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Fascicolo 2, Luglio 2019


«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

(Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1978)

 

Rassegna di giurisprudenza europea: Corte europea dei diritti umani

Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti *
Nel periodo in esame, la Corte Edu si è pronunciata su ricorsi riguardanti l’art. 3 Cedu, relativo al divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, sotto due diversi profili:
a) Non-refoulement
Il caso G.S. c. Bulgaria (Corte Edu, sentenza del 4.04.2019) riguarda un cittadino iraniano, accusato di truffa nel suo Paese, che lamenta una violazione dell’art. 3 Cedu nel caso in cui le autorità bulgare procedessero con il suo allontanamento.
Le corti interne si erano pronunciate favorevolmente in merito alla richiesta di estradizione inviata dall’Iran. Tuttavia, se avevano ritenuto sufficienti le garanzie fornite dalle autorità iraniane sul fatto che il ricorrente non sarebbe stato esposto a tortura o trattamenti inumani o degradanti, esse non avevano approfondito il contenuto della pena prevista in Iran per i reati di cui il ricorrente risultava accusato. La Corte Edu nota come, oltre la detenzione, la pena massima prevista in Iran per tali reati consiste in 74 frustate. Poiché un trattamento siffatto ammonta a tortura, a suo avviso occorre verificare se il sig. G.S. corra effettivamente il rischio di essere esposto a tale pena in caso in cui venisse data esecuzione al suo allontanamento. A tal fine, basandosi sui rapporti internazionali disponibili, la Corte Edu nota come la fustigazione sia una pratica comune in Iran per un ampio numero di reati (ad esempio, Report to the Human Rights Council of the second Special Rapporteur on the situation of human rights in Iran, 2018, A/HRC/37/68) e che alcun elemento specifico sia stato avanzato dallo Stato convenuto per ritenere che il ricorrente non possa essere effettivamente condannato, oltre alla detenzione, anche alla fustigazione. A tal fine, la Corte Edu precisa come le assicurazioni fornite dall’Iran non siano di per sè sufficienti. Infatti, non solo si tratta di garanzie formulate in modo stereotipato e che non riportano l’esatta pena prevista in quel Paese in caso di condanna del ricorrente. Soprattutto, per la Corte appare rilevante come le punizioni corporali siano parte integrante della tradizione giuridica iraniana, che risulta difesa anche a livello internazionale come, peraltro, dimostra la mancata adesione alla Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite. In un contesto simile, appare particolarmente difficile dare credito a garanzie diplomatiche, alla luce della difficoltà di procedere a un monitoraggio effettivo della situazione del ricorrente una volta rientrato in Iran. Pertanto, l’allontanamento del ricorrente darebbe origine a una violazione dell’art. 3 Cedu.
Il caso A.M. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 29.04.2019) riguarda un cittadino algerino che veniva condannato in Francia per aver partecipato alla preparazione di un attentato terroristico con contestuale interdizione permanente dal territorio francese. Ritenendo che il ricorrente fosse in contatto con l’organizzazione terroristica Al-Qaïda au Maghreb islamique (AQMI), per la quale recrutava nuovi membri, in vista della sua liberazione le autorità francesi ne ordinavano l’allontanamento. Il sig. A.M. ricorreva invano contro tale decisione temendo di poter subire, in Algeria, torture o trattamenti inumani o degradanti in violazione dell’art. 3 Cedu. Anche la sua domanda di asilo veniva rigettata. Pur sottolineando la gravità della minaccia posta oggi dal terrorismo internazionale e le difficoltà cui sono chiamati gli Stati per fronteggiarla in modo effettivo, la Corte Edu ricorda la natura assoluta del divieto di refoulement e il rifiuto dei trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu quale espressione di uno dei valori fondamentali delle società democratiche (cfr. Corte Edu, 19.04.2018, A.S. c. Francia, in questa Rivista, XX, 2, 2018; Ead., 7.11.2017, X c. Germania, dec., in questa Rivista, XX, 1, 2018). Concentrandosi sull’esistenza di ragioni serie per ritenere che il ricorrente possa effettivamente essere esposto a tortura o trattamenti inumani o degradanti in Algeria, la Corte Edu nota come i rapporti internazionali disponibili sul trattamento riservato in quel Paese ai condannati per terrorismo non siano unanimi (cfr. Corte Edu, 1.02.2018, M.A. c. France, in questa Rivista, XX, 2, 2018). Tuttavia, risulta pacifico che, dal 2015, l’Algeria abbia introdotto alcune riforme costituzionali volte a rafforzare la tutela dei diritti e delle libertà individuali e che le forze di sicurezza ricevano oggi