Cittadinanza e apolidia

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Anche nel primo quadrimestre del 2019 risultano numericamente prevalenti le pronunce dei giudici amministrativi in tema di acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. Tuttavia, rispetto al perdurante e consueto filone giurisprudenziale dei giudici amministrativi che avvalorano gli esiti negativi delle domande di cittadinanza, emergono alcune, diverse decisioni del Consiglio di Stato,

le quali rispettivamente risolvono delicati problemi di diritto transitorio riguardo all’acquisto della cittadinanza per matrimonio o affrontano l’annoso problema dei tempi “biblici” impiegati dal Ministero dell’interno per la gestione delle pratiche relative alle domande suddette, cui lo stesso Ministero ha posto rimedio con un apposito provvedimento sull’allungamento dei tempi relativi; ma soprattutto censurano (in modo invero inconsueto) le valutazioni operate dalla Pubblica Amministrazione ai fini del rigetto delle domande presentate. Nel periodo indicato sono state emesse inoltre alcune decisioni sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e sull’accertamento dell’apolidia.

Riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di acquisto della cittadinanza italiana. Differenza tra le ipotesi in cui l’istante ha un interesse legittimo all’acquisto della cittadinanza e quelle in cui è titolare di un diritto soggettivo
Sul problema del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo è stato emesso anzitutto un dettagliato provvedimento dei giudici ordinari ( Trib. Brescia, ord. 7.1.2019 ), chiamati a decidere su una domanda di acquisto della cittadinanza per naturalizzazione ex art. 9, co. 1 lett. f della l. 91/92, presentata da un cittadino straniero che lamentava l’inesistenza del motivo alla base del giudizio di rigetto da parte del Ministero dell’interno.
Dopo aver ricordato che l’art. 3, co. 2, d.l. 13/2017, come modificato dalla legge di conversione 46/2017, attribuisce alle sezioni specializzate in materia di protezione internazionale dei Tribunali ordinari la competenza a decidere anche le controversie sull’accertamento dello stato di cittadinanza italiana, il Tribunale ricorda, nella scia della giurisprudenza delle Sezioni Unite, che il criterio di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudici speciali si individua nel c.d. petitum sostanziale ed in una valorizzazione della causa petendi.
Si tratta allora di esaminare i caratteri del procedimento di concessione della cittadinanza italiana per naturalizzazione, la cui valutazione del provvedimento finale è stata da sempre considerata di competenza del giudice amministrativo, in quanto la posizione giuridica dell’istante è costituita da un interesse legittimo e non da un diritto soggettivo.
Come evidenziano le numerose decisioni del Consiglio di Stato in materia, ne costituisce riprova l’ampia discrezionalità della Amministrazione, liberamente esercitabile con l’unica limitazione dell’eccesso di potere. Tale discrezionalità si traduce in un apprezzamento di opportunità connessa allo stabile inserimento o meno dello straniero nella comunità nazionale e nell’assimilazione dei relativi valori.
Dunque, il sindacato giurisdizionale sul corretto esercizio del potere suddetto deve avere natura estrinseca e formale e non può spingersi oltre la verifica della ricorrenza di un’idonea e sufficiente istruttoria della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell’esistenza di una motivazione coerente e ragionevole.
Ebbene, le norme di cui agli artt. 19-bis, d.lgs. 150/2011 e 3, co. 2 e 4, co. 5, d.l. 13/2017 non hanno innovato il riparto della giurisdizione in materia di cittadinanza. Esse infatti sono mere norme processuali, che disciplinano la competenza dei singoli giudici all’interno della giurisdizione ordinaria e stabiliscono il rito applicabile alle controversie in materia di cittadinanza limitatamente a quei giudizi che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, ovvero quelli attinenti all’acquisto della cittadinanza ex artt. 1 (iure sanguinis) e 5 (per matrimonio) della l. 91/1992, dalle quali esula il potere discrezionale, salva l’ipotesi prevista in quest’ultimo caso dall’art. 6, co. 1, lett. c, per cui solo le prime configurano la situazione giuridica soggettiva del richiedente come di diritto soggettivo. Occorre tuttavia, a nostro avviso, sottolineare che a tali ipotesi si devono aggiungere quelle previste dall’art. 4 della medesima legge, relative all’acquisto della cittadinanza per beneficio di legge o per elezione.
