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Fascicolo 3, Novembre 2019


«Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale di speciale disperazione / e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità, di verità.   [...] Ricorda Signore questi servi disobbedienti / alle leggi del branco / non dimenticare il loro volto / che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti come una svista / come un'anomalia / come una distrazione / come un dovere».
(Fabrizio de Andrè, Smisurata Preghiera, in Anime salve, 1996)

Non discriminazione

Nel corso del secondo quadrimestre del 2019 le principali pronunce in tema di discriminazione hanno riguardato i rapporti dei cittadini extraUE con gli Enti locali determinando, in diversi casi, il rinvio alla Corte costituzionale. Si segnalano in particolare le rimessioni operate in relazione al diritto per i richiedenti protezione internazionale di ottenere l’iscrizione anagrafica rifiutata dai Comuni e quella operata in relazione all’accesso al reddito di inclusione negato in assenza di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno per lungo soggiornanti UE.
 
Divieto di iscrizione anagrafica
L’introduzione, ad opera dell’art. 13, co. 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/18 convertito nella legge n. 132/2018, del comma 1-bis all’art. 4, d.lgs. 18.8.2015, n. 142: «Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 [ossia, il permesso di soggiorno per i richiedenti asilo] non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30.5.1989, n. 223, e dell’art. 6, co. 7, d.lgs. 25.7.1998, n. 286» ha avuto come immediata conseguenza il rifiuto da parte di alcuni Comuni di operare l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo. I Tribunali sono stati quindi investiti della decisione riguardo tale diniego. I giudici di Firenze, Bologna e Genova hanno ordinato l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo affermando la possibilità di fornire una interpretazione della norma costituzionalmente orientata (vedi ordinanza 18.3.2019 di Firenze in Questione Giustizia e Banca dati Asgi; ordinanza 2.5.2019 di Bologna e ordinanza 22.5.2019 di Genova tutte in Banca dati Asgi). Alle stesse conclusioni sono pervenuti di recente i Tribunali di Prato, Lecce, Cagliari e Parma (vedi ordinanza 28.5.2019 di Prato; ordinanza 4.7.2019 di Lecce; ordinanza 31.7.2019 di Cagliari e ordinanza 2.8.2019 di Parma, tutte in Banca dati Asgi).
Al contrario tale possibilità è stata esclusa dai giudici dei Tribunali di Ancona (ordinanza 29.7.2019), Milano (ordinanza 1.8.2019) e Ferrara (ordinanza 24.9.2019) – tutte reperibili in Banca dati Asgi – che invece hanno sollevato eccezione di illegittimità costituzionale della norma in relazione agli artt. 3 della Costituzione, dell’art. 2 del Protocollo IV della CEDU e dell’art. 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché degli artt. 10, 117, co. 1, Costituzione in relazione all’art. 2, § 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ed altresì in riferimento agli artt. 14 CEDU e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Ad avviso dei giudici di Firenze, Bologna e Genova, sulla base del criterio di interpretazione sistematica, era possibile un’applicazione in conformità alla Costituzione dell’art. 4, co. 1-bis, d.lgs. n. 142/2015 perché detta disposizione deve essere intesa nel senso di escludere che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo costituisca, di per sé, titolo per l’iscrizione automatica all’anagrafe basata