “esterni” alla vicenda personale del richiedente asilo o che non siano inseparabilmente legati ad essa».

 

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 2933/2019, ha accolto l’impugnazione proposta da un richiedente asilo del Pakistan, a cui la Commissione territoriale, pur ritenendo credibili le sue dichiarazioni, aveva negato ogni forma di protezione perché non individuato l’agente persecutore o del danno grave, mentre il Tribunale aveva rigettato il ricorso rinvenendo nella vicenda personale del richiedente l’esistenza di una causa di esclusione ex art. 16 d.lgs. 251/2007 «costituita dall’adesione del richiedente al gruppo Sipah-e-Sahaba Pakistan (SSP) ed alla partecipazione ad azioni violente contro gli sciiti».
Premesso che nel giudizio d’appello non si discuteva della credibilità del richiedente, la Corte felsinea, dopo avere ricostruito sinteticamente la storia del gruppo Sipah-e-Sahaba Pakistan, ha ritenuto innanzitutto insussistente la causa di esclusione perché «l’adesione del richiedente a tale gruppo militante estremista non [è] sia di per sé sufficiente ad integrare una delle ipotesi di esclusione normativamente previste dal citato art. 16 e/o dell’art. 1F della Convenzione di Ginevra, essendo necessaria la prova anche indiziaria – che nella specie non risulta dagli atti del giudizio o dalle dichiarazioni della parte – della Commissione da parte del soggetto di reati gravi».
La Corte ha rigettato l’appello nella parte relativa al riconoscimento della protezione sussidiaria, richiesta ai sensi dell’art. 14 lett. b), d.lgs. 251/2007, perché dalle fonti consultate non è emersa la prova che la polizia non avrebbe potuto proteggere il richiedente dopo che si era allontanato da detto gruppo politico.
Ha, invece, riconosciuto la protezione umanitaria, ravvisando una peculiare vulnerabilità del richiedente «in un quadro sintomatico di pericolosità per la sua incolumità, conseguente al suo effettivo coinvolgimento negli aspri e violenti conflitti di matrice religiosa esistenti in Pakistan tra le comunità mussulmane sciite e sunnite», come emerge dalle COI consultate.

 

Con decreto 20.11.2019 il Tribunale di Brescia ha riconosciuto ad un richiedente asilo del Camerun la protezione umanitaria, dopo avere escluso quella internazionale per la non credibilità delle sue dichiarazioni, ritenute totalmente contraddittorie ed inattendibili. La tutela umanitaria è stata, però, riconosciuta per la sua appartenenza alla minoranza anglofona in Camerun che, secondo le COI consultata dall’autorità giudiziaria, è in grave conflitto, dal 2016, con la maggioranza francofona e varie sono le testimonianze di violenze inferte ai loro danni anche dalla polizia. Pertanto, la protezione umanitaria è stata riconosciuta in applicazione dei principi espressi dalla giurisprudenza, cioè sul presupposto che «la situazione d’instabilità socio-politica e/o economica del Paese di provenienza del migrante sia tanto grave e generalizzata da recare un significativo vulnus agli interessi di rango primario di una qualsiasi persona collocata in quell’area geografica».
 
