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Fascicolo 3, Novembre 2018


«Se fosse tuo figlio riempiresti il mare di navi di qualsiasi bandiera. Vorresti che tutte insieme a milioni facessero da ponte per farlo passare.

Premuroso, non lo lasceresti solo, faresti ombra per non far bruciare i suoi occhi, lo copriresti per non farlo bagnare dagli schizzi d'acqua salata.

Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare uccideresti il pescatore che non presta la barca, urleresti per chiedere aiuto, busseresti alle porte dei governi per rivendicare la vita.

Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto, odieresti il mondo, odieresti i porti pieni di navi attraccate. Odieresti chi le tiene ferme e lontane da chi, nel frattempo sostituisce le urla con acqua di mare.

Se fosse tuo figlio li chiameresti vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso. Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti,  vorresti spaccargli la faccia, annegarli tutti nello stesso mare.

Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa non è tuo figlio, non è tuo figlio.  Puoi dormire tranquillo e soprattutto sicuro.  Non è tuo figlio.

È solo un figlio dell'umanità perduta, dell'umanità sporca, che non fa rumore. Non è tuo figlio, non è tuo figlio.

Dormi tranquillo, certamente non è il tuo».

 

(Sergio Guttilla, Capo Scout Agesci nel gruppo Bolognetta1, Dedicata ai 100 morti in mare, in attesa di una nave che li salvasse, 29 VI 2018).

Corte di Giustizia dell'Unione europea

Regolamento “Dublino III”: richiesta di presa in carico
Il caso X (CGUE, 5.7.2018, C‑213/17) riguarda i criteri di competenza circa l’esame di domande di protezione internazionale a seguito di richiesta di presa in carico presentata da un primo a un secondo Stato membro.
Le autorità olandesi emettevano un mandato di arresto europeo a carico di X, che nel frattempo si trovava in Italia, dove aveva depositato una domanda di protezione internazionale. X veniva allora trasferito e, qualche mese più tardi, proponeva una domanda di protezione internazionale anche in Olanda. La richiesta veniva rigettata, a causa della competenza dell’Italia, ma X impugnava il provvedimento. Nel procedimento che seguiva, il giudice interno decideva di rivolgere alla Corte una serie di quesiti. La prima questione verte sull’art. 23, par. 3, del regolamento 604/2013 (“regolamento Dublino III”), che dispone il passaggio della competenza all’esame di una domanda di protezione internazionale da uno Stato membro all’altro se lo Stato che aveva titolo per effettuare una richiesta di presa in carico non ha rispettato i termini previsti al par. 2 della stessa norma. Il giudice intendeva sapere se fosse possibile per l’Olanda richiedere all’Italia la presa in carico del richiedente protezione internazionale anche oltre i termini anzidetti, posto che l’Italia era divenuto lo Stato competente e che i termini per la richiesta erano scaduti in pendenza di un ricorso presentato dall’interessato di fronte agli organi giurisdizionali olandesi contro una decisione di diniego. La Corte si sofferma sull’art. 18, par. 2, lett. d), del regolamento, che stabilisce che lo Stato divenuto competente è tenuto alla ripresa in carico di un cittadino di un paese terzo o un apolide “del quale è stata respinta la domanda e che ha presentato domanda in un altro Stato membro”. Siccome l’art. 46 del regolamento 604/2013 prevede il diritto per il richiedente di esperire un ricorso contro una decisione dell’autorità competente, la Corte conclude che l’art. 18, par. 2, lett. b) e, di conseguenza, l’art. 23, par. 2, del medesimo regolamento si riferiscono a decisioni non definitive. Malgrado ciò, i limiti previsti dall’art. 23, par. 2, del “Dublino III”, trovano applicazione indipendentemente dalle modalità di svolgimento delle procedure relative a domande di protezione internazionale presentate precedentemente nello Stato che avrebbe potuto chiedere il trasferimento del richiedente; il che significa che l’Olanda perde la facoltà di ottenere la presa in carico del richiedente ad opera dell’Italia se i termini dell’art. 23, par. 2 sono spirati nelle more di un ricorso interno proposto dall’interessato contro una decisione adottata nei suoi confronti. In aggiunta, rispondendo a un altro quesito del giudice remittente, la Corte fa presente che l’art. 18, par. 2, del regolamento non impone allo Stato che effettua la richiesta di ripresa in carico la sospensione dell’esame del ricorso in questione, né di porvi termine nel caso in cui l’altro Stato dia seguito alla richiesta. Procedendo nell’esame dei quesiti contenuti nel rinvio pregiudiziale, la Corte si concentra anche sulle modalità con le quali deve essere realizzata la richiesta di ripresa in carico. Nello specifico, la Corte ricorda che il formulario standard indicato all’art. 24, par. 5, del “Dublino III”, serve per consentire alle autorità dello Stato membro richiesto di ricevere elementi utili a verificare se tale Stato è competente o meno. Ora, nel caso X la competenza dello Stato richiesto si fonda sulla scadenza dei termini ex art. 23, par. 2, quindi gli elementi dell’art. 24, par. 5, sono irrilevanti ai fini della valutazione da compiere: non era necessario che le autorità dello Stato richiesto fossero a conoscenza del ricorso proposto dall’interessato nello Stato richiedente per orientarsi. Da ultimo, l’attenzione viene posta sul trasferimento del Sig. X dall’Italia all’Olanda in forza di mandato di arresto europeo. Il giudice olandese chiedeva se, alla luce del regolamento 604/2013, per lo Stato verso il quale il trasferimento era eseguito fosse possibile chiedere all’altro Stato di riprendere in carico il soggetto che non avesse presentato domanda di protezione internazionale. La Corte risponde affermativamente, notando come il regolamento non faccia dipendere la richiesta di ripresa in carico dalla modalità di ingresso dell’interessato nel territorio dello Stato richiedente.
Nel caso Hassan (CGUE, 31.5.2018, C‑647/16) sono state esaminate le procedure per il trasferimento di un cittadino di Stato terzo verso lo Stato membro che si presume essere competente all’esame di una domanda di protezione internazionale. Il Sig. Hassan veniva fermato dalle autorità locali al suo arrivo in Francia. Da controlli più approfonditi emergeva che il Sig. Hassan aveva già presentato due domande di protezione internazionale in Germania e che le sue impronte erano già state acquisite nel sistema Eurodac. Le autorità francesi decidevano quindi, in conformità al diritto interno, di trasferire il Sig. Hassan in Germania, notificandogli il provvedimento contestualmente alla formulazione dell’apposita richiesta di presa in carico verso tale Stato. Il Sig. Hassan si opponeva, dando vita a un procedimento interno. Il giudice si chiedeva se la prassi amministrativa che ammette il trasferimento dell’interessato verso lo Stato UE richiesto prima ancora di una sua risposta (esplicita o implicita) fosse compatibile con l’art. 26, par. 1, reg. 604/2013; per la risoluzione del dubbio, veniva attivato un rinvio pregiudiziale di interpretazione. Per quanto rileva nel caso di specie, la CGUE constata che l’art. 26, par. 1, reg. 604/2013 dispone che solo quando vi è l’accettazione, da parte dello Stato richiesto, di riprendere in carico un individuo che abbia presentato domanda di protezione internazionale, lo Stato richiedente notifica all’interessato la decisione di trasferirlo: questo vale anche se l’interessato ha depositato la propria domanda in un altro Stato membro oppure si trova nel territorio di un altro Stato membro senza un titolo di soggiorno (come nel caso del Sig. Hassan). Dall’analisi del dato testuale dell’art. 26, par. 1, la Corte ricava che una prassi come quella francese è illecita, perché il trasferimento non può essere disposto senza una previa accettazione dello Stato richiesto o, in alternativa, senza che i termini finali per la risposta siano decorsi. Ad ogni modo, la Corte dimostra che alla stessa conclusione si giungerebbe anche attraverso un’interpretazione sistematica e teleologica della norma. In primis, dall’economia generale dell’intero regolamento risulta che vi sono termini e procedure da seguire obbligatoriamente per il trasferimento di un richiedente protezione internazionale verso lo Stato richiesto. Tra l’altro, proprio lo Stato richiesto deve poter compiere tutte le verifiche sulla sua effettiva competenza, non essendo sufficiente che le impronte dell’individuo siano già state assunte nel suo territorio in precedenza. Così facendo, sarebbero assicurati anche gli obiettivi del “Dublino III”, tra i quali figura la tutela giurisdizionale da assicurare al richiedente protezione internazionale nel corso delle procedure sottese alla sua domanda. Essa contempla la possibilità di proporre ricorso contro una decisione di trasferimento (ex art. 27, par. 1, del regolamento), ma per garantire appieno tale diritto è opportuno che l’individuo sia a conoscenza dei motivi precisi che fondano il provvedimento; e ciò non potrebbe accadere se la decisione di trasferimento fosse notificata prima che lo Stato richiesto si pronunci sulla propria competenza o in presenza di una richiesta di presa in carico basata solo sugli elementi di prova e le circostanze indiziarie raccolti dallo Stato membro richiedente. Sicché, la notifica della decisione di trasferimento non può avere effetto se lo Stato richiesto non ha risposto o ha lasciato spirare i termini previsti dal Dublino III per rispondere. Secondo la CGUE, le regole procedurali previste dall’art. 26, par. 1, reg. 604/2013 per la notifica della decisione di trasferimento valgono anche per l’adozione della decisione stessa. Infatti, benché l’art. 26, par. 1, non accenni alla decisione di trasferimento, la Corte è dell’opinione che accogliere la tesi contraria significherebbe frustrare gli obiettivi del “Dublino III”. D’altronde, l’art. 5, par. 2, lett. b), e l’art. 5, par. 3, del regolamento stabiliscono che l’eventuale colloquio e ogni altra possibilità per il richiedente di fornire le informazioni pertinenti devono avvenire prima che la decisione di trasferimento sia presa conformemente a detto articolo 26, par. 1. Peraltro, l’art. 26, paragrafo 2, primo comma, afferma che la decisione di trasferimento deve contenere informazioni sui mezzi di impugnazione disponibili, sui termini per il loro esercizio e sui termini relativi all’esecuzione del trasferimento; contiene altresì, se necessario, informazioni su luogo e data in cui la persona interessata deve presentarsi nel caso in cui si rechi nello Stato membro competente con i propri mezzi. Naturalmente, tutte queste informazioni dipendono dalla risposta dello Stato richiesto: di conseguenza, non è ammissibile adottare una decisione di trasferimento dell’interessato verso lo Stato richiesto che non abbia ancora risposto in maniera esplicita o implicita.
 