sulla sola domanda di protezione e sull’inserimento nella struttura di accoglienza, senza che ciò precluda comunque in toto la possibilità di iscrizione anagrafica di questa categoria di stranieri. Merita segnalare che il Tribunale di Firenze ha specificato che le modifiche normative introdotte con il d.l. n. 113/2018 implicano che il permesso di soggiorno in Italia per richiesta di asilo non sia più titolo idoneo a comprovare la regolarità del soggiorno ai fini dell’iscrizione anagrafica, ma che tale condizione giuridica può essere provata attraverso altri documenti che attestino l’avvio del procedimento volto al riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione, quali il c.d. «modello C3» oppure il documento nel quale la questura attesta che il richiedente ha formalizzato l’istanza di protezione internazionale. Secondo questa impostazione, dall’intervento normativo di cui al d.l. n. 113/2018 non può desumersi un divieto di iscrizione anagrafica per il richiedente asilo ma, solamente, l’abrogazione della modalità semplificata di iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo prevista dall’art. 5-bis, d.lgs. 142/2015, introdotto dalla l. n. 46/2017.
Di diverso avviso, come si è detto, sono stati i Tribunali di Ancona, Milano e Ferrara che hanno invece rimesso la decisione alla Corte costituzionale ritenendo che il divieto di iscrizione all’anagrafe, opposto ad una particolare categoria di stranieri (i richiedenti asilo), costituisce una ingiustificata compressione del loro diritto alla residenza e si pone peraltro in contrasto con «le esigenze di controllo sociale e sicurezza che proprio il legislatore si proponeva di perseguire» ed ha natura discriminatoria.
In particolare il Tribunale di Milano ha affermato che per realizzare il fine di far venir meno la procedura semplificata di iscrizione all'anagrafe per il richiedente asilo sarebbe stato sufficiente abrogare l’art. 5-bis, d.lgs. 142/2015 e, conseguentemente, l’iscrizione all’anagrafe del richiedente asilo sarebbe stata garantita dalla procedura ordinaria prevista dal combinato disposto del d.p.r. n. 223/1989, e dell’art. 6, co. 7, d.lgs. n. 286/1998. Secondo il Tribunale di Milano «Dalla lettura del comma 1-bis dell’art. 4, d.lgs. n. 142/2015 non può dunque ricavarsi il significato secondo cui per l’iscrizione anagrafica il richiedente asilo deve fornire all’amministrazione comunale un documento diverso dal permesso di soggiorno; si desume, invece, la contrarietà dell’ordinamento all’iscrizione anagrafica di chi è regolarmente sul territorio italiano in forza di un permesso di soggiorno per richiesta di asilo». Muovendo dalla necessità di un’interpretazione letterale, sistematica e teleologica, che tenga in considerazione la chiara intenzione del legislatore e considerando che «la norma di cui all’art. 4, co. 1-bis, l. 142/2015, così come modificata dall’art. 13, d.l. 113/2018 introduce un regime di carattere peculiare per i richiedenti protezione internazionale, permettendo agli stessi di avere un permesso di soggiorno temporaneo, nell’attesa della definizione della loro domanda di protezione internazionale», concludeva per la impossibilità di accedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata della norma in esame e ne rilevava il carattere discriminatorio ed i profili non conformi ai dettami costituzionali.
È opportuno segnalare che invece il Tribunale di Trento (con ordinanza 11.6.2019 in Banca dati Asgi) ha respinto i ricorsi non reputando discriminatoria la disposizione in esame.

