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Fascicolo 3, Novembre 2018


«Se fosse tuo figlio riempiresti il mare di navi di qualsiasi bandiera. Vorresti che tutte insieme a milioni facessero da ponte per farlo passare.

Premuroso, non lo lasceresti solo, faresti ombra per non far bruciare i suoi occhi, lo copriresti per non farlo bagnare dagli schizzi d'acqua salata.

Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare uccideresti il pescatore che non presta la barca, urleresti per chiedere aiuto, busseresti alle porte dei governi per rivendicare la vita.

Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto, odieresti il mondo, odieresti i porti pieni di navi attraccate. Odieresti chi le tiene ferme e lontane da chi, nel frattempo sostituisce le urla con acqua di mare.

Se fosse tuo figlio li chiameresti vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso. Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti,  vorresti spaccargli la faccia, annegarli tutti nello stesso mare.

Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa non è tuo figlio, non è tuo figlio.  Puoi dormire tranquillo e soprattutto sicuro.  Non è tuo figlio.

È solo un figlio dell'umanità perduta, dell'umanità sporca, che non fa rumore. Non è tuo figlio, non è tuo figlio.

Dormi tranquillo, certamente non è il tuo».

 

(Sergio Guttilla, Capo Scout Agesci nel gruppo Bolognetta1, Dedicata ai 100 morti in mare, in attesa di una nave che li salvasse, 29 VI 2018).

Asilo e protezione internazionale

LO STATUS DI RIFUGIATO

Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
L’appartenenza al gruppo sociale dei renitenti alla leva giustifica, nell’argomentare della Corte d’appello di Bologna (sentenza n. 1388/2018), il riconoscimento dello status di rifugiato.
Nella pronuncia in esame, il giudice di secondo grado, nel respingere l’appello proposto dal Ministero dell’interno avverso la decisione del Tribunale di Bologna, ha condiviso la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del ricorrente (il quale aveva riferito di esser originario di Donbass e di aver ricevuto comunicazioni dall’ufficio militare competente in merito alla possibilità di essere chiamato alle armi come riservista) e, in ragione della situazione in Ucraina, della normativa sulla chiamata alle armi, delle sanzioni per la renitenza o la diserzione e della commissione di crimini di guerra e contro l’umanità nel conflitto in Ucraina, ha confermato il giudizio di attualità del rischio in caso di ritorno nel Paese d’origine del ricorrente.
Il Tribunale di Catanzaro, con decreto del 25.7.2018 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino camerunense appartenente alla minoranza anglofona, soffermandosi sull’esistenza di una discriminazione (per motivi linguistici) come atto persecutorio. In particolare il Collegio ha ritenuto dimostrata l’esistenza di una persecuzione in atto in danno degli anglofoni, minoranza camerunese, sufficientemente grave, per natura e frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, con conseguente fondatezza del timore allegato dal ricorrente e grave rischio per la sua incolumità e quella della sua famiglia in caso di rimpatrio. Nel decreto in esame si legge che: il ricorrente proveniva da Douala (sita nel sud ovest del Paese) ed era stato ritenuto credibile quanto all’appartenenza alla minoranza anglofona; il conflitto aveva carattere personalizzante, nella misura in cui coinvolgeva due categorie ben individuate (anglofoni e forze di sicurezza); rimpatriare il ricorrente – anglofono – in una città come Douala, prossima geograficamente al conflitto e a maggioranza francofona, determinerebbe il forte rischio che lo stesso subisca discriminazioni, anche violente, per la sua appartenenza alla minoranza linguistica, senza la possibilità per lo stesso di avvalersi della protezione del suo Paese, primo autore della repressione violenta degli appartenenti alla sua categoria.
L’aver subito in passato una mutilazione genitale e l’esser stata costretta ad un matrimonio forzato giustificano, nella decisione assunta il 13.6.2018 dal Tribunale di Catanzaro , il riconoscimento dello status di rifugiato. Il Collegio, ritenuta la credibilità del racconto, quanto meno in relazione alla connessione dell’infibulazione con il matrimonio forzato, ha osservato che secondo le Linee Guida n. 9 dell’UNHCR, il matrimonio forzato costituisce persecuzione fondata sul genere. Nel decreto in esame si legge che: «quest’ultimo, in uno con la mutilazione già subita, lasciano ragionevolmente ritenere che in caso di rimpatrio, la ricorrente sarebbe esposta al rischio concreto di essere perseguitata dai suoi familiari, per il disonore e la vergogna che la stessa ha loro arrecato con l’abbandono del marito. Il timore allegato, ossia quello di lesione della sua incolumità personale da parte della famiglia, appare quindi fondato. E ciò non soltanto in base alla presunzione secondo la quale, per effetto del suo comportamento, è stata rinnegata dalla famiglia, ma anche e soprattutto perché quella stessa famiglia ha già dimostrato – costringendola alla mutilazione e al matrimonio – di non proteggerne le ragioni. Né tale protezione può con alta probabilità attendersi da parte delle autorità statali, in quanto l’art. 378 dell’Ivorian Penal Code incrimina il matrimonio forzato solo se la donna è infradiciottenne, mentre consente tale pratica in caso di maggiore età. E dal momento che la ricorrente si è sposata a diciannove anni, la stessa non troverebbe alcuna tutela».
 