Rimpatrio di familiare straniero di cittadino dell’Unione e diritto al ricongiungimento familiare
Nel caso K.A. e a. (CGUE, 8 maggio 2018, C‑82/16) la CGUE è stata consultata da un giudice belga per fornire delucidazioni sui diritti da osservare a favore, da un lato, dei cittadini europei e, dall’altro, dei loro familiari stranieri che siano stati oggetto di un diniego di soggiorno accompagnato da ordine di allontanamento dal territorio di uno Stato membro. Nei casi al vaglio del giudice nazionale gli interessati sono cittadini di Stati terzi, familiari di cittadini belgi che non avevano esercitato la libertà di circolazione. Tutti gli stranieri coinvolti nella vicenda avevano presentato domande di soggiorno a titolo di ricongiungimento familiare in Belgio. Le autorità competenti non avevano preso in considerazione le domande per via della vigenza di un divieto di ingresso nel territorio per ciascuno dei richiedenti e avevano adottato decisioni di rimpatrio nei confronti di ciascun individuo. Per rimediare alla loro situazione, i ricorrenti avrebbero dovuto lasciare il territorio dell’Unione e chiedere la revoca o la sospensione del divieto di ingresso. Nella sua disamina, la CGUE in primo luogo delimita il campo normativo di riferimento. La direttiva 2008/115 (“direttiva rimpatri”) riguarda solo l’adozione di decisioni di rimpatrio e l’esecuzione di tali decisioni, non anche la presa in considerazione di una domanda di soggiorno da parte degli Stati membri. È invece pertinente l’art. 20 TFUE, che, come noto, non prevede diritti autonomi in capo ai cittadini di Stati terzi. La funzione dell’art. 20 TFUE nel caso K.A. e a. è assicurare che i diritti insiti nello status di cittadino dell’Unione non vengano frustrati dal rimpatrio del familiare cittadino di Stato terzo; ciò vale anche se spetta agli Stati membri determinare le modalità di attuazione del diritto di soggiorno derivato dei cittadini di Stati terzi. Per risolvere il problema di fondo dei procedimenti pregiudiziali è quindi necessario verificare se tra il cittadino dell’Unione e il suo familiare straniero esiste un rapporto di dipendenza tale da costringere il primo ad accompagnare il secondo nel suo paese d’origine; al contrario, se le autorità competenti decidono di rimpatriare il richiedente senza avere preso in considerazione la sua domanda, pur a fronte di un divieto di ingresso pendente, si rischia di menomare lo status di cittadino europeo dei suoi familiari e, di conseguenza, di compromettere l’effetto utile dell’art. 20 TFUE. Per comprendere se effettivamente sussiste il rapporto di dipendenza nei termini enunciati dalla Corte, vengono in soccorso alcuni criteri utili. La Corte invita a distinguere tra cittadini dell’Unione maggiorenni e minorenni. Nel primo caso, il predetto rapporto si configurerebbe solo in via eccezionale, ossia se, tenuto conto dell’insieme delle circostanze pertinenti, il soggetto interessato non può in alcun modo essere separato dal familiare da cui dipende. Nel secondo è più probabile ravvisare l’esistenza di questa relazione, che sarà appurata mediante un’analisi condotta nel rispetto degli artt. 7 e 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali: dovranno essere considerate caso per caso tutte le circostanze che interessano il minore, soprattutto l’età, lo sviluppo fisico ed emotivo, l’intensità sua relazione affettiva con ciascuno dei genitori, nonché del rischio che la separazione dal genitore cittadino di un paese terzo comporterebbe per il suo equilibrio. La Corte però sottolinea che il solo vincolo familiare di tipo biologico o giuridico non è per sé conclusivo sull’esistenza della relazione di dipendenza che si sta illustrando. Anche altre circostanze sono da ritenersi ininfluenti se considerate autonomamente: tra queste il fatto che il rapporto di dipendenza sia sorto prima dell’adozione del divieto di ingresso nei confronti del cittadino di Stato terzo, o che tale decisione fosse già definitiva al momento del deposito della domanda di soggiorno; non rileva nemmeno che l’adozione di un provvedimento di divieto di ingresso nel territorio sia stata giustificata dal mancato rispetto dell’obbligo di rimpatrio o, più in generale, per ragioni di ordine pubblico o pubblica sicurezza. In questi casi è sempre necessario compiere la valutazione di cui sopra (basandosi su tutte le circostanze rilevanti del caso concreto) per scongiurare violazioni dell’art. 20 TFUE. Infine, la Corte si sofferma su diritti del familiare cittadino di Stato terzo che debba essere rimpatriato per l’effetto della mancata applicazione dell’art. 20 TFUE al cittadino dell’Unione nel caso concreto. Il punto nodale è rilevare se sia necessario considerare gli elementi della vita familiare del cittadino di Stato terzo anche quando questo sia destinatario di una decisione di rimpatrio che si somma ad una decisione analoga adottata in precedenza e ancora in vigore. La Corte risponde in questo senso, facendo leva sull’art. 5 dir. 2008/115, finalizzato a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo da rimpatriare. Questo a meno che l’interessato non abbia fatto valere senza indugio tali elementi all’autorità nazionale competente; invero, l’inerzia del soggetto integrerebbe la violazione del suo obbligo di leale cooperazione e paralizzerebbe l’applicabilità dei temperamenti appena menzionati.
 