formazioni specifiche in materia di diritti umani. Inoltre, nè il ricorrente ha avanzato casi di persone che trovandosi nella sua stessa situazione siano poi stati sottoposti a trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu, nè si può affermare che le persone rinviate negli ultimi anni dal Governo francese per motivi legati al terrorismo abbiano lamentato di aver subito siffatti trattamenti. Tra l’altro, appare significativo per la Corte che alcune Corti nazionali degli Stati parte abbiano ritenuto inesistente il rischio lamentato dal ricorrente dando seguito ad allontanamenti veros l’Algeria (cfr. Corte amministrativa federale tedesca, 27 marzo 2018). A questi elementi generali, si aggiungono le circostanze specifiche del ricorrente. Tra queste, la Corte Edu attribuisce particolare importanza al fatto che il sig. A.M. non ha fornito copia del presunto mandato di arresto emesso dalle autorità algerine nei suoi confronti, che non sussisterebbero processi nei suoi confronti in Algeria, come confermato dal Governo francese, che l’AQMI è stata smantellata senza che il ricorrente sia stato considerato come una figura di spicco dell’organizzazione e che l’Algeria non ha mai chiesto la sua estradizione pur essendo a conoscenza della sua situazione personale. Pertanto, anche in assenza di garanzie diplomatiche fornite dal Governo algerino in merito al trattamento del ricorrente una volta allontanato, tutte queste considerazioni fanno concludere la Corte Edu che l’allontanamento del sig. A.M. non darebbe luogo a una violazione dell’art. 3 Cedu.
b) Condizioni materiali
Il caso Khan c. Francia (Corte Edu, sentenza del 28.02.2019) riguarda un minore non accompagnato afghano di dodici anni che lamenta una violazione dell’art. 3 Cedu in ragione delle carenze relative alla presa in carico dalle autorità francesi prima e durante lo smantellamento del campo di Calais nel 2016, nonchè delle conseguenze di tale smantellamento nei suoi confronti. Giunto a Calais, dove era stanziato in attesa di raggiungere il Regno Unito, il ricorrente era stato segnalato alle autorità da una ONG e, subito dopo, affidato dal Tribunale competente a una comunità familiare. Ciononostante, nessuna misura concreta veniva intrapresa per garantire l’esecuzione di tale decisione. Di conseguenza, dopo lo smantellamento del campo di Calais, la sua situazione diveniva ancora più precaria fino a quando, poco dopo, riusciva a entrare clandestinamente in Regno Unito. Dopo aver rigettato le eccezioni di ammissibilità sul mancato esaurimento dei ricorsi interni e aver precisato che la tutela del minore privato del suo ambiente familiare si impone d’ufficio alla Francia in ragione della sua appartenenza alla Convenzione sui diritti dell’infanzia delle Nazioni Unite, la Corte Edu ricorda la particolare condizione di vulnerabilità dei minori che migrano con o senza la loro famiglia (cfr. Corte Edu, 24.05.2018, N.T.P. e altri c. Francia, in questa Rivista, XX, 3, 2018; Ead., 5.04.2011, Rahimi c. Grecia). Tenuto conto delle informazioni ampiamente documentate sulle condizioni del campo di Calais, che mostrano come all’epoca dei fatti le autorità distribuissero solo 2.500 pasti al giorno per 6.000 persone presenti nell’area e che tali persone vivevano in sistemazioni promiscue di fortuna e in pessime condizioni igieniche (cfr. anche Consiglio di Stato francese, ordinanza 23.11.2015), la Corte Edu osserva come la situazione sia ulteriormente peggiorata dopo il relativo smantellamento. Le persone presenti nell’area si erano infatti spostate a nord senza ricevere un sostegno adeguato da parte delle autorità competenti e il rischio per i minori non accompagnati di essere esposti anche a violenze fisiche o sessuali era sensibilmente aumentato. Appare dunque evidente per la Corte che il ricorrente abbia vissuto, per un periodo totale di sei mesi, in condizioni non adatte alla sua condizione di minore. Peraltro, essa non solo rigetta le argomentazioni del Governo francese per cui sarebbe stato lo stesso ricorrente a non presentarsi alla comunità familiare alla quale era stato affidato ma fa anche notare che solo l’intervento della ONG aveva permesso al minore di essere identificato come bisognoso di tutela, a dimostrazione delle carenze sistematiche osservate nell’area di Calais (cfr. anche Segretario generale del Consiglio d’Europa sui migranti e rifugiati, Rapport de la mission d’information sur la situation des migrants et des réfugiés à Calais et à Grande-Synthe – France, 12.10.2016). Pertanto, data l’inerzia delle autorità francesi, il ricorrente si è trovato in una situazione che, raggiungendo il livello minimo di gravità richiesto dall’art. 3 Cedu, ammonta a un trattamento degradante. Vi è stata quindi una violazione di tale disposizione.