Ineccepibili risultano, d’altro canto, le ulteriori motivazioni fondate sul diverso testo degli articoli citati rispetto a quello dell’art. 9 («la cittadinanza italiana può essere concessa») e sul principio generale dell’interpretazione delle norme di cui all’art. 12 preleggi.
Ineluttabile perciò la dichiarazione di difetto di giurisdizione del Tribunale e il conseguente rinvio al giudice amministrativo.
Sul riparto in esame è anche intervenuto, in modo per così dire speculare, proprio quest’ultimo giudice, chiamato a decidere sulla pretesa illegittimità del silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione in riferimento ad una istanza di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis (Tar Lazio, sez. III, sent. 18.3.2019 n. 3556). In tale occasione è stato infatti il giudice amministrativo a dichiarare il proprio difetto di giurisdizione sottolineando che gli istanti azionavano una posizione giuridica di diritto soggettivo, dunque soggetta all’autorità giudiziaria ordinaria, davanti alla quale la domanda poteva essere riproposta con le modalità e nei termini di cui all’art. 11 c.p.a.

Nel medesimo senso si è pronunciato (peraltro in modo piuttosto sbrigativo) un altro giudice amministrativo di fronte ad un’istanza di acquisto della cittadinanza per matrimonio ex art. 5, l. 91/92 (Tar Firenze, sez. II, sent. 9.1.2019 n. 25).

Acquisto della cittadinanza per matrimonio. Requisito relativo alla permanenza del vincolo coniugale; differenza rispetto alle cause ostative all’acquisto; principio del tempus regit actum
Il Consiglio di Stato è stato chiamato a decidere circa un delicato problema di diritto transitorio, attinente al momento della verifica della permanenza del vincolo coniugale ai fini dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio (Cons. St., sez. III, sent. 21.2.2019 n. 1211). La cittadina straniera istante risultava infatti coniugata al momento della presentazione della domanda, mentre nel corso dell’iter amministrativo era intervenuta la separazione personale.
Il problema derivava dal fatto che, a pochi mesi di distanza dalla presentazione della domanda suddetta, era entrata in vigore la l. 15.7.2009 n. 94 il cui art. 1, co. 11 modificava l’art. 5, l. 91/92, prevedendo appunto la necessità che il c.d. vincolo di coniugio permanesse fino al momento dell’adozione del provvedimento. Ne era conseguito il decreto di rigetto da parte del prefetto competente, la cui correttezza era poi confermata dal giudice amministrativo (Tar Lazio, sez. I, sent. 3.2.2017 n. 176, esaminata nella presente Rassegna, fasc. 2/2017).
I giudici di Palazzo Spada confermano la sentenza impugnata e approvano l’operato della Pubblica Amministrazione. Essi sgombrano anzitutto il campo dal richiamo, da parte della cittadina straniera appellante, alla violazione dell’art. 8 della legge sulla cittadinanza, che precludeva all’epoca il rigetto dell’istanza una volta trascorsi – inutilmente – due anni dalla sua presentazione. A tale riguardo, il Consiglio di Stato si sofferma ampiamente sul contenuto e la ratio di tale norma giungendo a concludere, in modo ovviamente inappuntabile, per la sua disapplicazione nel caso di specie dove si verte non sulle cause ostative all’acquisto della cittadinanza per matrimonio, ma bensì sui requisiti positivi richiesti per la domanda.