Cumulo di decisioni di status e di rimpatrio
Nel caso Gnandi (CGUE, 19.6.2018, C-181/16) la CGUE è stata chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità del cumulo tra decisione di rigetto della domanda di protezione internazionale e ordine di allontanamento del cittadino di Stato terzo. Dopo avere depositato una domanda di protezione internazionale in Belgio, il Sig. Gnandi era incorso in questa situazione. Il giudice da lui adito chiedeva alla CGUE se una decisione di allontanamento adottata contestualmente a una decisione negativa di status fosse compatibile con la direttiva 2008/115, nel combinato disposto con la direttiva 2005/85, e alla luce del principio di non-refoulement e degli artt. 18, 19, par. 2, e 47 della Carta dei diritti fondamentali. La Corte comincia il suo ragionamento chiarendo che l’ordine di allontanamento avente come destinatario il Sig. Gnandi è una decisione di rimpatrio e come tale è esperibile nei confronti del cittadino di Stato terzo che soggiorni irregolarmente nel territorio di uno Stati membro (art. 6, par. 1, dir. 2008/115). Si tratta dunque di capire se il Sig. Gnandi fosse da considerarsi irregolare immediatamente dopo il rigetto della sua domanda di protezione internazionale. Dal combinato disposto dell’art. 3, punto 2, dir. 2008/115 e dell’art. 7, par. 1, dir. 2005/85 (”direttiva procedure”, applicabile ratione temporis al caso di specie) si ottiene che il soggiornante irregolare è il cittadino di Stato terzo che non abbia rispettato i requisiti stabiliti dallo Stato membro ospitante ai fini dell’ingresso, del soggiorno o di residenza; per il richiedente protezione internazionale, questa situazione si manifesta a partire dalla decisione di primo grado con cui viene rigettata la sua domanda. Insomma, fino a quel momento il richiedente protezione internazionale non è un “soggiornante regolare”, ma mantiene comunque il diritto di restare nello Stato membro ospitante; successivamente, l’interessato che non abbia altro titolo giuridico per rimanere nello Stato membro ospitante diviene un soggiornante irregolare e nessuna disposizione delle direttive anzidette fa dipendere la regolarità del soggiorno dalla proposizione di un ricorso contro la decisione di rigetto della domanda di protezione internazionale. Perciò, la direttiva 2008/115 si applica a chi soggiorna irregolarmente in uno Stato membro nel quale è temporaneamente autorizzato a rimanere fino all’allontanamento. Poiché l’obiettivo principale della direttiva rimpatri è porre in essere un’efficace politica di allontanamento e di rimpatrio nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e della dignità delle persone interessate, l’art. 6, par. 6, permette agli Stati membri di decidere, con un unico atto di natura amministrativa, in merito alla fine del soggiorno regolare e, al tempo stesso, in merito al rimpatrio della persona: è quindi consentito il “cumulo” delle due decisioni e, anzi, se ciò non fosse possibile verrebbe meno l’effetto utile della direttiva. Sul cumulo di decisioni non incidono il principio di non-refoulement, né i rimedi giurisdizionali effettivi, sanciti dagli artt. 18, 19, par. 2, e 47 della Carta. Ciò premesso, la Corte ribadisce l’obbligo imposto dall’art. 6, par. 6, dir. 2008/115, ossia che gli Stati membri sono tenuti a fare in modo che ogni decisione di rimpatrio rispetti le garanzie procedurali di cui al capo III della direttiva, nonché le altre pertinenti disposizioni del diritto dell’Unione e del diritto nazionale. Ciò significa che in un caso come quello del Sig. Gnandi se è vero che può essere disposto il cumulo tra decisione di diniego della protezione internazionale e decisione di rimpatrio, gli Stati membri devono pur sempre garantire la piena efficacia del ricorso contro la prima. Anzitutto, al ricorso vanno attribuiti effetti sospensivi; inoltre, l’interessato deve poter beneficiare, in linea di principio, dei diritti riconosciuti dalla direttiva 2003/9 (“direttiva accoglienza”) e deve poter far valere qualsiasi mutamento delle circostanze verificatesi successivamente alla decisione di rimpatrio che presenti rilevanza significativa per la valutazione della sua situazione (circostanze che saranno verificate dal giudice nazionale).
 