Nel caso H.A. e altri c. Grecia (Corte Edu, sentenza del 28.02.2019) nove minori non accompagnati, di varie nazionalità, lamentano diverse violazioni degli artt. 3, 5 e 13 Cedu in relazione al trattenimento subito immediatamente dopo il loro arrivo in Grecia. In particolare, i ricorrenti venivano collocati in vari locali di polizia (Axioupoli, Kilkis, Plykastro) in virtù di una normativa interna volta a garantire loro una ‘tutela’ (cd. “garde protectrice”) in assenza di strutture di accoglienza per minori e, successivamente, trasferiti in una vecchia caserma, trasformata nel centro di accoglienza di Diavata, in cui era stata creata una sezione speciale per minori non accompagnati. Durante la permanenza nel posto di polizia di Kilkis, inoltre, due dei ricorrenti denunciavano di avere anche subito violenze fisiche. Tutti i ricorsi, tanto in merito alle condizioni di trattenimento nei locali di polizia e nel centro di Diavata quanto agli abusi, e le inchieste avviate dalle autorità greche si concludevano a sfavore dei ricorrenti. La Corte Edu ricorda, innanzitutto, di aver già ritenuto che, al di là delle particolari condizioni materiali, i locali di polizia non sono adatti al trattenimento di persone per lunghi periodi e, di conseguenza, la soglia di gravità prevista dall’art. 3 Cedu può facilmente essere raggiunta (ad esempio, Corte Edu, 21.06.2018, S.Z. c. Grecia, in questa Rivista, XX, 3, 2018). Nel caso dei ricorrenti, non solo il loro trattenimento nelle varie caserme ha avuto una durata significativa (tra 20 e 33 giorni) ma, soprattutto, queste strutture non risultano adatte alla loro particolare condizione di vulnerabilità, di certo aggravata anche dall’impossibilità di accedere al mondo esterno per tutto il periodo. Secondo la Corte, questa conclusione non può essere rimessa in discussione dalle argomentazioni dello Stato convenuto basate sulla necessità di fornire una tutela ai minori non accompagnati data la carenza di strutture appropriate. Pertanto, richiamando anche le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) che invitavano la Grecia a collocare i minori in strutture provvisorie anzichè nelle caserme della polizia (CPT, Observations préliminaires à la suite de sa visite en Grèce du 10 au 18 avril 2018, 2018), vi è stata una violazione dell’art. 3 Cedu. Quanto al centro di Diavata, invece, la Corte si sofferma su due particolari aspetti. Da un lato, se è vero che le condizioni fossero precarie, si trattava comunque di un centro aperto in cui, tra l’altro, erano stati previsti alcuni servizi per minori non accompagnati. Dall’altro, nel periodo in cui i ricorrenti erano arrivati in Europa, la Grecia si trovava a fronteggiare un flusso massiccio di migranti, compresi molti minori non accompagnati, che ha comportato l’adozione di misure urgenti (cfr., nel caso dell’Italia, Corte Edu, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Pertanto, in relazione al trattenimento nel centro di Diavata, le condizioni riservate ai ricorrenti non hanno oltrepassato la soglia di gravità prevista dall’art. 3 Cedu. Invece, considerata l’impossibilità dei ricorrenti di accedere a un ricorso effettivo per lamentare tali condizioni di trattenimento, non potendosi considerare tale l’istanza presentata al procuratore competente cassata dopo sei mesi senza alcun approfondimento, nei loro confronti vi è stata una violazione dell’art. 13, relativo al diritto a un ricorso effettivo, letto in combinato con l’art. 3 Cedu. Infine, dopo aver ritenuto infondata la lamentata violazione dell’art. 3 letto sotto il profilo sostanziale per i maltrattamenti subiti da due ricorrenti per mancanza di indizi sufficientemente gravi, precisi e concordanti, la Corte si pronuncia anche per una violazione dell’art. 5, para. 1, perchè il trattenimento dei ricorrenti nei locali di polizia non può ritenersi regolare ai sensi della Cedu essendo stato deciso autonaticamente e senza cercare soluzioni di accoglienza alternative in linea con il principio del preminente interesse del minore. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 5, para. 4, Cedu poichè risultava impossibile ai ricorrenti contestare la legittimità del loro trattenimento non essendo stata loro notificata alcuna decisione in merito al trattenimento subito e data anche l’assenza di supporti legali o di contatti con i rispettivi tutori.