Con decreto 14.9.2019 il Tribunale di Bologna ha esaminato il ricorso proposto da un richiedente asilo della Liberia, che ha motivato la sua richiesta di protezione per essere stato un bambino-soldato nella guerra che ha insanguinato quel Paese per molti anni. Il giudice felsineo, pur ritenendo credibile la narrazione del richiedente sulla base di precisi elementi soggettivi indicati nel decreto, del tutto coerenti con le COI consultate, ha ritenuto insussistenti i presupposti per la protezione sussidiaria perché le fonti di informazione allegate in giudizio danno conto di un vasto programma di reinserimento sociale dei tanti bambini-soldato reclutati nella guerra civile ed inoltre perché ritenuto non fondato il timore del richiedente di essere ucciso da un familiare di una persona uccisa durante il periodo bellico. Il Tribunale ha riconosciuto che questa peculiare categoria sociale sia vittima di stigmatizzazioni e discriminazione ma non tali da costituire trattamento inumano e degradante rilevante ai sensi dell’art. 14 lett. b), d.lgs. 251/2007.
Proprio in ragione di tali trattamenti sociali, il Tribunale ha, però, riconosciuto la protezione umanitaria poiché «Il fatto che esistano ancora forme di stigma sociale degli ex bambini soldato, che limitano il loro libero esprimersi ed il pieno esercizio dei diritti fondamentali nella società liberiana è dato che le fonti sopra richiamate confermano. Tali forme di discriminazione non si concretizzano nel rischio di persecuzione o di trattamenti disumani come si sostiene nel ricorso; ma costituiscono ragione di particolare vulnerabilità del richiedente nella sua zona di provenienza. Situazione questa nettamente in contrasto con quella che il ricorrente vive nel nostro Paese, ove ha intrapreso un fruttuoso percorso di studi ed ha anche una stabile sistemazione lavorativa».
Decisione assunta, pertanto, con un’effettiva comparazione della condizione attuale e di quella a cui sarebbe esposto in caso d rientro nel Paese di origine.

 

LE MISURE DI ACCOGLIENZA NEL SISTEMA DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE
La non retroattività del d.l. n. 113/2018 in materia di accoglienza dei titolari di protezione umanitaria
Con sentenza n. 1395/2019 il Tar Veneto ha annullato un provvedimento del prefetto di Venezia di cessazione delle misure di accoglienza, nei confronti di un titolare di permesso umanitario, disposta a seguito dell’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 che ha abolito detto titolo di soggiorno ed ha previsto l’inserimento nello SPRAR (oggi SIPROIMI) per i soli beneficiari di altri tipi di protezione.
Il giudice amministrativo veneto, richiamando la giurisprudenza della Corte di cassazione sulla irretroattività della riforma di cui al d.l. n. 113/2018 in tema di protezione umanitaria (Cass. n. 4860/2019 e Sezioni Unite nn. 29459, 29460 e 29461 del 2019), ha ritenuto inapplicabile retroattivamente la preclusione alle misure di accoglienza per coloro che, prima della entrata in vigore della riforma 2018, abbiano avuto il riconoscimento della protezione umanitaria.
Secondo il Tar, infatti, «se la disciplina di cui al d.l. n. 113 del 2018 non trova applicazione ai procedimenti per il riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi umanitari che sono già stati avviati (e non ancora conclusi), essa, a fortiori, non potrà avere rilievo con riferimento ad una ipotesi, come quella scrutinata, in cui la protezione umanitaria è già stata riconosciuta al richiedente, al fine di elidere un beneficio – la prestazione delle misure di accoglienza – collegato a detto riconoscimento», richiamando sul punto la altra giurisprudenza amministrativa (Tar Basilicata n. 274/2019 e Tar Lombardia, Brescia, n. 406/2019).

 

La cessazione delle misure di accoglienza
Con sentenza n. 380/2019 il TAR Marche ha annullato il provvedimento di cessazione delle misure di accoglienza adottato a seguito di riconoscimento della protezione, da parte della Commissione territoriale.
Il ricorso è stato proposto per lesione del diritto all’unità familiare della titolare di protezione, in quanto il compagno continuava ad essere accolto nella struttura pubblica, in attesa che la sua domanda di protezione venisse esaminata e tenuto conto che alla coppia, pur non unita da vincolo coniugale, era nato un figlio.
Il giudice amministrativo marchigiano ha annullato il provvedimento di cessazione delle misure di accoglienza ritenendolo in contrasto con l’art. 14, d.lgs. 142/2015 che garantisce il diritto all’accoglienza anche al fine di salvaguardare il diritto all’unità familiare «senza alcuna distinzione tra famiglie tradizionali e unioni di fatto, queste ultime meritevoli di pari tutela». Il Tar evidenzia che già nel 2017 la prefettura aveva autorizzato il ricongiungimento del nucleo familiare nella medesima struttura di accoglienza «con ciò dimostrando di avere già preso in considerazione, a quella data, l’effettività di tale unione».