Direttiva procedure e limiti alla discrezionalità degli Stati membri nell’individuazione dei paesi di origine sicuri
Nel Caso A (CGUE, 25.7.2018, C‑404/17) è stata presa in considerazione la presunzione sulla sicurezza di un paese terzo da parte di uno Stato membro che non aveva dato completa attuazione alle disposizioni della direttiva 2013/32. Un cittadino serbo, il sig. A, chiedeva asilo in Svezia, spiegando che nel suo paese di origine aveva subito minacce e violenze da parte di un gruppo paramilitare clandestino tra il 2001 e il 2003. Per anni la Serbia aveva offerto al Sig. A lo status di testimone protetto, ma questi dopo qualche tempo vi aveva rinunciato. Le autorità svedesi rigettavano la domanda di A ritenendola manifestamente infondata e asserendo che, sulla base delle informazioni fornite dal richiedente, la Repubblica di Serbia era in grado di offrirgli una protezione efficace (e che comunque spettava principalmente alle autorità del paese di origine garantire la protezione richiesta nel caso di specie). Disponevano anche che A lasciasse immediatamente il territorio svedese, stante l’assenza manifesta di elementi che consentissero di accogliere la domanda di asilo e la carenza di argomenti pertinenti a sostegno della domanda di permesso di soggiorno. A impugnava la decisione sfavorevole e il giudice adito si rivolgeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea per sapere se un simile provvedimento fosse compatibile con il combinato disposto degli artt. 31, paragrafo 8, lettera b), e 32, paragrafo 2, della direttiva 2013/32. La Corte esclude che le norme UE in questione ammettano un diniego come quello realizzato dalle autorità svedesi nel caso A, dal momento che il legislatore nazionale al momento del ricorso non aveva individuato quali fossero i paesi di origine sicuri secondo le modalità previste agli artt. 36 e 37 e l’allegato I della direttiva 2013/32. Inoltre, per la Corte è irrilevante che il richiedente abbia reso dichiarazioni insufficienti, poiché con l’entrata in vigore della direttiva 2013/32 tale requisito non è più idoneo a qualificare una domanda di protezione internazionale come infondata.
 