A tale riguardo, viene dapprima evocato l’art. 3, d.p.r. 362/1994 (ovvero, uno dei due regolamenti di esecuzione della l. 91/92) che fissa anch’esso in due anni il termine per la definizione del procedimento avente ad oggetto la concessione della cittadinanza italiana, ricordando che la giurisprudenza non ha mai ravvisato la possibilità di qualificare il superamento di tale termine come una ipotesi di silenzio-accoglimento o di silenzio-rigetto. Il decorso del termine in esame, come tutti i termini di definizione di un procedimento amministrativo, non consuma infatti il potere della amministrazione di emettere un provvedimento a contenuto negativo e tanto meno perfeziona una fattispecie di silenzio-accoglimento: esso piuttosto determina un mero silenzio-inadempimento avverso il quale l’interessato può attivare l’apposito rimedio di cui all’art. 117 c.p.a.
La sentenza in esame si diffonde poi ben più ampiamente sul principio del tempus regit actum, il quale impone, in presenza di una sequenza procedimentale di atti amministrativi, di applicare la norma vigente al momento dell’adozione di ciascuno di essi. Esso comporta che la Pubblica Amministrazione deve considerare anche le modifiche normative intervenute durante il procedimento, in quanto implicanti una diversa valutazione degli interessi pubblici in gioco, non potendo viceversa considerare l’assetto normativo cristallizzato in via definitiva alla data dell’atto che vi ha dato avvio. Ne consegue che la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento avviato ad istanza di parte deve essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al tempo in cui detto provvedimento finale è stato adottato, e non al tempo della presentazione della domanda da parte del privato. Per di più, tale principio si completa con il postulato di diritto secondo cui, fintantoché l’Amministrazione non ha approvato il provvedimento definitivo, il privato richiedente non è titolare di una situazione sostanziale consolidata, meritevole di tutela sotto il profilo del legittimo affidamento, ma di una mera aspettativa al conseguimento dell’utilità desiderata.

Cade così anche l’ulteriore motivo di impugnazione, relativo al vizio di carenza di potere, che sarebbe derivato dalla titolarità in capo all’istante di un diritto soggettivo ad essere riconosciuta italiana, ai sensi dell’art. 5, l. 91/1992, nella formulazione antecedente alla novella del 2009.

Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. Effetti ostativi ad opera di condanne penali, e di reddito inadeguato. Rigetto della domanda per condanna derivante dalla guida in stato di ebbrezza: esclusione di un criterio fondato sull’assoluta irreprensibilità morale; necessità di una valutazione complessiva anche alla luce della successiva riabilitazione. Rigetto della domanda per condanna derivante da incauto acquisto: necessità di una valutazione ponderata in merito alla oggettiva lievità della contravvenzione e alla successiva condotta dell’istante. Durata eccessiva dei procedimenti di naturalizzazione: ammissibilità di una class action; motivi di giustificazione dell’operato del Ministero dell’interno
Come rilevato all’inizio, anzitutto prosegue l’orientamento giurisprudenziale del Tar Lazio fondato sull’ampia discrezionalità del Ministero dell’interno nel valutare le domande di acquisto della cittadinanza italiana per naturalizzazione ai sensi dell’art. 9, co. 1 lett. f, l. 91/92.
Poiché le motivazioni sono identiche a quelle già più volte esaminate nelle precedenti Rassegne, ci si limita qui a segnalare alcune decisioni nelle quali il decreto ministeriale di rigetto è stato avvalorato in riferimento alla constatazione di una condanna per porto d’armi (Tar Lazio, sez. I-ter, 26.4.2019 n. 5309), a nulla valendo il tempo trascorso e l’assenza di altri reati, che ha condotto alla estinzione dei reati per i quali è intervenuta condanna poiché le condotte di che trattasi rientrano tra i delitti che generano allarme sociale e che denotano scarso rispetto per l’ordinamento e la comunità dello Stato ospitante.
Ad un esito eguale ha portato un’altra pronuncia originata da un rigetto dell’istanza a causa di pregresse condanne per rapina e lesioni (artt. 628, 582 c.p.) (Tar Lazio, sez. I-ter, 18.4.2019 n. 5057) ed un’ulteriore pronuncia nella quale il rifiuto era giustificato da motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica (Tar Lazio, sez. I-ter, 4.3.2019 n. 2743).