Opinioni politiche
Il Tribunale di Brescia (24.1.2018) ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Biafra, di cittadinanza nigeriana, in ragione della sua appartenenza all’IPOB(Indigenous People of Biafra). Particolarmente interessante la motivazione relativa alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni del ricorrente, compiuta in modo del tutto discordante rispetto a quella effettuata dalla Commissione territoriale, anche grazie all’esame di elementi emersi a chiarimento nel corso dell’audizione dinanzi al Tribunale. Il Collegio bresciano ha ritenuto che l’incarcerazione subita dal ricorrente per aver manifestato pacificamente per l’indipendenza del Biafra, le torture subite in carcere, nonché il persistere della persecuzione attuata dal governo della Nigeria nei confronti degli appartenenti all’IPOB costituiscano prova del fondato timore del richiedente di essere perseguitato ai sensi degli artt. 2 lett. e) e 7, co. 1 e 2 lett. a), d.lgs. n. 251/07.
Ancora il Tribunale bresciano, con decisione del 18.9.2018 ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Togo che aveva manifestato e si era proposto come promotore di istanze sociali contro l’amministrazione togolese, a causa dell’indifferenza della stessa verso le esigenze della comunità rurale e che, proprio per questo, in ben due occasioni era stato arrestato ed imprigionato arbitrariamente, oltre a subire violenze. Il Collegio ha ritenuto sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, alla luce dei seguenti elementi: l’iscrizione e la partecipazione del richiedente al movimento politico P.N.P. (Parti National Panafrican) e la sua partecipazione nella vita politico sociale della propria comunità; il compimento di atti persecutori nei confronti dell’odierno ricorrente per il solo fatto di protestare o comunque di dissentire dalle politiche governative; la sottoposizione dello stesso a gravi atti lesivi (pestaggi ed arresti arbitrari) di diritti fondamentali (limitazione del diritto di associazione, di critica politica, della dignità della persona e della libertà personale) ripetuti nel tempo ad opera dello Stato di origine o di apparati di esso; la possibilità di individuare l’agente di persecuzione nel rappresentante locale dell’attuale governo, il prefetto, responsabile sia della repressione dei manifestanti, sia del secondo arresto del richiedente.
 
Persecuzione per motivi di religione
La Suprema Corte – con la pronuncia n. 21612/2018 – nel confermare la sentenza della Corte d’appello di Napoli che aveva ritenuto insussistenti i requisiti per il riconoscimento dello status – si è soffermata su un’ipotesi di persecuzione per ragioni di fede religiosa, perpetrata dai genitori del ricorrente. Sebbene, pertanto, venga ribadito (implicitamente) come anche i genitori possano rappresentare un agente di persecuzione non statale, rispetto al motivo della fede religiosa, nel caso in esame, il racconto del ricorrente non è stato ritenuto credibile, proprio in ragione delle dichiarazioni rese dallo stesso (egli, infatti, aveva riferito che aveva sempre vissuto con i genitori ed aveva frequentato scuole cristiane, in tal modo dovendosi ritenere non verosimile che il padre potesse non approvare proprio quella fede che era maturata nella scuola cristiana dove gli stessi genitori avevano iscritto il figlio).
 