 

Il Tar Lombardia, Milano, con sentenza n. 1149/2019, ha annullato il provvedimento con cui la prefettura di Varese ha disposto la cessazione delle misure di accoglienza per un richiedente asilo a seguito di rigetto del ricorso da parte del Tribunale e pur in pendenza del giudizio d’appello, sul presupposto che l’effetto sospensivo della proposizione del ricorso venga meno con il rigetto di 1^ grado.
Il Tar meneghino ha annullato quel provvedimento, trattandosi di un giudizio ricadente nella disciplina precedente la riforma di cui al d.l. n. 13/2017 e pertanto con sospensione dell’efficacia del provvedimento amministrativo di diniego di riconoscimento della protezione valevole per tutti i gradi di giudizio, ex art. 19 d.lgs. 150/2011. La riforma del 2017 ha modificato la disciplina previgente, disponendo la cessazione dell’effetto sospensivo a seguito di rigetto da parte del Tribunale, ma essa è entrata in vigore 180 gg. dopo la sua entrata in vigore e pertanto non può applicarsi a giudizi proposti precedentemente.
Da evidenziare che a seguito di sospensiva nella fase cautelare del giudizio amministrativo, il prefetto di Varese aveva ripristinato le misure di accoglienza ma non per questo il Tar ha dichiarato la cessazione della materia del contendere in quanto il ripristino era stato disposto esclusivamente in ottemperanza alla misura cautelare.
Il Tar afferma, inoltre, la propria giurisdizione, facendola rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 23, d.lgs. 142/2015.

 

La revoca delle misure di accoglienza
Il Tar Toscana ha accolto, con sentenza n. 1170/2019, il ricorso proposto da una richiedente asilo a cui il prefetto aveva revocato le misure di accoglienza ai sensi dell’art. 23 lett. e), d.lgs. 142/2015 («violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti»).
In motivazione il giudice amministrativo censura l’omessa valutazione della condizione personale della richiedente asilo e della sua specifica vulnerabilità, in quanto «l’Amministrazione non ha tenuto in adeguata considerazione, come avrebbe dovuto, gli elementi emersi in sede procedimentale e tali da far evidenziare circostanze specifiche che dovevano essere esaminate e valutate ai fini della corretta assunzione della decisione finale. In particolare risulta che la ricorrente è entrata nella struttura con deficit culturali attinenti sia alle regole di igiene che alla capacità di accudimento della figlia, con scarse capacità di gestire la bimba minore di tre anni. Appare evidente come una persona in simili difficoltà abbia avuto difficoltà ad adeguarsi alle regole della struttura e ad avere una serena convivenza con le altre persone presenti nella struttura stessa, così che l’Amministrazione avrebbe dovuto farsi carico di valutare queste specifiche condizioni soggettive e la presenza di bimba di pochi anni, che verrebbe a trovarsi priva di sistemazione alloggiativa, cosa che non risulta avvenuta».

 