Non sempre tuttavia le valutazioni del Ministero dell’interno vengono considerate esenti da vizi nel relativo procedimento e nelle conseguenti determinazioni finali: lo testimoniano due rilevanti decisioni del Consiglio di Stato le quali hanno censurato l’operato dell’Amministrazione e di conseguenza riformato le concordanti sentenze dei Tar.
Assai incisive risultano, in primo luogo, le censure mosse dal Consiglio di Stato nei confronti di un atto di rigetto della domanda di naturalizzazione, formulata da un cittadino iracheno, motivata da una pregressa condanna per guida in stato di alterazione dovuta all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, ai sensi dell’art.187, co. 1, d.lgs. n. 285/1992 (Cons. St., sez. III, sent. 20.3.2019 n. 1837). La correttezza di tale atto era stata confermata dal Tar del Lazio, il quale aveva altresì revocato l’ammissione del ricorrente al gratuito patrocinio per la manifesta infondatezza della domanda.
I giudici di Palazzo Spada constatano anzitutto che è intervenuta, da parte del Tribunale della sorveglianza, una pronuncia di riabilitazione; subito dopo essi osservano che il successivo provvedimento del Tar ravvisa in tale condanna, pur se non grave con riferimento alla pena edittale, un particolare disvalore rispetto ai principi fondamentali della convivenza all’interno dello Stato nonché posto a tutela anticipata della pubblica incolumità. Si tratta, però, ad avviso del Consiglio di Stato, di una motivazione “postuma”, del tutto assente nel provvedimento ministeriale, che non aveva fatto alcun cenno a tale particolare disvalore, ma si era limitato a constatare in modo meccanicistico, pur a fronte del fatto storico di reato e nonostante la intervenuta riabilitazione, la mancata coincidenza tra l’interesse pubblico e quello del richiedente alla concessione della cittadinanza italiana.
Per di più, la sentenza del Tar, nella sua rigidità preclusiva, non appare condivisibile nemmeno nel merito, quanto alla concreta valutazione di tale fatto, perché la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope, pur costituendo una condotta illecita rispettivamente sanzionata a livello contravvenzionale dagli artt. 186 e 187 del codice della strada, non può ritenersi in sé ostativa al riconoscimento della cittadinanza, soprattutto ove sia intervenuta riabilitazione, se la condotta, per le concrete modalità della condotta stessa e per tutte le circostanze del caso, non denoti un effettivo sprezzo delle più elementari regole di civiltà giuridica, ma costituisca un isolato episodio, non ascrivibile a un deliberato e pervicace atteggiamento antisociale o ad una ostinata, ostentata, ribellione alle regole dell’ordinamento.
Le critiche si appuntano poi sulla valutazione operata dal Ministero dell’interno al quale viene ricordato che, laddove chiamato ad effettuare una delicata valutazione in ordine alla effettiva e complessiva integrazione dello straniero nella società, esso non può limitarsi, pur nel suo ampio apprezzamento discrezionale, ad un giudizio sommario, superficiale ed incompleto, ristretto alla mera considerazione di un fatto risalente (per quanto sanzionato penalmente), senza contestualizzarlo all’interno di una più ampia e bilanciata disamina che tenga conto dei suoi legami familiari, della sua attività lavorativa, del suo reale radicamento nel territorio e della sua complessiva condotta.
Insomma, al di là delle ipotesi ostative, contemplate dall’art. 6, l. 91/92 sull’acquisto della cittadinanza per matrimonio, non è possibile esigere dallo straniero, per riconoscergli la cittadinanza, un quantum di moralità superiore a quella posseduta mediamente dalla collettività nazionale in un dato momento storico, sicché il giudizio sulla integrazione sociale dello straniero non può ispirarsi ad un criterio di assoluta irreprensibilità morale, nella forma dello status illesae dignitatis, o di impeccabilità sociale, del tutto antistorico prima che irrealistico e, perciò, umanamente inesigibile da chiunque, straniero o cittadino che sia.