Il caso Haghilo c. Cipro (Corte Edu, sentenza del 26.03.2019) riguarda un cittadino iraniano che, giunto a Cipro, veniva arrestato dopo il tentativo di imbarcarsi su un volo per Londra con un passaporto falsificato e poi trattenuto in varie caserme di polizia (Famagusta, Paphos e Aradippou) in vista del suo allontanamento. Nell’ambito dei procedimenti relativi alla sua domanda di asilo, infine rigettata, veniva ritenuto insussistente anche il rischio di esporlo in Iran a torture o maltrattamenti vietati dall’art. 3 Cedu. Rilasciato dopo un ricorso volto a contestare la durata del suo trattenimento, che aveva raggiunto oltre i sei mesi previsti dalla normativa interna, veniva immediatamente riarrestato in quanto illegalmente presente sul territorio cipriota. In assenza di documenti utili per dare esecuzione all’allontanamento, il suo trattenimento veniva continuamente prolungato per essere infine rilasciato. Chiamata a esaminare una presunta violazione dell’art. 3 Cedu per le condizioni in cui il ricorrente era stato trattenuto nelle caserme, la Corte Edu si sofferma soprattutto sulla durata del trattenimento pari a oltre quindici mesi, sul mancato accesso ad aree esterne per tredici mesi consecutivi e sul limitato spazio personale a suo disposizione in alcuni locali di polizia. Per queste ragioni e tenuto conto anche delle conclusioni del CPT sulle sue visite a Cipro (cfr. rapporti CPT del 2012 e 2014), per le quali tali locali potevano ospitare detenuti solo per qualche giorno, la Corte ritiene che la sofferenza imposta al ricorrente è andata oltre quella dell’inevitabile sofferenza legata a una situazione di privazione della libertà. Pertanto, vi è stata violazione dell’art. 3 Cedu. Inoltre, considerato che lo stesso Stato convenuto ha confermato che il prolungamento del trattenimento del ricorrente oltre i sei mesi iniziali non aveva alcuna base giuridica nella normativa vigente all’epoca dei fatti, vi è stata anche una violazione dell’art. 5, para. 1, relativo al diritto alla libertà e alla sicurezza.

Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza
Con il caso V.M. c. Regno Unito (n. 2) (Corte Edu, sentenza del 25.04.2019) la Corte Edu torna a pronunciarsi sulla violazione dell’art. 5 Cedu lamentata da una cittadina nigeriana, con problemi di salute mentale, per la detenzione subita in vista del suo allontanamento della durata totale di 2 anni, 10 mesi e 27 giorni. Considerato che la Corte Edu aveva già esaminato tale detenzione per buona parte del periodo iniziale in V.M. c. Regno Unito (Corte Edu, 1.09.2016, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), ritenendola arbitraria, in questo secondo ricorso essa é chiamata a verificare la compatibilità con la Cedu degli ultimi undici mesi di trattenimento. In tale periodo, la ricorrente era stata visitata da una psicologa che, certificando il suo precario stato di salute, ne raccomandava il rilascio al fine di garantirle le cure necessarie. Questo rapporto non veniva però adeguatamente considerato nell’ambito dei riesami periodici condotti dalle autorità britanniche competenti e la ricorrente veniva ancora trattenuta per un periodo pari a quattro mesi. Per questa ragione, la sig.ra V.M. sosteneva dinanzi i giudici interni che il suo trattenimento, ancorché legittimo, risultava arbitrario. In tal senso, si pronunciava anche la Corte Suprema inglese per la quale il trattenimento della ricorrente, a partire dal primo riesame periodico successivo al rapporto presentato dalla psicologa, non risultava conforme alle procedure previste dalla normativa interna applicabile. Non rimettendo in discussione la conclusione raggiunta dai giudici interni, la Corte Edu ritiene di dover verificare se la ricorrente abbia ottenuto un adeguato risarcimento per la detenzione ingiustamente subita. A tal fine, essa nota come gli stessi giudici interni avessero accettato l’argomentazione del Governo per il quale, dato il “breve” periodo controverso, non si poteva comunque ragionevolmente rilasciare la ricorrente prima dell’effettiva liberazione anche qualora il rapporto medico fosse stato prontamente considerato. La Corte Edu, invece, ritiene di non poter accogliere siffatte argomentazioni perché, anche se alcuni ritardi sono inevitabili nel rilascio di una persona privata della sua libertà, gli Stati parte devono attivarsi velocemente per evitare ingiusti trattenimenti. Ciò risulta particolamente vero per coloro che, come la ricorrente, risultano già trattenuti da tempo e presentano particolari elementi di vulnerabilità, come problemi di salute mentale. Pertanto, nel caso del sig.ra V.M., anche rispetto all’ultimo periodo di trattenimento vi é stata una violazione dell’art. 5, para. 1, Cedu.