 

Iscrizione al Sistema sanitario nazionale
Il Tribunale di Napoli Nord (vedi ordinanza 10.7.2019 in Banca dati Asgi) ha chiarito che la mancata iscrizione anagrafica non influisce sul diritto all’iscrizione al Sistema sanitario nazionale e che il rifiuto opposto dall’ASL Napoli 2 Nord di iscrivere un richiedente asilo nigeriano costituisce discriminazione ai sensi degli artt. 34 e 43 del TU. Secondo il Tribunale infatti «l’iscrizione anagrafica non costituisce requisito necessario ai fini dell’erogazione dei servizi minimi essenziali, in ragione della protezione che lo Stato assicura ai richiedenti asilo, titolari di una condizione giuridica soggettiva a cui sono connessi diritti e obblighi peculiari, ex art. 117 della Costituzione».
L’art. 34 TU, peraltro, assicura il diritto all’iscrizione obbligatoria al SSN – tra gli altri – ai titolari del permesso di soggiorno per richiesta asilo. Alcuna modifica in relazione a tale disposizione è intervenuta a seguito dell’entrata in vigore del d.l. 113/2018 convertito in l. 132.

 

Bonus famiglia
La Corte d’appello di Milano nella sentenza n. 463/19 (in Banca dati Asgi) ha affermato che costituisce discriminazione indiretta in danno degli stranieri la previsione, da parte della Regione Lombardia, del requisito di cinque anni di residenza nella Regione per entrambi i genitori al fine di attribuire il bonus famiglia riservato alle famiglie con ISEE inferiore a 20.000 euro e con attestazione di vulnerabilità da parte dei Servizi sociali del Comune, sottolineando che il requisito, introdotto dalla Regione Lombardia (il più elevato previsto sino ad ora dalle varie legislazioni regionali) è sproporzionato perché non è possibile presumere che lo stato di bisogno di chi risieda nella Regione da meno di cinque anni sia minore rispetto a chi vi risieda da più anni. Inoltre, pur essendo previsto sia per italiani che per stranieri, comporta l’esclusione di molte famiglie straniere sia perché normalmente gli stranieri hanno una minore anzianità di residenza, sia perché nelle famiglie straniere, a causa del meccanismo del ricongiungimento familiare, spesso i due genitori fanno ingresso in Italia e in Lombardia in momenti diversi.
Tale orientamento è stato condiviso anche dal Tribunale di Bergamo (vedi ordinanza 18.2019 ed ordinanza 21.8.2019 in Banca dati Asgi).

 

Reddito di inclusione
Il Tribunale di Bergamo con ordinanza 1.8.2019 ha sollevato questione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, d.lgs. 147/17 nella parte in cui prevede che i cittadini di nazionalità extra UE debbano essere titolari, per l’accesso al beneficio, di un permesso di soggiorno di lungo periodo anziché di un permesso a tempo determinato per lavoro o per altri motivi, affermando che la norma introduce una ingiustificata ed irragionevole discriminazione a sfavore dei cittadini di Paesi terzi legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato italiano, ma sprovvisti del permesso di lungo soggiorno, in violazione degli art. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, dell’art. 14 CEDU e degli artt. 20, 21, 33 e 34 CDFUE. In particolare il giudice ha evidenziato che la rimessione alla Corte costituzionale si era resa necessaria in quanto il diritto alla prestazione non può derivare dalla direttiva 2011/98 trattandosi di prestazione di contrasto alla povertà e quindi non rientrante nell’ambito di applicazione del regolamento n. 883/04 a cui la direttiva fa riferimento (in Banca data Asgi).

 

Discriminazione in base alla nazionalità
Il Tribunale di Como, con ordinanza 16.8.2019 (in Banca dati Asgi), ha ritenuto sussistente la discriminazione diretta per nazionalità nella condotta posta in essere dal Ministero dell’interno consistente nell’aver richiesto, alla cooperativa che aveva assunto una interprete di nazionalità peruviana, la sua immediata sostituzione in quanto, a giudizio della questura, in conseguenza della sua presenza si erano incrementate le domande di asilo di cittadini di nazionalità peruviana. Il giudice ha evidenziato che non solo la valutazione circa una correlazione fra la attività prestata dalla mediatrice e l’aumento delle domande di protezione formulate dai suoi connazionali era stata operata in modo approssimativo, ma ha altresì sottolineato che non era stato effettuato alcun confronto con le domande di asilo presentate da persone di nazionalità peruviana in altre città e neppure provato che, dopo il licenziamento della stessa, le domande fossero diminuite.
In conclusione il giudice ha rilevato che il licenziamento della mediatrice si era fondato su un sillogismo del tutto indimostrato e cioè che le domande di asilo dei cittadini peruviani si fossero incrementate a cagione dell’illegittimo interessamento di una persona che operava necessariamente all’interno dell’Ufficio immigrazione ed era della loro stessa nazionalità.

 

Discriminazione a mezzo stampa
Il Tribunale di Milano, con ordinanza 13.6.2019 (in Banca dati Asgi) ha accertato la natura discriminatoria della condotta dell’Editoriale Libero s.r.l. concretantesi nella pubblicazione dell’articolo «Turpe speculazione. Elenco dei papponi che si arricchiscono con la tratta dei neri. Nel 2016 fatturati milionari per Coop ed associazioni cattoliche».
Il giudice, dopo aver ricostruito la nozione di comportamento discriminatorio alla luce della vigente normativa ed avervi ricondotto anche le c.d. molestie subite in connessione ai medesimi motivi di razza o di origine etnica, ha operato una accurata disamina in fatto dell’articolo in questione alla luce delle indicazioni enunciate in materia dalla Cassazione per concludere che fosse evidente «l’intenzione di Libero di indicare ai propri lettori la natura para-delinquenziale delle attività di accoglienza e dei fondi legittimamente ricevuti per svolgerle, aggravato dal riferimento alla cooperativa di Buzzi (protagonista dell’inchiesta su Mafia Capitale) e ad altre non menzionate strutture che sarebbero entrate nel mirino della AG» ed ha escluso di poter riconoscere la scriminante del diritto di cronaca e di critica, ritenendo ingiustificata la lesione alla reputazione della cooperativa ricorrente.