Dopo aver ulteriormente ed ampiamente insistito sulla conseguente irragionevole chiusura della collettività nazionale all’ingresso di soggetti che, pur avendo tutti i requisiti per ottenere la cittadinanza, si vedono privare di questo legittimo interesse per mere fattispecie di sospetto, i giudici annullano quindi il provvedimento di diniego, salvi gli ulteriori provvedimenti della Pubblica Amministrazione, che dovrà rivalutare l’effettiva pericolosità dello straniero «senza preconcetti e immotivati apriorismi in presenza di una qualsivoglia condanna penale». La sentenza del Tar viene riformata anche nella parte in cui ha revocato l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
Ad un analogo atteggiamento di censura è ispirata una successiva decisione del Consiglio di Stato, la quale richiama la sentenza testé esaminata; la nuova pronuncia trae origine dal mancato acquisto della cittadinanza per naturalizzazione a causa di una condanna per incauto acquisto ex art. 712 c.p. di un computer da un soggetto sconosciuto, poi risultato oggetto di furto, cui era conseguito il pagamento di un’ammenda da parte dell’istante (Cons. St., sez. III, sent. 14.5.2019 n. 3121). Il Ministero aveva ravvisato in tale fattispecie una non compiuta integrazione dello straniero nella comunità nazionale e una conseguente dissociazione tra l’interesse pubblico e quello del richiedente al conseguimento dello status civitatis italiano.
Dal canto suo, il Tar aveva respinto il corrispondente ricorso motivando che tale comportamento ben poteva essere considerato come indicativo di una personalità non incline al rispetto delle norme penali e delle regole di civile convivenza; ed aveva ancora una volta evocato la valutazione ampiamente discrezionale dell’atto di diniego, rispetto alla quale il controllo demandato al giudice, avendo natura estrinseca e formale, non può spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell’esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole.
I giudici di Palazzo Spada mostrano pure in questa occasione il loro disaccordo rispetto al contenuto dell’atto di rifiuto e della sentenza, anche se dapprima non esitano a richiamare ampiamente la discrezionalità del giudizio sottostante, il potere valutativo circa l’avvenuta integrazione dello straniero nella comunità nazionale, la possibile esplicazione in termini sintetici dell’onere della motivazione. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che i giudici si soffermano sottolineando che il parametro della “motivazione sufficiente” non ha carattere rigido né assoluto e che risulta ineludibile la distinzione tra motivazione del provvedimento di diniego (la cui estensione, ai fini della valutazione della sua sufficienza in concreto, deve essere perimetrata alla stregua dei principi che precedono) e sindacato di legittimità secondo il paradigma dell’eccesso di potere, al cui esercizio concorrono tutti gli elementi istruttori acquisiti ed acquisibili, anche nell’esercizio dei poteri istruttori spettanti al giudice amministrativo oppure nel quadro dell’esercizio del diritto di accesso agli atti da parte dell’interessato.
Da qui la prima censura al provvedimento ministeriale il quale non fa alcun cenno né al particolare disvalore della condotta sanzionata rispetto ai principî fondamentali della convivenza sociale e alla tutela anticipata della incolumità pubblica; né alla condizione sociale dello straniero, limitandosi a constatare in modo meccanicistico, a fronte del fatto storico di reato e nonostante la intervenuta estinzione, la mancata coincidenza tra l’interesse pubblico e quello del richiedente alla concessione della cittadinanza italiana.
Quanto alla gravità dell’illecito, l’incauto acquisto era avvenuto con modalità che connotano di oggettiva lievità la contravvenzione; inoltre, nell’immediatezza della contestazione il ricorrente aveva tenuto una condotta pienamente collaborativa con l’autorità inquirente, presentandosi subito agli uffici della polizia postale e riconsegnando l’oggetto acquistato; infine, l’istante non annoverava altri precedenti pregiudizievoli o fatti di rilievo in grado di macchiarne la condotta civile. Dunque, il Ministero non poteva esimersi da una considerazione in concreto della condotta sanzionata, delle sue modalità, del suo effettivo disvalore come anche della personalità del soggetto.