In O.S.A. e altri c. Grecia (Corte Edu, sentenza del 21.03.2019) quattro cittadini afghani, giunti nell’isola di Chio, venivano trattenuti in vista del loro allontanamento. Le relative decisioni, contenenti informazioni su come presentare eventuali ricorsi, venivano notificate loro in greco. Secondo lo Stato convenuto, veniva consegnata loro anche una brochure redatta in una lingua comprensibile in cui venivano spiegate le ragioni del trattenimento e i diritti loro spettanti. Su tali basi, i ricorrenti lamentavano dinanzi la Corte Edu di aver subito una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza, in particolare del diritto di ricorrere contro il trattenimento subito ai sensi del para. 4 dell’art. 5 Cedu. Rigettando in parte le eccezioni di ammissibilità, la Corte Edu verifica che i ricorrenti abbiano effettivamente subito una restrizione della loro libertà personale. A tal fine, appare rilevante che il centro in cui erano stati trattenuti in attesa del loro allontanamento – l’hotspot di Vial – sia stato trasformato in un centro semi-aperto poco dopo il loro arrivo, concedendo agli ospiti la possibilità di uscire liberamente durante il giorno per poi rientrare la notte. Per questa ragione, solo il periodo di trattenimento che va dalla notifica dell’ordine di detenzione e allontanamento al momento in cui il centro di Vial subisce tale trasformazione, pari a circa un mese, viene considerato dalla Corte Edu un’effettiva privazione della libertà ai sensi dell’art. 5 Cedu. Ciò detto, venendo al merito della lamentata violazione dell’art. 5, para. 4, la Corte ricorda come, in seguito alle riforme introdotte, l’ordinamento greco prevede in linea di principio un ricorso effettivo attraverso cui persone come i ricorrenti possano contestare la legittimità del loro trattenimento. Tuttavia, nel caso dei ricorrenti, alcuni ostacoli di ordine pratico rendevano particolarmente difficile esercitare tale diritto. Tra questi, la Corte Edu ricorda le difficoltà di comprendere gli atti notificati in greco e le nozioni di ordine giuridico presentate nella brochure, il tutto aggravato dall’assenza nel centro di Vial di un supporto legale adeguato come confermano i rapporti internazionali disponibili (cfr. Corte Edu, 25.01.2018, J.R. e altri c. Grecia, in questa Rivista, XX, 2, 2018). Gli stessi documenti consegnati ai ricorrenti non contenevano poi l’indicazione esatta del giudice cui presentare un eventuale ricorso, rendendone quindi l’accesso di fatto ineffettivo. Per queste ragioni, vi é stata una violazione dell’art. 5, para. 4, Cedu. Quanto alla lamentata violazione dell’art. 3 Cedu per le condizioni materiali del centro di Vial durante il loro trattenimento, la Corte Edu presta particolare attenzione alle conclusioni del CPT in seguito alle visite effettuate nelle isole greche, dalle quali non si riscontra una situazione così grave da esporre i ricorrenti al rischio di subire trattamenti inumani o degradanti (Rapporto CPT del 26.09.2017). Pertanto, anche alla luce del breve periodo di privazione della libertà subito dai ricorrenti, non vi è stata violazione dell’art. 3 Cedu.