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
Art. 14 lett. c), d.lgs. 251/2007
Nell’ordinanza n. 14006/2018, la Suprema Corte, dopo aver richiamato i principi affermati dalla Corte di Giustizia, nelle note pronunce rese nella cause C-285/12 e C-465/2007, ha censurato la decisione del giudice di prime cure che, argomentando della situazione del Paese di provenienza del ricorrente, il Kashmir (Pakistan), si è limitata a ritenere che la crescente insicurezza nel Paese, il clima di violenza diffusa, l’instabilità politica, la forte discriminazione delle minoranza religiose, la mancanza di libertà di espressione, l’abuso dell’utilizzo della pena di morte e le nuove leggi contro il terrorismo determinerebbero un serio rischio per l’incolumità del ricorrente in caso di rientro in Pakistan. Ad avviso della Corte, una tale motivazione non è rispettosa dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in merito all’individuazione dei presupposti per ritenere sussistente una situazione di conflitto armato da violenza indiscriminata. Ha, pertanto, cassato la decisione impugnata, riaffermando il seguente principio di diritto: «in tema di protezione sussidiaria dello straniero prevista dall’art. 14 lett. c), d.lgs. n. 251 del 2007, l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno, nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel Paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia».
 
Art. 14 lett. a) e b), d.lgs. 251/2007
La Corte di Cassazione, ord. 21610/2018 – chiamata a pronunciarsi sul caso di un cittadino guineano che aveva dichiarato di essere stato costretto a fuggire dal proprio Paese d’origine in seguito all’incendio scoppiato in una pompa di benzina (dal quale era derivata la morte di un bambino) ed a causa dell’impossibilità di chiedere protezione alle autorità statuali (in ragione delle pratiche corruttive dilaganti nella polizia locale e nel sistema giudiziario, nonché delle gravi condizioni carcerarie e delle pene molto elevate per l’omicidio colposo ed il danneggiamento) – ha ribadito il dovere del giudice di effettuare una verifica officiosa sull’attuale situazione del Paese d’origine del richiedente e sull’eventuale inutilità di una richiesta di protezione alle autorità locali. Non può, infatti, essere esclusa la sussistenza del requisito del «danno grave» sulla base della asserita possibilità di chiedere protezione alle autorità, omettendo di effettuare gli accertamenti richiesti circa le pratiche corruttive all’interno delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario della Guinea, che avrebbero reso vana la richiesta di protezione.
Il Tribunale di Bari, con decreto del 6.9.2018 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino del Bangladesh in ragione della sua passata militanza politica presso il BNP e della sua attività di collaborazione giornalistica con la testata Mukto-mona. In particolare, il Collegio barese ha evidenziato che il ricorrente, avendo collaborato con la predetta testata giornalistica – “congregazione” di liberi pensatori, razionalisti, scettici, atei e umanisti con lo scopo di promuovere la scienza, i diritti umani e la tolleranza religiosa – possa subire ritorsioni ad opera del partito di governo, Awami League, o da parte di altri gruppi islamici, in ragione del fatto che nel Paese d’origine continuano ad essere diffuse forme di aggressione nei confronti di individui portatori di opinioni laiche.
 