Il SIPROIMI e i minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo
Con una interessante pronuncia, cron. 194/019, la Corte d’appello di Perugia, sezione minorenni, ha annullato un decreto del Tribunale per i minorenni di Perugia che aveva disposto il «non luogo a provvedere» in relazione alla possibilità di una minore della Nigeria di permanere in una struttura pubblica del SIPROIMI (già SPRAR), potendo essere ospitata in una comunità per minori stranieri non accompagnati. Il Tribunale per i minorenni aveva motivato la decisione ritenendo più tutelante l’accoglienza in una comunità educativa per minori, tenuto conto che nel SIPROIMI la minore aveva tenuto comportamenti aggressivi e non in sintonia con le regole della struttura pubblica.
La Corte d’appello ha riformato detta decisione, ritenendo che l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati nel sistema del SIPROIMI «rappresenti lo strumento più tutelante ed idoneo per la minore, che è anche madre di un bambino di un anno», in quanto le misure di accoglienza in esso previste non si limitano al vitto ed alloggio ma prevedono «in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico; garantisce l’accoglimento presso una struttura ove sono presenti operatori e figure professionali (psicologi, mediatori culturali e operatori) che possono gestire la minore nel modo più adeguato tenuto conto della sua particolare situazione, e si avvale di reti locali, con il coinvolgimento di tutti gli attori e gli interlocutori privilegiati per la riuscita delle misure di accoglienza, protezione, integrazione; provvede alla realizzazione di attività di accompagnamento sociale, finalizzate alla conoscenza del territorio e all’effettivo accesso ai servizi locali, fra i quali l’assistenza socio-sanitaria.».
Evidenzia la Corte d’appello che nel sistema SIPROIMI è prevista la prosecuzione dell’accoglienza anche al raggiungimento della maggiore età in caso di riconoscimento di una forma di protezione internazionale o di altro tipo di permesso previsto dall’art. 1-sexies d.l. 416/89, essendo la minore anche richiedente asilo.
Interessante è, infine, il richiamo nella pronuncia alla sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, del 12.11.2019, C-233/18 Haqbin, che ha escluso la legittimità della revoca delle misure di accoglienza nei riguardi dei minori.

 

I PROVVEDIMENTI ex REGOLAMENTO n. 604/2013 DUBLINO III
La competenza territoriale dei giudizi relativi alle decisioni ex Regolamento Dublino n. 604/2013
Nella precedente Rassegna, n. 3/2019, si è dato conto del contrasto di giurisprudenza relativamente alla competenza territoriale – se del Tribunale di Roma o di altri Fori – nei giudizi di impugnazione delle decisioni di rinvio del richiedente asilo in altri Stati dell’Unione europea, ai sensi del regolamento n. 604/2013. Vi erano, infatti, pronunce del Tribunale di Roma che declinava la propria competenza a favore del Tribunale del distretto territoriale ove ha sede la struttura di accoglienza del richiedente asilo, ritenendo applicabile a questa specifica categoria la clausola di prossimità delineata dall’art. 4, d.l. n. 13/2017.
Di segno opposto, invece, la Corte di cassazione che con ordinanze nn. 18755, 18756, 18757 del 2019, assunte in sede di regolamento di competenza, aveva affermato che l’unica competenza territoriale è del Tribunale di Roma, in applicazione della regola generale del Foro erariale in difetto di specifica deroga del legislatore.
Con successiva ordinanza, n. 31127 del 28.11.2019, la Corte di cassazione (medesima relatrice delle precedenti), ha rivisto il proprio orientamento («alla luce delle condivisibili osservazioni contenute nella requisitoria del Procuratore Generale, ritiene di disattendere la soluzione indicata nelle ordinanze n. 18755,18756, 18757 del 2019»), affermando che «L’interpretazione del comma 3, dell’art. 4 del d.l. n. 13 del 2007, convertito nella l. n. 46 del 2017, coordinato con il comma 1, deve essere costituzionalmente orientata in funzione dell’attuazione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. All’interno di questa cornice costituzionale la posizione strutturalmente svantaggiata del cittadino straniero in relazione all’esercizio del diritto di difesa induce a ritenere preferibile ai fini del radicamento della competenza territoriale, il collegamento territoriale con la struttura di accoglienza del ricorrente, fissandolo nella sede della sezione specializzata in materia d’immigrazione del Tribunale più prossima ad essa, da individuarsi in quella nella cui circoscrizione ha sede la struttura od il Centro ove il cittadino straniero sia ospitato».
Per effetto di questo revirement la competenza territoriale è ora ripartita nei vari Tribunali, sezioni specializzate immigrazione ed asilo, nel caso di richiedente asilo ospitato in struttura di accoglienza pubblica che sia destinatario di una decisione di rinvio cd. Dublino, mentre rimane quella generale di Roma nel caso di richiedente fuori dal sistema di accoglienza pubblico.