 

Assegno di maternità di base e bonus bebè
Con diverse ordinanze depositate tutte il 17 giugno 2019 la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 1, co. 125 l. 190/14 (bonus bebè) e dell’art. 74 d.lgs. 151/01 (indennità di maternità di base) nella parte in cui prevedono le rispettive prestazioni per i soli stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo, anziché di permesso di soggiorno di almeno un anno ai sensi dell’art. 41 TU.
Va subito precisato che l’ordinanza n. 16167/2019 è riferita ad una fattispecie relativa alla indennità di maternità richiesta per un periodo antecedente il recepimento della direttiva 2011/98 e, di conseguenza, era inevitabile sottoporre al vaglio della Corte costituzionale la questione. Per quanto concerne il bonus bebè (vedi ordinanza n. 16164/19) che riguarda un diritto sorto nel periodo di piena vigenza della direttiva, la decisione è intervenuta nonostante la Corte costituzionale avesse sostanzialmente avallato l’operato dei giudici di merito che avevano disapplicato la norma nazionale in quanto contrastante con l’art. 12 direttiva 2011/98/, che prescrive l’obbligo di parità di trattamento.
In effetti la Corte costituzionale nella ordinanza 52/2019 aveva ribadito quanto esposto in una precedente ordinanza (n. 95 del 2017) evidenziando che il giudice remittente avrebbe dovuto prendere in esame la direttiva 2011/98/UE ed, in particolare, il principio di parità di trattamento di cui all’art. 12 come interpretato dalla Corte di giustizia e segnatamente la parità di trattamento fra cittadini italiani e cittadini extracomunitari per quanto concerne i settori della sicurezza sociale e valutarne l’applicabilità nel caso sottoposto al suo giudizio.
Tuttavia la Suprema Corte dopo aver riconosciuto la pur concreta possibilità di applicare la direttiva 98, ha invece scelto di sottoporre la questione della conformità circa il coordinamento tra norme nazionali e norme dell’Unione al controllo della Corte costituzionale richiamando la sentenza 63/19. Quest’ultima sentenza aveva comunque affermato «il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta», dunque, a maggior ragione, con i diritti derivanti dalle direttive dotate di efficacia diretta perché sufficientemente precise e operanti nei rapporti verticali, come nel caso della direttiva 2011/98. Al riguardo se è pur vero che il peculiare meccanismo della non applicazione «non può realizzare effetti analoghi a quelli derivanti dalla pronuncia di incostituzionalità» che ha effetti erga omnes ed evita le anomalie del cd «controllo diffuso» che affida la soluzione del conflitto tra ordinamenti al singolo giudice, non si può negare che in tal modo si entra in contrasto con i principi ripetutamente espressi dalla Corte di giustizia in merito all’obbligo di disapplicazione da parte del giudice ordinario.

 

Il Tribunale di Torino, con ordinanza 28.5.2019 (in Banca dati Asgi), ha ritenuto la condotta del Comune di Torino, consistente nell’aver negato l’assegno di maternità ex art. 74 d.lgs. n. 151/2001 alle madri cittadine extra UE titolari di permesso per motivi famigliari, di natura discriminatoria. In particolare si segnala che il giudice ha affermato l’obbligo del Comune di informare, dandone apposita pubblicità sul suo sito istituzionale, le madri straniere che non è necessaria la carta di soggiorno/permesso CE di lungo periodo essendo sufficiente il possesso di uno dei titoli di soggiorno previsti dall’art. 3 § 1 lett. b), c) della direttiva 2011/98/UE.

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