Particolari categorie di richiedenti protezione internazionale
Nel caso Aletho (CGUE, 25.7.2018, C‑585/16) la CGUE ha affrontato varie questioni attinenti alla situazione di una cittadina palestinese che si era allontanata da un diverso Stato terzo di residenza, la Giordania, per entrare in Bulgaria con visto turistico, salvo poi chiedere invano protezione internazionale. La peculiarità del caso Aletho è che l’interessata, prima di recarsi in territorio UE, era registrata presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (“UNRWA”) in uno Stato terzo diverso da quello di cui è cittadina. Il giudice interno chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto dalla Sig.ra Alheto contro la decisione dell’autorità bulgara rivolgeva numerosi quesiti alla CGUE nell’ambito di un rinvio pregiudiziale di interpretazione. Riassumendo il giudizio, la Corte annota da subito che chi beneficia della protezione dell’UNRWA non potrebbe ottenere lo status di rifugiato nell’Unione, ma precisa che l’art. 12, par. 1, lettera a) dir. 2011/95 (“direttiva qualifiche”) dispone una causa di cessazione di tale esclusione per il cittadino di un paese terzo o per l’apolide che per un qualsiasi motivo non benefici più della protezione o dell’assistenza di un organo o di un’agenzia delle Nazioni Unite diversi dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (senza che la posizione dell’individuo sia stata definitivamente stabilita in conformità delle pertinenti risoluzioni adottate dall’assemblea generale delle Nazioni Unite). Poiché per la Corte una simile decisione dipende sempre dalla valutazione di tutti gli elementi pertinenti, è necessario valutare se l’UNRWA è ancora in grado di fornire la protezione e l’assistenza insite nello scopo della sua missione alla Sig.ra Alheto. Viene dunque in rilievo la portata dell’art. 12, par. 1, lett. a) dir. 2011/95, che di fatto ricalca l’art. 12, par. 1, lett. a) secondo periodo della direttiva 2004/83: la Corte dichiara che la norma deve essere correttamente recepita e le riconosce efficacia diretta, ammettendo addirittura che può essere applicata anche se il richiedente protezione internazionale non l’abbia invocata. Quanto ai contenuti dell’art. 12, par. 1, lett. a), la CGUE afferma che devono essere valutati non solo dall’autorità accertatrice, ma pure dal giudice adito dal richiedente protezione internazionale per decidere sul ricorso avente ad oggetto il provvedimento di status. La Corte arriva a questa conclusione interpretando l’art. 46, par. 3, dir. 2013/32, secondo il suo significato abituale. Tale norma stabilisce che gli Stati Membri “assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto”: tenendo a mente l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali e ricordando che tra gli obiettivi della direttiva vi è la trattazione delle domande di protezione internazionale in modo adeguato e completo, l’espressione “ex nunc” va interpretata nel senso che il giudice investito del ricorso deve procedere a una valutazione che tenga conto, se del caso, dei nuovi elementi intervenuti dopo l’adozione della decisione oggetto dell’impugnazione. Alla luce del combinato disposto dell’art. 46, par. 3, dir. 2013/32 e dell’art. 47 della Carta, detto esame può riguardare anche i motivi d’inammissibilità della domanda di protezione internazionale di cui all’articolo 33, par. 2, se il diritto nazionale lo consente. In tal caso, e sempre per soddisfare i requisiti dettati dall’art. 12, par. 1, lett. a) dir. 2011/95, il giudice è tenuto a procedere all’audizione del richiedente se l’autorità accertatrice non si era pronunciata sul motivo di inammissibilità venuto in rilievo; viceversa, se questo esame è stato condotto dall’autorità accertatrice, non sarà più necessario sentire il ricorrente sulla circostanza. Logicamente, nel corso dell’eventuale audizione l’interessato avrà il diritto di esporre di persona e in una lingua che conosce il suo punto di vista sull’applicabilità del motivo di inammissibilità alla sua situazione particolare. Su invito del giudice bulgaro, la CGUE conferma che se l’autorità giudiziaria annulla la decisione dell’autorità accertatrice non è obbligata a statuire a sua volta sullo status del richiedente. Dal combinato disposto dell’art. 46, par. 3, dir. 2013/32 e dell’art. 47 della Carta non deriva quest’obbligo; semmai, nell’ipotesi di rinvio del fascicolo all’autorità accertatrice, questa dovrà assicurare l’effetto utile dell’art. 46, par. 3, dir. 2013/32, adottando entro un breve termine una nuova decisione che sia conforme alla valutazione contenuta nella sentenza del giudice. Da ultimo, poiché la Giordania fa parte della zona operativa dell’UNRWA, si pone un problema ulteriore: se la ricorrente palestinese beneficia di protezione o di assistenza effettiva in un paese terzo come la Giordania, si può concludere che la Giordania sia un paese di “primo asilo” e che lì l’interessata sia sufficientemente protetta ai sensi dell’art. 35, co. 1, lett. b), dir. 2013/32? La domanda sorge dal fatto che l’art 33, par. 2, lett. b), dir. 2013/32 permette agli Stati membri di giudicare inammissibile una richiesta di protezione internazionale da parte del cittadino di Stato terzo che possa ottenere protezione sufficiente in uno Stato terzo di primo asilo. La Corte risponde che nella fattispecie la cittadina palestinese potrà essere considerata sufficientemente protetta in Giordania (con conseguente possibilità per la Bulgaria di dichiarare l’inammissibilità della domanda di protezione internazionale) se il giudice interno è certo che quel paese si impegna a riammettere la richiedente, riconosce la protezione o l’assistenza fornite dall’UNRWA e aderisce al principio di non-refoulement. Analogamente a quanto esposto in precedenza, anche questa valutazione dovrà essere realizzata considerando tutti gli elementi pertinenti del caso concreto.
 