 

Il termine per il trasferimento di rinvio Dublino (art. 29 Regolamento n. 604/2013)
Con tre pronunce, dell’ 8.10.2019 , 22.10.2019 e 22.10.2019 , il Tribunale di Genova ha affrontato la questione delle conseguenze del decorso del termine semestrale entro cui deve avvenire il trasferimento del richiedente asilo, nell’ambito della procedura cd. Dublino, ai sensi dell’art. 29 regolamento n. 604/2013.
Detta norma, infatti, prevede che la decisione di rinvio Dublino, verso un Paese dell’Unione europeo che ha accettato la ripresa in carico del richiedente asilo in ossequio ai criteri di attribuzione della competenza, debba essere eseguita entro 6 mesi dall’accettazione, termine aumentato a 12 mesi in caso di detenzione e a 18 in caso di fuga del richiedente. Decorsi detti termini senza che il trasferimento sia eseguito «la competenza passa automaticamente allo Stato membro (sentenza Corte di giustizia UE C-201/16 – Grande Sezione), senza che sia necessario che lo Stato membro competente rifiuti di prendere o riprendere in carico l’interessato».
In virtù di tali disposizioni, il Tribunale genovese ha annullato, in tre distinti giudizi, il rinvio di richiedenti asilo verso la Slovenia e verso la Francia.
Interessante è anche il passaggio motivazionale in cui, richiamando la citata sentenza CGUE C-201/16, si analizza l’effetto, preclusivo al rinvio Dublino, nel caso che dall’attraversamento illegale della frontiera di uno Stato membro siano decorsi 12 mesi ed il richiedente abbia formalizzato successivamente la domanda di riconoscimento della protezione internazionale in altro Stato che, perciò stesso, diventa competente all’esame della domanda (art. 13, reg. 604/2013).

 

Rilevamento delle impronte digitali e competenza all’esame della domanda di protezione internazionale (art. 20 regolamento n. 604/2013)
Con decreto 1.1.2019 il Tribunale di Milano ha annullato la decisione di rinvio di un richiedente asilo armeno in Croazia, in applicazione dell’art. 20 regolamento Dublino.
Detta norma, infatti, prevede che «La domanda di protezione internazionale si considera presentata non appena le autorità competenti dello Stato membro interessato ricevono un formulario presentato dal richiedente o un verbale redatto dalle autorità», e, secondo il giudice meneghino, detta definizione non equivale alla rilevazione delle impronte digitali in uno Stato membro dell’UE e pertanto, nel caso esaminato, non avendo l’Unità Dublino dimostrato che effettivamente il richiedente asilo abbia presentato domanda di protezione in Croazia in conformità a detta disposizione, ha annullato la decisione di rinvio in quel Paese.

 

Violazione obblighi informativi (artt. 4 e 5 regolamento n. 604/2013)
Vari Tribunali hanno affrontato la questione della violazione dell’obbligo informativo nei procedimenti di rinvio cd. Dublino, censurando l’illegittimità delle decisioni di trasferimento in caso di omissione delle garanzie procedurali previste dagli artt. 4 e 5 regolamento n. 604/2013. Si vedano le pronunce indicate, da ultimo, nella Rassegna n. 3/2019.
Ad esse va aggiunta la decisione del Tribunale di Roma, decreto 23.12.2019 , con cui è stato annullato un provvedimento di rinvio adottato dall’Unità Dublino del Ministero dell’interno, per violazione dei doveri informativi previsti da dette disposizioni, non ritenendo equivalente ad essi il verbale di «Colloquio personale» ex art. 5 reg. 604/2013 ed il Modello C3 afferente la formalizzazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale. Secondo il giudice romano le informazioni che devono essere contenute nell’opuscolo informativo previsto dall’art. 4 del regolamento Dublino (redatto secondo il modello predisposto dalla Commissione europea) sono diverse da quelle raccolte nella procedura amministrativa di formalizzazione della domanda di protezione internazionale ex art. 10, d.lgs. 25/2008 ed «è chiaro che, al momento della formalizzazione della domanda mediante compilazione del cosiddetto modello C3, sorgono in capo allo Stato membro due distinti ed autonomi obblighi informativi che attengono, l’uno alla procedura di determinazione dello Stato membro competente all’esame della domanda (la questione ovviamente si pone soltanto nei casi in cui, come quello in esame, il sistema EURODAC fornisca elementi che fanno pensare a una possibile differente competenza per l’esame della domanda rispetto a quella dello Stato davanti nel quale essa è stata proposta) e l’altro alla procedura di asilo, ove la stessa si svolga, all’esito della c.d. procedura Dublino, nel medesimo Stato in cui è stata presentata la domanda di protezione, in quanto competente all’esame della relativa domanda» e pertanto gli obblighi imposti dall’art. 4 regolamento n. 604/2013 non sono equivalenti a quelli che derivano dalla direttiva 2013/32/UE.
Il Tribunale richiama i poteri dell’autorità giudiziaria nei procedimenti cd. Dublino, come delineati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale prescrive che il sindacato giurisdizionale verta anche in relazione alle garanzie procedurali (CGUE C-63/15, paragrafi 51 e 53) e affermati anche dalla giurisprudenza nazionale (Cons. St. n. 4199/2015).
Ravvisata, dunque, la violazione di legge, il Tribunale di Roma ha annullato le decisioni di rinvio Dublino verso la Germania.