QUESTIONI PROCESSUALI
Rapporto tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale
Con decreto del 10.4.2018, il Tribunale di Brescia – investito di un ricorso avverso il decreto con il quale la Commissione territoriale di Brescia, sezione di Bergamo, aveva deliberato la sospensione della procedura attivata in sede amministrativa – ha dichiarato la domanda inammissibile per difetto di giurisdizione, non potendo essere autonomamente impugnabile una tale decisione dinanzi al Tribunale. Nella decisione si legge che proprio l’art. 35-bis, d.lgs. n. 25/2008 prevede che l’impugnazione avanti il Tribunale riguardi le decisioni delle Commissioni territoriali (o di quella nazionale), decisioni che, tuttavia, sono quelle di cui all’art. 32, d.lgs. n. 25/2008, cioè il riconoscimento di una forma di protezione, il rigetto per difetto dei presupposti o la dichiarazione di inammissibilità. In esito al provvedimento di sospensione, il richiedente è tenuto a richiedere alla Commissione la riapertura del procedimento. Quand’anche a seguito della mancata richiesta di riapertura venisse disposta l’estinzione della procedura, il richiedente ben potrebbe ripresentare la propria domanda di protezione internazionale alla Commissione, come implicitamente consente l’art. 23-bis, co. 2, d.lgs. cit. che richiede soltanto un preventivo vaglio da parte del Presidente della Commissione, ai sensi dell’art. 29, co. 1-bis d.lgs. cit. riguardo ai motivi addotti a sostegno dell’ammissibilità della domanda, comprese le ragioni dell’allontanamento.
Ancora il Tribunale di Brescia (12.6.2018) chiarisce che, in seguito alla declaratoria di estinzione – pronunciata in conseguenza della mancata domanda di riapertura del procedimento amministrativo – il ricorrente, non può proporre ricorso alla sezione specializzata, ma dovrà ripresentare la propria domanda di protezione internazionale alla Commissione, come implicitamente consente l’art. 23 bis, co. 2, d.lgs. cit. che richiede soltanto un preventivo vaglio da parte del Presidente della Commissione, ai sensi dell’art. 29, co. 1 bis, d.lgs. cit. riguardo ai motivi addotti a sostegno dell’ammissibilità della domanda, comprese le ragioni dell’allontanamento (decreto del 12.6.2018, con il quale il Tribunale ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso).
Il Tribunale di Trieste, con ordinanza del 22.6.2018 , ha accolto il ricorso ex art. 700 c.p.c. proposto da un richiedente al quale era stata preclusa la possibilità di presentare una domanda di protezione internazionale perché privo di un’autonoma sistemazione, ordinando al questore di Pordenone di procedere alla registrazione/accettazione della domanda di protezione internazionale da parte del ricorrente. In particolare, nel provvedimento in esame si legge che «la normativa interna, nel prevedere che la domanda di asilo sia presentata all’ufficio di polizia di frontiera ovvero alla questura competente per il luogo di dimora a) non legittima un rifiuto assoluto e protratto di ricevere tale domanda, dovendo la norma essere interpretata alla luce del mutato contesto normativo (6, § 1, secondo alinea, della direttiva 2013/32/UE) ed imponendosi in ogni caso all’autorità statale l’obbligo che la registrazione sia effettuata entro sei giorni lavorativi dopo la presentazione della domanda; b) deve essere intesa come presupponente, al fine della presentazione della domanda di protezione, una semplice situazione di transeunte dimora, anche caritatevole, come tale sufficiente per far scattare l’obbligo di accettare la richiesta di registrazione».
 
Valutazione di credibilità
La Suprema Corte, nella pronuncia n. 15673/2018, torna a pronunciarsi sulle valutazione di credibilità e, in particolare, sul valore da attribuire al mutamento tra le dichiarazioni rese in sede di audizione amministrativa e quelle rese dinanzi al Tribunale. Nel caso in esame, la Corte di Cassazione ha condiviso il giudizio di inattendibilità soggettiva del ricorrente (cittadino turco di etnia curda) il quale, dinanzi alla Commissione territoriale, aveva dichiarato di aver rifiutato di svolgere il servizio militare non per ragioni legate all’obiezione di coscienza, bensì unicamente per non essere coinvolto negli scontri in corso presso i confini turchi. Nel corso dell’audizione dinanzi al Tribunale, invece, ha dichiarato di essere renitente alla leva in quanto obiettore di coscienza e di temere, per tale ragione, di correre un grave rischio in caso di rientro in Turchia, il cui ordinamento prevede pene severe per gli obiettori. Il negativo giudizio sulla credibilità soggettiva fa venir meno uno degli elementi costitutivi dello status di rifugiato, rappresentato dal nesso di causalità tra il fondato timore di persecuzione e uno dei motivi previsti dalla Convenzioni di Ginevra del 1951 e dall’art. 8, d.lgs. 251/2007.
 