Per di più, riguardo all’atteggiamento del Tar, non viene condivisa la tesi relativa alla ineliminabile “storicità” della condanna e dell’illecito dell’appellante, in quanto tale principio, in sé corretto, non esaurisce la complessità della questione fatta constare nei suoi elementi essenziali nel corso del procedimento e prima che intervenisse il diniego.
Il Ministero dell’interno viene perciò chiamato a rivalutare se il comportamento dello straniero, alla luce delle concrete modalità del fatto contravvenzionale in ordine al quale è intervenuta estinzione, sia concretamente indice di un mancato inserimento sociale; o se viceversa tale comportamento, alla luce della condotta di vita, della permanenza sul territorio nazionale, dei legami familiari, dell’attività lavorativa e di tutti gli elementi ritenuti rilevanti a tal fine, non debba reputarsi insufficiente a denotare quella mancata adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento giuridico che preclude la concessione della cittadinanza.
Di tutt’altra origine e contenuto appare invece un’ulteriore sentenza del Consiglio di Stato, chiamato a decidere in merito ad una class action intentata da un gruppo di cittadini stranieri e da alcune associazioni contro il Ministero dell’interno che lamentavano i gravissimi ritardi nella istruzione delle pratiche e nella definizione dei procedimenti di naturalizzazione (Cons. St., sez. III, sent. 27.2.2019 n. 1390). Si tratta di una decisione assai estesa della quale si possono solo ricordare i passaggi maggiormente qualificanti. Occorre comunque rilevare, da un lato, che essa trae origine dall’appello proposto dal Ministero dell’interno contro la sentenza n. 2257/2014 del Tar Lazio, che lo aveva condannato a porre rimedio alla violazione generalizzata dei termini di conclusione del procedimento sulle diverse istanze di rilascio della concessione della cittadinanza italiana. Dall’altro lato, è intervenuto nel frattempo l’art. 14, co. 2, d.l. 4.10.2018, n. 113, che ha esteso a quattro anni i termini suddetti.
Il Consiglio di Stato respinge anzitutto il primo gravame dichiarando l’ammissibilità della class action amministrativa anche nel settore qui considerato, a seguito di un dettagliato esame dell’art. 1, co. 1, d.lgs. 198/2009, pur ricordando da subito che il co. 1-bis e l’art. 4 prevedono che il giudice, quand’anche accolga la domanda e ordini alla Pubblica Amministrazione di porre rimedio ad una situazione illegittima entro un congruo termine, deve pur sempre circoscrivere la sua statuizione «nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» (come del resto aveva affermato lo steso Tar del Lazio nella decisione appellata).
Ed è proprio su questi limiti che risulta imperniata la presente decisione. Vengono infatti accolte e condivise tutte le ragioni fatte valere dal Ministero dell’interno a giustificazione dei ritardi suddetti. In particolare, i giudici di Palazzo Spada insistono molto, da un lato, sulla constatazione relativa alla mancata assegnazione di maggiori risorse al Ministero suddetto, negli anni per cui è causa (2013-2016), e quindi sulla responsabilità esclusiva delle scelte attuate in capo al Parlamento e alle forze politiche di maggioranza.
Per di più, a fronte del numero esponenziale delle istanze ed alla diminuzione del personale addetto, viene riconosciuto che il Ministero ha comunque incrementato del doppio le istruttorie concluse, per cui i ritardi in questione appaiono assolutamente irrilevanti nell’ottica particolare considerata dall’art. 1, d.lgs. 198/2009.
Dall’altro lato, vengono inoltre apprezzate le nuove misure organizzative adottate, quali ad esempio l’ultimazione del processo di informatizzazione dei procedimenti in materia di cittadinanza (che permette ai soggetti interessati di compilare e inoltrare le domande avvalendosi dei sistemi informatici) o il decentramento alle prefetture della competenza a decidere sulle istanze di cittadinanza iure matrimonii, salve le ipotesi di sussistenza di cause relative alla sicurezza della Repubblica, o ancora l’attivazione del collegamento informatico con il Casellario giudiziale.