 

Rischio trattamenti inumani e degradanti (Lettonia) (artt. 3 e 17 Regolamento n. 604/2013)
Il Tribunale di Roma, con decreto 17.10.2019, ha annullato una decisione dell’Unità Dublino, di rinvio di un richiedente asilo del Pakistan in Lettonia, che in quel Paese era stato detenuto per circa 4 mesi e poi accolto in un “campo” ove non aveva ricevuto alcun sostegno né misure di integrazione.
Il giudice romano ha acquisito varie fonti di informazioni, dalle quali emerge che in Lettonia vi sono varie violazione dei diritti umani, tra le quali l’impedimento alla libertà di espressione, i maltrattamenti di detenuti e le violenze di polizia, la criticità nell’accesso all’assistenza sanitaria. Richiamati i principi espressi dalla giurisprudenza europea, secondo cui le norme del regolamento Dublino n. 604/2013, devono essere interpretate ed applicate tenendo in considerazione i diritti fondamentali garantiti dalla Carta di Nizza (CGUE 16.2.2017 caso C.K. ed al. c. Slovenia), ritenuto che essi non siano garantiti in Lettonia e valutata anche l’integrazione del richiedente asilo in Italia e l’accesso alle necessarie cure sanitarie, il Tribunale ha annullato la decisione di rinvio in detto Paese, per il rischio di violazione dell’art. 3 reg. n. 604/2013 ed in applicazione della clausola umanitaria di cui all’art. 17 del medesimo regolamento.
 
DIRITTI dei RICHIEDENTI ASILO e dei TITOLARI di PROTEZIONE
Il rinnovo del permesso nel giudizio di protezione internazionale ante riforma 2017
Il Tribunale di Bologna ed il Tribunale di Roma hanno affrontato la questione, posta da una diffusa prassi delle questure, del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per «richiesta asilo» nelle more del giudizio per il riconoscimento della protezione internazionale, secondo la disciplina previgente alla riforma del d.l. n. 13/2017, vale a dire ai sensi dell’art. 19 d.lgs. 150/2011. Disposizione, quest’ultima, che, a parte alcune eccezioni, prevede l’effetto sospensivo ex lege a seguito di proposizione del ricorso avverso la decisione negativa della Commissione territoriale.
Sulla questione si è già da tempo pronunciata la Corte di cassazione, affermando l’efficacia della sospensione fino alla definizione dell’intero giudizio, nei tre gradi eventualmente proponibili, e dunque fino al passaggio in giudicato della decisione (Cass. 24415/2015; Cass. 18737/2017; Cass. n. 699/2018; Cass. 12476/2018; Cass. 28003/2018; Cass. 3353/2019; Cass. n. 6071/2019, Cass. 6072/2019, ecc.), ma ciò nonostante varie questure continuano a negare il rilascio del titolo di soggiorno nelle more dei giudizi ante riforma del 2017.
Sulla questione sia il Tribunale di Bologna (con decreti 23.8.2019 e 16.12.2019 , entrambi all’esito di procedimenti cautelari d’urgenza ex art. 700 c.p.c.) che il Tribunale di Roma (con decreto 23.12.2019 , sempre in sede cautelare d’urgenza) hanno confermato la giurisprudenza di Cassazione, affermando il diritto al rilascio del permesso di soggiorno fino alla definizione dell’intero giudizio, ravvisando il periculum inmora in relazione alla irregolarità di soggiorno conseguente al rifiuto di rinnovo e all’impossibilità di accedere ai diritti sociali, pur esercitabili dal richiedente asilo.