Familiari cittadini di Stato terzo e limiti alla circolazione di cittadini dell’Unione
Il caso Altiner (CGUE, 27.6.2018, C‑230/17) concerne i limiti che gli Stati membri possono imporre al diritto di soggiorno derivato di un cittadino di Stato terzo che sia familiare di un cittadino dell’Unione. Il sig. Altiner, minorenne turco, aveva soggiornato in Svezia in forza di un visto Schengen, ospite del padre e della sua seconda moglie, la Sig.ra Ravn, cittadina danese che in precedenza aveva soggiornato nel proprio Stato di origine. Qualche anno più tardi, i coniugi decidevano di trasferirsi in Danimarca per risiedervi. In seguito, anche il Sig. Altiner si recava in Danimarca con un nuovo visto Schengen e lì chiedeva un permesso di soggiorno in qualità di familiare della moglie di suo padre. Le autorità danesi respingevano la domanda perché non si inseriva nel naturale prolungamento del ritorno della sig.ra Ravn in Danimarca, visto che il Sig. Altiner non aveva fatto ingresso in tale Stato assieme alla donna. Il problema di fondo era che in Danimarca il diritto di soggiorno derivato di un cittadino di uno Stato terzo che sia familiare di un cittadino danese tornato in Danimarca dopo un soggiorno in un altro Stato membro viene meno se tale familiare non fa ingresso nel territorio danese o non presenta una domanda di permesso di soggiorno in Danimarca come naturale prolungamento del ritorno del cittadino danese. Il Sig. Altiner impugnava il provvedimento sfavorevole e il giudice nazionale si rivolgeva alla CGUE per sapere se una simile normativa fosse compatibile con l’art. 21, par. 1, TFUE e, per analogia, con la direttiva 2004/38. La Corte chiarisce che il diritto di soggiorno derivato del cittadino di Stato terzo familiare di un cittadino UE sussiste anche se il primo raggiunge solo successivamente il secondo nello Stato membro di cittadinanza di quest’ultimo: lo si ricava dall’ art. 7, par. 2, direttiva 2004/38. Piuttosto, il diritto di soggiorno in uno Stato UE del cittadino di Stato terzo in questo caso deriva dall’esercizio della libera circolazione da parte del familiare cittadino europeo. La Corte poi ammette che l’art. 21, par. 1, TFUE prevede questo diritto per consentire il proseguimento, nello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione possiede la cittadinanza, della vita familiare che si è sviluppata o consolidata con un suo familiare, cittadino di uno Stato terzo, nello Stato membro ospitante. Da ciò deriva la possibilità, per le autorità nazionali competenti, di accertarsi che la vita familiare instauratasi tra i due soggetti non si sia interrotta prima che anche il cittadino di Stato terzo faccia ingresso nel territorio dello Stato UE di cittadinanza dell’altra persona. In questo senso, la circostanza che entrambi non siano giunti nello Stato UE di cittadinanza ha valore meramente indiziario. Analogamente, se la richiesta di permesso di soggiorno non è stata presentata come “naturale prolungamento” del ritorno, in tale Stato membro, del cittadino dell’Unione di cui trattasi, le autorità nazionali competenti possono tenerne conto, ma sempre come elemento non determinante nell’esercizio di una valutazione complessiva delle circostanze del caso in esame. Al riguardo, la Corte precisa che il giudice nazionale è chiamato a considerare ulteriori elementi pertinenti, in particolare quelli idonei a dimostrare che, nonostante la già accennata discrepanza temporale, la vita familiare sviluppata e consolidata nello Stato membro ospitante non è cessata.
Nei casi K e H.F. (CGUE, 2.5.2018, cause riunite C‑331/16 e C‑366/16), è stata esaminata l’applicabilità di alcune tutele a individui destinatari di decisioni di allontanamento da uno Stato UE. I Sig. K e H.F. sono, rispettivamente, cittadino croato-bosniaco e cittadino afghano familiare di cittadino dell’Unione: avevano depositato domanda di asilo nei Paesi Bassi in tempi diversi, ma le autorità nazionali ne disponevano il rigetto e ordinavano l’allontanamento dei richiedenti, perché era emerso che entrambi avevano commesso reati indicati all’articolo 1, sezione F, lettera a), della Convenzione di Ginevra (nello specifico, crimini di guerra e crimini contro l’umanità). K. e H.F. impugnavano i provvedimenti adottati nei loro confronti. I giudici olandesi sospendevano i procedimenti interni e rivolgevano alcuni quesiti interpretativi alla CGUE. Per prima cosa, entrambi i giudici rilevavano profili di incompatibilità tra le decisioni contro K. e H.F. e l’articolo 27, par. 1, della direttiva 2004/38, che consente agli Stati membri di adottare misure limitative della libertà di circolazione e di soggiorno di un cittadino dell’Unione o di un suo familiare in particolare per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. Nella sua risposta, la Corte dapprima constata che, sebbene gli Stati membri siano sostanzialmente liberi di determinare, conformemente alle loro necessità nazionali, le regole di ordine pubblico e pubblica sicurezza, queste devono però essere intese in senso restrittivo e non possono dipendere da un’interpretazione unilaterale a livello nazionale; bisogna dunque riferirsi al diritto UE, in particolare all’interpretazione fornita dalla CGUE. Ebbene, ai fini della direttiva 2004/38, la nozione di “ordine pubblico” presuppone, in ogni caso, oltre alla perturbazione dell’ordine sociale insita in qualsiasi infrazione della legge, l’esistenza di una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave nei confronti di un interesse fondamentale della società. Invece, la nozione di “pubblica sicurezza” comprende tanto la sicurezza interna di uno Stato membro quanto la sua sicurezza esterna. Fatte queste premesse, la Corte osserva che i fatti per i quali i ricorrenti non avevano ottenuto lo status di rifugiato in teoria possono costituire ragioni di ordine pubblico o di pubblica sicurezza; ciò non può comunque essere deciso in automatico, cioè al netto di un’attenta valutazione condotta caso per caso, incentrata sul comportamento dell’interessato e volta a verificare se il soggetto rappresenti una minaccia effettiva e sufficientemente grave per un interesse fondamentale della società. Tale valutazione dovrà poi essere effettuata nel rispetto dei diritti fondamentali e del principio di proporzionalità, nel senso che una misura ex art. 27, par. 1, dir. 2004/38 sarà lecitamente adottata se idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo che persegue e non ecceda quanto necessario per raggiungerlo. In sostanza, la Corte afferma che le autorità nazionali competenti sono chiamate ad eseguire un bilanciamento tra la minaccia che il comportamento personale dell’interessato rappresenta per gli interessi fondamentali della società di accoglienza e la tutela dei diritti che i cittadini dell’Unione e i loro familiari traggono dalla direttiva 2004/38. Prendendo spunto dagli elementi dei casi sottoposti ai giudici del rinvio, la Corte spiega che la valutazione deve anche tenere conto del tempo trascorso dalla presunta commissione dei crimini, nonché del comportamento successivo della persona, e in particolare considerare se tale comportamento manifesti la persistenza di un atteggiamento che attenti ai valori fondamentali di cui agli artt. 2 e 3 TUE, sì da turbare gravemente la tranquillità e la sicurezza fisica della popolazione. A questo punto, sorge l’esigenza di rispondere a due ulteriori quesiti, rivolti da uno dei giudici remittenti. Tale giudice chiedeva se per disporre l’allontanamento del richiedente autore di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra in uno Stato terzo tempo addietro fosse (i) necessario considerare gli elementi elencati all’art. 28, par. 1, dir. 2004/38 (durata del soggiorno dell’interessato nel territorio dello Stato membro ospitante, età, stato di salute, situazione familiare ed economica, grado di integrazione sociale e culturale nello Stato membro ospitante e importanza dei suoi legami con il paese d’origine) e (ii) se fosse applicabile l’articolo 28, paragrafo 3, lett. a), della direttiva, (i cittadini dell’Unione che hanno risieduto per i precedenti dieci anni nello Stato membro ospitante possono essere allontanati solo con decisione per motivi imperativi di pubblica sicurezza definiti dallo Stato membro ospitante). La Corte risponde che gli elementi dell’art. 28, par. 1, devono essere considerati anche in un caso come quello di specie, dato che sono funzionali a una valutazione che sia effettivamente realizzata nel rispetto del principio di proporzionalità. Quanto alla protezione rinforzata dell’art. 28, par. 3, lett. a), la Corte dichiara che questa si applica solo in presenza di un soggiorno permanente del cittadino europeo in uno Stato membro ospitante. Tuttavia, ai sensi dell’art. 16 della direttiva 2004/38, il diritto di soggiorno permanente può essere acquisito unicamente se vi è stato un soggiorno legale nello Stato membro ospitante e in via continuativa per cinque anni. Dagli atti della causa che dovrà decidere il giudice del rinvio non risulta con certezza che il soggiorno del ricorrente abbia soddisfatto tutte queste condizioni.