Nel caso Aboya Boa Jean c. Malta (Corte Edu, sentenza del 2.04.2019), un richiedente asilo della Costa d’Avorio, dichiaratosi già rifugiato in Armenia, lamenta una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza per il trattenimento subito dopo il suo ingresso a Malta. Le autorità maltesi avevano ritenuto necessario tale trattenimento a causa del pericolo di fuga generato, in particolare, dal possesso di documenti di identità italiani falsificati, e per permettergli di raccogliere la documentazione necessaria per provare la sua identità e per chiedere asilo. Il ricorso presentato dal sig. Aboya Boa Jean per contestare l’arbitrarietà del trattenimento veniva rigettato. La Corte Edu nota, innanzitutto, come il ricorrente non sia mai stato autorizzato a permanere nell’isola. Pertanto, il suo caso ricade certamente nell’ambito dell’art. 5, para. 1, lett. f), che come noto consente agli Stati parte di limitare la libertà personale degli stranieri quando necessaria per prevenire l’ingresso non autorizzato o in vista del loro allontanamento. Passando alla valutazione della lamentata arbitrarietà del trattenimento, la Corte Edu considera che, nel caso del sig. Aboya, gli unici elementi a disposizione delle autorità maltesi giustificavano l’adozione di tale misura. Vista anche l’adeguatezza dei locali in cui il trattenimento è avvenuto e la relativa brevità di tale privazione della libertà personale (circa due mesi), non si può affermare che lo Stato convenuto non abbia agito in buona fede e che sia andato al di là di quanto necessario per raggiungere gli scopi perseguiti. Pertanto, nel caso del ricorrente, non vi è stata alcuna violazione dell’art. 5, para. 1. Parimenti, le lamentate irregolarità nell’esercizio del diritto di ricorrere contro il trattenimento subito non sono state considerate irragionevoli dalla Corte Edu. Infatti, per quanto il primo esame della situazione del richiedente non sia avvenuta, per ragioni pratiche, entro i primi sette giorni previsti dalla normativa interna, tale esame è stato comunque condotto entro i tempi massimi previsti dalla stessa, ovvero 25 giorni feriali. Quindi, non vi è stata nemmeno violazione dell’art. 5, para. 4.

Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare
Il caso I.M. c. Svizzera (Corte Edu, sentenza del 9.04.2019) riguarda un richiedente asilo originario del Kosovo che nel 1993, pur vedendosi rigettata la propria richiesta di protezione internazionale, otteneva un permesso di soggiorno temporaneo. Qualche anno dopo, veniva condannato per crimini a sfondo sessuale con contestuale ordine di espulsione. Di fatto, anche in virtù di un lungo procedimento giudiziario, l’allontanamento non veniva effettuato. Nel corso degli anni seguenti, il ricorrente veniva raggiunto in Svizzera dai propri figli e, in ragione del suo precario stato di salute, otteneva una pensione di invalidità totale. Nel 2015 il Tribunale amministrativo federale ne ordinava, tuttavia, l’allontanamento sulla base delle condanne subite nel passato ritenendo che l’esecuzione di tale decisione non comportasse alcuna violazione della Cedu. A suo avviso, non solo l’eventuale interferenza con il diritto al rispetto della vita privata e familiare del ricorrente era giustificata dalla serietà dei reati commessi ma, alla luce della disponibilità di cure appropriate in Kosovo, l’allontanamento non lo esporebbe ad alcun trattamento inumano o degradante in conformità all’art. 3 Cedu. Concentrando l’esame del ricorso sulla lamentata violazione dell’art. 8 Cedu, la Corte Edu si sofferma innanzitutto sulla situazione particolare del sig. I.M. per stabilire che l’interferenza originata dall’eventuale allontanamento riguarda tanto il profilo relativo al rispetto della sua vita privata, quale lungo soggiornante con legami con la società di accoglienza che fanno parte della sua identità personale (cfr. Corte Edu, 13.10.2016, B.A.C. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), quanto la sua vita familiare. Infatti, diversamente da altri casi in cui la Corte Edu non ha ritenuto sussistente una vita familiare in ragione del solo rapporto tra un genitore e i figli adulti nel Paese di accoglienza (ad esempio, Corte Edu, 18.12.2018, Saber e Boughassal c. Spagna, in questa Rivista, XXI, 1, 2019), essa nota come il ricorrente dipenda totalmente dai suoi figli adulti in ragione del suo particolare stato di salute. Pertanto, nel valutare se l’interferenza nel godimento del diritto al rispetto della vita privata e familiare in caso di allontanamento sia conforme al para. 2 dell’art. 8 Cedu, la Corte Edu concorda con le autorità interne nel ritenere che essa sia prevista dalla legge e persegua un obiettivo legittimo. Non ritiene, invece, soddisfacente l’esame condotto dalle stesse autorità rispetto ai criteri stabiliti nella sua giurisprudenza (cfr. Corte Edu, 6.06.2013, Uner c. Svizzera, in questa Rivista, XV, 2013, 2, p. 89; Ead., 14.09.2017, Ndidi c. Regno Unito, in questa Rivista, XX, 1, 2018) per quanto riguarda la necessità di tale allontanamento in una società democratica. Infatti, nonostante la gravità delle condanne subite, le autorità interne avrebbero dovuto considerare che il ricorrente non aveva commesso ulteriori reati durante la sua successiva permanenza in Svizzera e che il suo stato di salute era nel frattempo notevolmente degenerato. Il Tribunale amministrativo federale non aveva tantomeno tenuto conto della natura dei legami familiari in Svizzera e delle relazioni esistenti con il Kosovo. Ciò fa dire alla Corte Edu che la Svizzera non ha sufficientemente dimostrato che l’interferenza del sig. I.M. sia realmente proporzionale rispetto al fine perseguito. Di conseguenza, se eseguito, il suo allontanamento darebbe origine a una violazione dell’art. 8 Cedu. 