Fissazione dell’udienza in assenza di videoregistrazione ed audizione del ricorrente
La Corte di Cassazione , nella pronuncia n. 17717/2018 – chiamata a pronunciarsi in merito ad un decreto del Tribunale di Napoli che aveva deciso di non procedere ad un nuovo colloquio personale e di non fissare udienza di trattazione, in considerazione della «sufficienza della verbalizzazione» delle dichiarazioni rese nel corso della fase amministrativa – ha affermato che «in materia di protezione internazionale, ai sensi dell’art. 35 bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 13 […] ove non sia disponibile la videoregistrazione con mezzi audiovisivi del richiedente la protezione dinnanzi alla Commissione territoriale, il Tribunale chiamato a decidere del ricorso avverso la decisione adottata dalla Commissione, è tenuto a fissare l’udienza di comparizione delle parti a pena di nullità del suo provvedimento decisorio, salvo il caso dell’accoglimento dell’istanza del richiedente asilo di non avvalersi del supporto contenente la registrazione del colloquio». Ad avviso della Suprema Corte, tale interpretazione è resa evidente non solo dalla lettura, in combinato disposto, dei commi 10 ed 11 dell’art. 35-bis, d.lgs. n. 25 del 2008, che distinguono, rispettivamente, i casi in cui il giudice può fissare discrezionalmente l’udienza, da quelli in cui egli deve necessariamente fissarla, ma anche dalla valutazione delle intenzioni del legislatore che ha previsto la videoregistrazione quale elemento centrale del procedimento, per consentire al giudice di valutare il colloquio con il richiedente in tutti i suoi risvolti, inclusi quelli non verbali, anche in ragione della natura camerale non partecipata della fase giurisdizionale.
La sentenza, pur affermando che la mancata ripetizione dell’udienza nel caso di mancanza di videoregistrazione determina la nullità della decisione, allo stesso tempo ribadisce il proprio orientamento, formatosi con riferimento alle procedure trattate con il rito sommario ante riforma, sulla non necessità della ripetizione del colloquio personale, la cui mancata rinnovazione non determina la nullità della decisione.
 
Questioni di legittimità costituzionale dell’art 35 bis, d.lgs. 25/2008 e dell’art. 21, d.l. 13/2017, convertito nella l. 46/2017
Nella pronuncia n. 17717/2018, la Suprema Corte ha affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-bis, co. 13, d.lgs. n. 25 del 2008, nella parte in cui stabilisce che la procura alle liti per la proposizione del ricorso per Cassazione debba essere conferita, a pena di inammissibilità, in data successiva alla comunicazione del decreto da parte della Cancelleria, poiché tale previsione non determina una disparità di trattamento tra la parte privata ed il Ministero dell’interno, che non deve rilasciare procura, armonizzandosi con il disposto dell’art. 83 c.p.c., quanto alla specialità della procura, senza escludere l’applicabilità dell’art. 369, co. 2, n. 3 c.p.c.
Manifestamente infondata è stata, altresì, considerata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35 bis, co. 13, d.lgs. n. 25 del 2008, relativa all’eccessiva limitatezza del termine di trenta giorni prescritto per proporre ricorso per Cassazione avverso il decreto del Tribunale, poiché la previsione di tale termine è stata ritenuta espressione della discrezionalità del legislatore e trova fondamento nelle esigenze di speditezza del procedimento.
Del pari manifestamente infondata, ad avviso della Suprema Corte, la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, dell’art. 35-bis, co. 1, d.lgs. n. 25 del 2008 poiché il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di status, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perché tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perché in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte.
Infine, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, co. 1, d.l. n. 13 del 2017, conv. con modifiche in l. n. 46 del 2017, per difetto dei requisiti della straordinaria necessità ed urgenza poiché la disposizione transitoria – che differisce di 180 giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito – è connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale per consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime.
 