 

Il rilascio del titolo di viaggio per il titolare di rifugio politico in presenza di mancato pagamento pena pecuniaria
Con sentenza n. 34/2019 il Tar Toscana ha esaminato il provvedimento con cui il questore di Pistoia ha negato ad un titolare di rifugio politico il rilascio del titolo di viaggio perché risultava non aver pagato una pena pecuniaria comminata in una sentenza penale di condanna e dunque applicando in via analogica la normativa per il rilascio del passaporto a cittadino italiano (art. 3, l. n. 1185/67).
Il Tar ha accolto il ricorso, rilevando che la lettera d) dell’art. 3 della legge n.1185 del 1967 (norme sui passaporti) non è una pena accessoria alla condanna «ma è una forma di garanzia finalizzata all’esecuzione della condanna penale ed ha, precipuamente, lo scopo di garantire che il condannato non si sottragga all’esecuzione della pena recandosi in luoghi sui quali non è esercitata la sovranità dello Stato italiano.
Ciò che legittima la restrizione è dunque la necessità, per lo Stato, di rendere effettiva e agevolmente eseguibile la pronuncia di condanna (cfr. Cons. St., sez. III, 14 luglio 2015 n. 3532; Tar Veneto, sez. III, 31 gennaio 2018 n. 102)».
La ratio, dunque, è quella di assicurarsi l’effettività dell’obbligo di pagamento della pena pecuniaria, che verrebbe vanificata se al cittadino italiano venisse consentito di lasciare il territorio nazionale e in tal senso è applicabile a chiunque, senza distinzione tra cittadini e stranieri, in quanto previsione di carattere generale.
Tuttavia, il Tar ha ritenuto inapplicabile tale disposizione al titolare di rifugio politico «dovendosi considerare che per il rifugiato politico vige uno statuto particolare, orientato alla massima tutela di tale categoria di persone anche attraverso la compiuta disciplina della fattispecie in esame del rilascio del titolo di viaggio». Richiamato l’art. 24 d.lgs. 251/2007 ed in particolare il suo comma 3 («3. Il rilascio dei documenti di cui ai commi 1 e 2 è rifiutato ovvero, nel caso di rilascio, il documento è ritirato se sussistono gravissimi motivi attinenti la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico che ne impediscono il rilascio.») il giudice amministrativo toscano dichiara illegittimo il provvedimento del questore perché «pare evidente che il normale esercizio della potestà punitiva dello Stato e la connessa esigenza di assicurare l’effettività della pena (nel caso di specie, peraltro, pecuniaria) per un comune reato, non possano rientrare fra i “gravissimi motivi attinenti la sicurezza nazionale e l'ordine pubblico”, che potrebbero invece verificarsi nel caso di soggetti condannati o indiziati per gravissimi delitti contro la personalità dello Stato ovvero collegati al terrorismo, o più in generale quando il comportamento tenuto dal rifugiato costituisca una minaccia reale, attuale e particolarmente grave nei confronti di un interesse fondamentale della società o della sicurezza interna o esterna dello Stato».
Dunque, lo statuto speciale del rifugiato politico, dettato dalla normativa nazionale e dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, impone di interpretare le norme nel rispetto degli obblighi internazionali, rispetto alle quali è recessiva l’esigenza dello Stato di assicurare l’effettiva esecuzione della condanna penale.