Anche il caso Narjis c. Italia (Corte Edu, sentenza del 14.02.2019), relativo a un cittadino marocchino giunto in Italia nel 1989 tramite ricongiungimento familiare, riguarda una presunta violazione dell’art. 8 Cedu in seguito alla decisione di non rinnovargli il permesso di soggiorno e di allontanarlo nel suo Paese di origine in seguito alla commissione di gravi reati. La Corte Edu limita innanzitutto la valutazione del ricorso al profilo del rispetto della vita privata del sig. Narjis sulla base del suo lungo soggiorno in Italia, non ritenendo sussistente, come sosteneva invece il ricorrente, una vita familiare trattandosi di un uomo adulto, non sposato, senza figli, non dipendente dalla sua famiglia residente in Italia (cfr. giurisprudenza citata supra). Quanto alla conformità dell’interferenza generata dall’allontanamento con il para. 2 dell’art. 8 Cedu, la Corte Edu concorda poi con i giudici interni nel ritenere che esso sia previsto dalla legge e persegua un fine legittimo e si rimette all’esame condotto da questi ultimi in relazione alla valutazione della necessità di tale misura in una società democratica. Infatti, essa ricorda come non sia necessario sostituire il suo apprezzamento circa la proporzionalità di una siffatta interferenza quando i giudici interni hanno accuratamente esaminato i fatti in maniera assolutamente indipendente e imparziale e applicato la Convenzione in linea con i criteri stabiliti nella sua giurisprudenza, garantendo così un giusto equilibrio tra tutti gli interessi in gioco. Tenuto conto che i giudici italiani hanno adeguatamente valutato, oltre la gravità dei reati commessi, ogni aspetto della situazione del ricorrente prima di ordinarne l’allontanamento, compresi la durata del suo soggiorno e i suoi legami in Italia e in Marocco, la Corte Edu ritiene nel caso del sig. Narjis non vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu.

In Yeshtla c. Paesi Bassi (Corte Edu, decisione del 15.01.2019) una richiedente asilo originaria dell’Etiopia e naturalizzata olandese veniva raggiunta nei Paesi Bassi dal proprio figlio. Alla luce della posizione di soggiorno irregolare del figlio, oramai adulto, le autorità competenti comunicavano alla ricorrente di aver ricevuto impropriamente benefici sociali a sostegno dell’alloggio e ne ordinavano la restituzione. I ricorsi intentati a livello interno, basati sul mancato rispetto dell’art. 8 Cedu, venivano rigettati. Nel valutare la lamentata violazione di tale disposizione, la Corte Edu ricorda nuovamente come la relazione tra una madre e un figlio adulto non rientri nell’ambito del concetto di vita familiare protetto dall’art. 8 Cedu in assenza di particolari legami di dipendenza al di là di quelli affettivi (oltre alla giurisprudenza citata, cfr. Corte Edu, 18.11.2014, Senchishak c. Finlandia, in questa Rivista, XVI, 2, 2014). Se questo é vero per la situazione attuale della ricorrente, la Corte ritiene che nel loro caso sussisteva comunque una vita familiare al momento in cui era avvenuto il ricongiungimento tenuto conto che il figlio della sig.ra Yeshtla era ancora minorenne e, come tale, andava protetta. Ciononostante, non si può affermare che la negazione del beneficio sociale ammonti a un’interferenza nel godimento del rispetto di tale vita familiare. Infatti, se da un lato l’art. 8 Cedu non garantisce un diritto all’accesso a particolari benefici sociali o a uno specifico standard di vita, dall’altro la misura adottata dalle autorità olandesi non era certamente rivolta a rompere la relazione esistente tra madre e figlio ma unicamente a evitare che persone in posizione di soggiorno irregolare potessero, indirettamente, avvantaggiarsi di risorse destinate ai più bisognosi. Inoltre, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la distinzione introdotta tra persone regolamente residenti e coloro che non hanno un permesso di soggiorno irregolare ai fini dell’ottenimento di un sostegno economico per l’alloggio non può essere considerata un trattamento discriminatorio incompatibile con l’art. 14 Cedu, relativo al divieto di discriminazione, letto in combinato con l’art. 8. Infatti, guardando allo scopo perseguito dalla normativa interna, essa risulta giustificata da ragioni obiettive. Di conseguenza, il ricorso é stato rigettato dalla Corte Edu in quanto manifestamente infondato.