La giurisprudenza UE sulla circolazione dei cittadini europei dipendente dalle sorti di familiari stranieri si è arricchita di un’importante pronuncia nel caso Coman e a. (CGUE, 5.6.2018, C-673/16). Il Sig. Coman, cittadino rumeno e statunitense aveva sposato a Bruxelles il Sig. Hamilton, cittadino statunitense. I due decidevano di recarsi in Romania e chiedevano all’ispettorato se il Sig. Hamilton potesse soggiornare per più di tre mesi. L’ispettorato specificava che ciò non era possibile, dato che il diritto rumeno non riconosce il matrimonio tra individui dello stesso sesso. I coniugi proponevano allora ricorso contro l’ispettorato. Nel giudizio veniva sollevata una questione di costituzionalità presso la Corte costituzionale rumena, che dal suo canto si rivolgeva alla CGUE per sapere essenzialmente se le autorità interne potessero negare al Sig. Hamilton il diritto di soggiorno superiore a tre mesi in base alla direttiva 2004/38. Di fronte alla richiesta della Corte costituzionale rumena, la CGUE dichiara che gli elementi interpretativi per risolvere il quesito non possono essere limitati ai contenuti della direttiva 2004/38, essendo necessario considerare anche l’art. 21, par. 1, TFUE. L’opinione della Corte è che se “nel corso di un soggiorno effettivo del cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, ai sensi e nel rispetto delle condizioni poste dalla direttiva 2004/38, si sia sviluppata o consolidata una vita familiare in quest’ultimo Stato membro, l’effetto utile dei diritti che al cittadino dell’Unione interessato derivano dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE impone che la vita familiare che tale cittadino abbia condotto nello Stato membro suddetto possa proseguire al suo ritorno nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, grazie alla concessione di un diritto di soggiorno derivato al familiare interessato, cittadino di uno Stato terzo”. In caso contrario, il cittadino europeo sarebbe probabilmente svantaggiato se decidesse di esercitare il suo diritto di circolazione in altro Stato membro. La CGUE fa poi presente che le condizioni di concessione di questo diritto derivato non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva 2004/38 per la concessione di un simile diritto di soggiorno a un cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino dell’Unione che abbia esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza. Nel caso del Sig. Coman, trova quindi applicazione in via analogica la direttiva 2004/38, che all’art. 2, par. 2, lett. a), prevede diritti anche a favore del “coniuge” del cittadino dell’Unione che abbia esercitato il suo diritto di circolazione. Quella di “coniuge” è un’espressione neutra dal punto di vista del genere e non può essere determinata dal diritto interno, cosa che invece è espressamente consentita dalla lettera b) della medesima disposizione (con riferimento al “partner che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un’unione registrata”). Perciò, anche se astrattamente riconducibile a competenze esclusivamente interne degli Stati membri, una limitazione come quella operata nel caso in esame dalle autorità rumene finirebbe per pregiudicare l’esistenza e l’applicazione uniforme di un diritto fondamentale riconosciuto e garantito anche dal TFUE. Di fronte a questa situazione di contrasto tra diritto interno e diritto UE, la Corte non ravvisa alcuna eccezione giuridicamente ammissibile nel caso oggetto di rinvio pregiudiziale. Da un lato, non può essere validamente invocato l’art. 4, par. 2, TUE, in quanto non è in discussione l’identità nazionale degli Stati membri, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale. Dall’altro, non vi sono gli estremi per lamentare la violazione dell’ordine pubblico, concetto che di per sé deve essere interpretato restrittivamente (sulla base di criteri di diritto UE) e che viene in rilievo soltanto in caso di minaccia reale e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della società. Inoltre, tramite l’art. 53, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali la CGUE si rifà agli standard di tutela emersi dalla giurisprudenza CEDU: in tal senso, la Corte nota che i giudici di Strasburgo hanno già affermato a più riprese come la relazione di una coppia omosessuale ben possa rientrare nella nozione di “vita privata”, nonché in quella di “vita familiare”, al pari della relazione che lega una coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione (Corte EDU, 7.11.2013, Vallianatos e a. c. Grecia, Corte EDU, Orlandi e a. c. Italia, 14.12.2017). Dovendo quindi garantire un livello di protezione quantomeno equivalente a quello offerto dalla CEDU per gli stessi diritti, la CGUE conclude che ammettere la restrizione imposta dal diritto rumeno ai Sig.ri Coman e Hmilton sarebbe in contrasto con il rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 7 della Carta. In conclusione, il Sig. Hamilton ha un diritto di soggiorno in Romania; e poiché tale diritto non può essere sottoposto a condizioni più rigorose di quelle sancite dalla direttiva 2004/38, applicabile per analogia al caso concreto, il Sig. Hmilton beneficia anche dell’art. 7, par. 2, della direttiva (che di regola consente al familiare straniero che accompagni o raggiunga un cittadino europeo di soggiornare per più di tre mesi nello Stato membro ospitante).
Anche al centro del caso Banger (CGUE, 12.7.2018, C‑89/17) vi è l’applicabilità o meno dell’art. 21, par. 1, TFUE e della direttiva 2004/38 alla circolazione di un cittadino di Stato terzo che sia partner di un cittadino dell’Unione. La Sig.ra Banger è cittadina sudafricana e partner del Sig. Redo, cittadino del Regno Unito. Dopo che entrambi avevano vissuto per un certo periodo di tempo nei Paesi Bassi, si recavano nel Regno Unito, dove la Sig.ra Banger richiedeva una carta di soggiorno. Le autorità competenti rigettavano la richiesta, perché la normativa interna non consente il rilascio di una carta di soggiorno a chi sia “partner non coniugato” di un cittadino del Regno Unito. La Sig.ra Banger impugnava il provvedimento e il giudice nazionale rivolgeva alcuni quesiti alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Per rispondere al giudice remittente, la CGUE anticipa che ai cittadini di Stati terzi non si applica la direttiva 2001/38, ma che questi in alcuni casi possono beneficiare dell’art. 21, par. 1, TFUE. Rifacendosi alla sentenza Coman e a. (CGUE, 5.6.2018, C-673/16), la Corte conclude nuovamente per l’applicazione analogica alla fattispecie dell’art. 3, par. 2, della direttiva, che impone allo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, di agevolare l’ingresso e il soggiorno anche del partner con il quale il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata. La CGUE precisa che tale norma concede un determinato vantaggio alle domande presentate dai cittadini di Stati terzi in essa indicati rispetto alle domande di ingresso e di soggiorno di altri cittadini di Stati terzi: non a caso, la disposizione in parola dispone che “lo Stato membro ospitante effettua un esame approfondito della situazione personale e giustifica l’eventuale rifiuto del loro ingresso o soggiorno”. Pertanto, la Sig.ra Banger ha diritto non solo all’agevolazione del proprio ingresso e soggiorno nel Regno Unito, ma anche che la sua richiesta sia valutata tenendo conto di tutti i vari fattori che possono risultare pertinenti e che un eventuale rigetto sia motivato. In questa ultima ipotesi, in virtù di un’interpretazione della direttiva 2004/38 che sia conforme all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, il familiare del cittadino europeo ha la possibilità di ricorrere contro la decisione, avvalendosi delle garanzie procedurali dell’art. 21, par. 1, della direttiva stessa. Se ne ricava che la Sig.ra Banger potrà fondare il proprio ricorso su una base tanto di diritto quanto di fatto, purché sufficientemente solida. Infine, la Corte aggiunge che le garanzie procedurali del ricorrente dovranno sempre essere rispettate e che fra dette garanzie sussiste l’obbligo, per le autorità nazionali competenti, di effettuare un esame approfondito della situazione personale dell’interessato e di motivare ogni rifiuto di ingresso o di soggiorno. 
 