Meno convincente, a nostro avviso, appare invece l’argomento secondo cui l’accertamento della inesistenza di fattori ostativi e della esclusione di possibili appartenenze ad organizzazioni eversive ovvero di pericoli per la sicurezza dello Stato risultava in passato maggiormente complesso in relazione alla circostanza che, in base alla normativa in vigore all’epoca dei fatti in giudizio, la cittadinanza, una volta concessa, era irrevocabile.

Vengono così respinti gli appelli incidentali proposti dai gruppi di cittadini e la loro richiesta di un vaglio di legittimità costituzionale del d.l. 113/2018 per contrarietà all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, perché tale esame inciderebbe in modo imprevedibile e illegittimo su una controversia in corso, violando così il diritto ad un processo equo. A tale proposito infatti il Consiglio di Stato afferma, in modo del tutto condivisibile, che le nuove norme non concernono direttamente la vicenda processuale sottoposta al suo esame, ma potrebbero eventualmente avere un rilievo in sede di singoli specifici futuri giudizi.

Accertamento dell’apolidia. Novero degli Stati da esaminare ai fini della mancanza di cittadinanza
Riaffiorano con una certa costanza temporale le richieste di accertamento dello status di apolide formulate da soggetti coinvolti nelle vicende che hanno portato alla dissoluzione della ex Repubblica federale yugoslava. Com’è noto, la dissoluzione di quest’ultima e le conseguenti leggi sulla cittadinanza degli Stati che sono subentrati a ad essa hanno creato non poche situazioni di apolidia per coloro che si erano allontanati dai territori di origine. Tali situazioni si rivelano ancor più complesse allorché manchi la documentazione necessaria per la dichiarazione di apolidia, ovvero l’atto di nascita e il certificato di residenza. La soluzione di questi problemi ha formato l’oggetto di una dettagliata sentenza, relativa ad un caso in cui l’attrice non possedeva neppure il certificato di nascita ( Trib.Brescia, ord. 7.1.2019 n. 118 ). In effetti, la madre, pur condannata in sede penale per tale omissione, neppure a seguito di tale condanna aveva provveduto a tale incombenza.
Il Tribunale procede quindi, in primo luogo, ad accertare tale fatto storico, in base ad una serie di prove, fornite anche con la collaborazione della madre stessa e degli addetti al parto, al fine di sopperire alla mancanza dell’atto di nascita e del certificato di residenza. Vengono poi ampiamente richiamate le motivazioni sottese ad una sentenza della Cassazione in materia (Cass., sent.24.11.2017 n. 28153, esaminata nella presente Rassegna, fasc. 4/2017). In particolare, vengono riprese le considerazioni svolte dalla Suprema Corte attinenti sia alla Convenzione delle Nazioni Unite del 28/9/1954 sullo stato degli apolidi sia alle successive «Linee guida in materia di apolidia» elaborate dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR); ma viene soprattutto evidenziato il principio di diritto secondo cui il richiedente è tenuto ad allegare specificamente di non possedere la cittadinanza dello Stato o degli Stati con cui intrattenga o abbia intrattenuto legami significativi, e di non essere nelle condizioni giuridiche e/o fattuali di ottenerne il riconoscimento alla luce dei sistemi normativi applicabili, operando il principio dell’attenuazione dell’onere della prova ed il conseguente obbligo di cooperazione istruttoria officiosa del giudice.
Sotto quest’ultimo profilo, anche a fronte della situazione giuridica della madre rimasta priva della cittadinanza originaria per essere espatriata assai prima della dissoluzione della Yugoslavia senza farvi più ritorno, ed avendo accertato che l’attrice, alla quale perciò non è stata “trasmessa” alcuna cittadinanza né mostra collegamenti con altri Stati diversi da quello italiano, viene dichiarata l’apolidia di quest’ultima.
Nel dispositivo il Tribunale dichiara correttamente improcedibile la domanda di permesso di soggiorno per apolidia. Si noti che, una volta ottenuto tale permesso, la ricorrente potrà chiedere la cittadinanza italiana per naturalizzazione fruendo della riduzione da dieci a cinque anni del periodo di residenza, come previsto dall’art. 9, co. 1 lett. e, l. 91/92.