Art. 14: Divieto di discriminazione
Con il caso Lingurar c. Romania (Corte Edu, sentenza del 16.04.2019) la Corte Edu torna a pronunciarsi sulla violazione degli artt. 3 e 14 Cedu lamentate da una famiglia di etnia Rom per le violenze subite dalla polizia nel quadro di un’operazione volta a verificare le accuse di furto di legname mosse nei confronti di uno dei ricorrenti (cfr. Corte Edu, 16.10.2018, Lingurar e altri c. Romania, in questa Rivista, XXI, 1, 2019). Nonostante le versioni contrastanti sull’accaduto tra le parti, i rapporti medici redatti in seguito all’operazione di polizia riportavano traumi e segni di violenza che potevano essere state originate da atti di aggressione. Nonostante l’avvio di indagini nei confronti di molti agenti coinvolti nell’operazione, ritenute peraltro lacunose dal giudice di primo grado, le autorità incaricate ritenevano di non dover procedere in giudizio perché le modalità di azione della polizia erano state sostanzialmente definite in ragione dell’alto tasso di criminalità e di aggressività rilevato nelle zone abitate da comunità di origine Rom. Se eventuali motivi basati sull’odio etnico venivano del tutto ignorati nel corso di tali procedimenti, si riteneva in ogni caso che le violenze subite dai ricorrenti durante l’operazione fossero dovute alla resistenza da loro opposta nei confronti della polizia. La Corte Edu si sofferma inizialmente sulla presunta violazione del divieto di tortura o trattamenti inumani o degradanti, ritenendo che gli abusi subiti dai ricorrenti durante l’operazione avevano raggiunto un livello di severità tale da rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 3 Cedu. Dati l’assenza di elementi che denotavano la pericolosità dei ricorrenti, i quali non erano stati nemmeno denunciati per oltraggio o resistenza alla polizia dopo l’accaduto, e l’impiego di un numero elevato di ufficiali altamente specializzati la cui capacità di azione era tale da non richiedere un particolare uso della forza, la Corte Edu ritiene che la polizia sia andata ben oltre quanto necessario per effettuare la propria operazione. Vi é stata quindi una violazione dell’art. 3 Cedu. A ciò si aggiunge una violazione del divieto di discriminazione, letto in combinato all’art. 3 sotto il profilo sostanziale, proprio perché tale uso eccessivo della forza e, più in generale, l’intera operazione sono stati espressamente fondati su visioni stereotipate della comunità Rom come criminale (in senso diverso, cfr. Corte Edu, 31.10.2017, M.F. c. Ungheria, in questa Rivista, XX, 1, 2018). Peraltro, tenendo conto del generale atteggiamento sociale nei confronti delle persone di etnia Rom in Romania e delle affermazioni riportate dalle autorità nel caso di specie, esistevano sufficienti indizi affinchè le autorità adottassero ogni misura necessaria per investigare l’esistenza di eventuali motivi d’odio alla base delle violenze subite dai ricorrenti. Tali indizi sono invece stati velocemente confutati, tanto dalle autorità investigative che dai giudici interni, venendo quindi meno agli obblighi positivi derivanti dal divieto di discriminazione letto in combinato al divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (Corte Edu, 27.01.2015, Ciorcan e altri c. Romania, in questa Rivista, XVII, 2, 2015, p. 125). Per queste ragioni, nel caso dei ricorrenti, vi è stata anche una violazione dell’art. 14 Cedu in combinato con l’art. 3, letto sotto il profilo procedurale.
* La rassegna relativa all’art. 3 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 5-14 è di C. Danisi.

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