Circolazione dei cittadini dell’Unione e prestazione di malattia transfrontaliera
Il caso A– Aide pour une personne handicappée (CGUE, 25.7.2018, C‑679/16) verte sul concetto di “prestazione di malattia” e sull’applicabilità dell’art. 21, par. 1, TFUE al cittadino dell’Unione che chieda coperture a titolo di prestazione di malattia per beneficiare del suo diritto di circolazione e soggiorno in un altro Stato UE. Il cittadino finlandese A. è un ragazzo disabile ed economicamente inattivo, bisognoso di assistenza individuale quotidiana. Presentava apposita domanda presso il comune di residenza (Espoo), chiedendo però che la fornitura dei servizi richiesti avvenisse in Estonia: il suo obiettivo, infatti, era ottenere una copertura economica per proseguire gli studi superiori a Tallin per circa tre anni. A., comunque, specificava che non avrebbe trasferito la propria residenza a Tallin: sarebbe rimasto lì solo tre o quattro giorni a settimana, salvo poi ritornare regolarmente a Espoo. La domanda di A. veniva respinta, con la motivazione che la normativa nazionale non prevedeva il diritto a questo tipo di assistenza per soggiorni al di fuori della Finlandia che potessero essere considerati di natura occasionale (anche se il comune di residenza rimaneva Espoo). A. decideva di impugnare il provvedimento che gli negava l’assistenza richiesta. Il giudice adito si rivolgeva alla CGUE per sapere se la prestazione richiesta da A. rientrasse nella casistica delle prestazioni di malattia (art. 3, par. 1, lett. a), reg. 883/2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale) e, in caso negativo, se il provvedimento delle autorità finlandesi nel caso di specie fosse contrario agli artt. 20 e 21 TFUE. La Corte inizialmente limita il campo di applicazione ratione materiae del giudizio, esponendo le due condizioni cumulative che integrano la nozione di “prestazioni previdenziali”: (i) la prestazione deve essere attribuita ai beneficiari, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione legalmente definita e (ii) deve riferirsi a uno dei rischi espressamente elencati nell’articolo 3, par. 1, reg. 883/2004 (che menziona al primo posto le prestazioni di malattia). Circa la situazione del Sig. A, la Corte ritiene soddisfatta la prima condizione, ma non la seconda, dato che l’assistenza personale prevista dalla legge finlandese sulle prestazioni a favore delle persone con disabilità non può essere considerata come intesa a migliorare lo stato di salute del beneficiario disabile: in effetti, la legge in commento è diretta a creare condizioni che consentano alle persone con disabilità di vivere e interagire attivamente con gli altri come membri paritari della società, nonché a prevenire ed eliminare difficoltà e ostacoli dovuti a una disabilità. Posto che l’assistenza richiesta da A. non rientra nelle prestazioni di malattia di cui al regolamento UE sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, la Corte analizza anche il secondo quesito. Afferma che l’art. 165, par. 1, TFUE rende gli Stati membri competenti a stabilire i contenuti dell’insegnamento e l’organizzazione dei rispettivi sistemi educativi; tuttavia, la Corte aggiunge che anche nell’esercizio di questa competenza le autorità nazionali devono rispettare il diritto dell’Unione, in particolare la libertà di circolazione e soggiorno sancita all’art. 21, par. 1, TFUE. Nel caso di A., la Corte conferma che la misura nazionale è pregiudizievole per tale diritto, in quanto ne scoraggia l’esercizio: in virtù della legge finlandese oggetto di causa A. sarebbe svantaggiato se si recasse in Estonia per studiare. Oltre a ciò, la Corte conclude che la restrizione a danno di A. non è ammissibile, poiché non risulta fondata su considerazioni oggettive d’interesse generale, indipendenti dalla cittadinanza dell’interessato, e non è commisurata allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale. In realtà, il governo finlandese ritiene che nessun motivo imperativo di interesse generale sia idoneo a giustificare la restrizione di cui trattasi nel procedimento principale. Per contro, il governo svedese è dell’idea che la restrizione sia riconducibile agli obblighi di sorveglianza sulle modalità di organizzazione dell’assistenza personale ai quali il comune sarebbe soggetto per assicurare la garanzia dell’equilibrio finanziario del sistema di previdenza sociale. Malgrado questa osservazione, nel ragionamento della Corte, il comune di Espoo non incontrerebbe particolari difficoltà nel vigilare sul rispetto dei requisiti per la concessione e delle modalità di organizzazione ed erogazione dell’assistenza richiesta da A., che si sposterebbe a Tallin solo qualche giorno a settimana: A. manterrebbe un collegamento reale e sufficiente con il proprio Stato di cittadinanza e sarebbe facilmente controllabile nonostante i suoi spostamenti da e verso Tallin. Pertanto, la misura restrittiva derivante dalla normativa finlandese viene giudicata contraria all’art. 21, par. 1, TFUE.

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