Patrocinio a spese dello Stato
La Corte di Cassazione, n. 5819/2018 – espressamente affermando di non poter condividere le argomentazioni contenute nella sentenza n. 18538/2012, secondo cui qualora la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia vittoriosa in una controversia civile proposta contro un’amministrazione statale, l’onorario e le spese spettanti al difensore vanno liquidati ai sensi dell’art. 82 del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, ovvero con istanza rivolta al giudice del procedimento, non potendo riferirsi a tale ipotesi l’art. 133 del medesimo d.p.r. n. 115 del 2002, – ha statuito che in un giudizio di protezione internazionale che vede soccombente il Ministero, a carico di quest’ultimo devono essere poste anche le spese relative all’interprete, mentre l’ufficio del gratuito patrocinio è tenuto a sopportare le spese solo nel caso in cui risulti soccombente la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
Chiamata a pronunciarsi in merito alla revoca del provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio, la Suprema Corte, nella pronuncia n. 21610/2018 – dopo aver richiamato il principio, già affermato nella sentenza n. 20270/2017, secondo il quale l’art. 136 d.p.r. 115/2002 disancora il giudizio sul merito dell’azione giudiziaria proposta da quello della fondatezza del decreto di revoca, che deve basarsi esclusivamente sul dolo o colpa grave nell’agire in giudizio, e non sull’infondatezza dell’azione nel merito – ha accolto il ricorso avverso il provvedimento con il quale la Corte d’appello di Torino aveva fondato la revoca sulle «esposte ragioni di infondatezza dell’appello», in contrasto con il principio sopra enunciato.
Con riferimento allo scaglione da applicare per la liquidazione dei compensi al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, la Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 16671/2018, ha affermato che, laddove il Tribunale riconosca che la causa in materia di protezione internazionale sia di valore indeterminato, lo scaglione da applicare per la liquidazione del compenso professionale avrebbe dovuto essere parametrato allo scaglione compreso da un minimo di €. 26.000 ed un massimo di €. 260.000. Nella sentenza si legge che la dizione «di valore non inferiore a 26.000 euro» non sta a significare che i 26.000 euro rappresenterebbero il valore massimo ma, al contrario, il valore da cui partire per individuare lo scaglione applicabile.
 
Sospensione feriale dei termini
La sesta sezione civile della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 16420/2018 ha chiarito che la disciplina introdotta dall’art. 35-bis, co. 14, d.lgs. 25/2008 – che prevede che non operi più la sospensione feriale dei termini – si applica alle cause e ai procedimenti giudiziari sorti dopo il centottantesimo giorno dall’entrata in vigore del nuovo modello processuale introdotto dal d.l. 13/2017, vale a dire dal 17.8.2017. Nella pronuncia in esame è stato chiarito che «la lettura testuale della norma e la sua natura giuridica (processuale) inducono a ritenere che essa trovi applicazione per tutte le controversie instaurate a partire dalla sua entrata in vigore, dovendosi, tuttavia, escludere un’applicazione retroattiva del regime derogatorio della sospensione dei termini feriali».
 
Sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento di diniego
Con decreto del 16.8.2018 il Tribunale di Bologna – chiamato a decidere sull’istanza di sospensione degli effetti di un provvedimento giudiziale di diniego del riconoscimento della protezione internazionale – ha affermato che nella valutazione della domanda di sospensiva debba esservi necessariamente una valutazione del requisito del fumus boni iuris, ma anche del periculum in mora relativo all’istante, relativo al grave ed irreparabile danno che a lui possa conseguire dalla messa in esecuzione della decisione. In merito a tale secondo requisito, il Collegio ha preso in esame le condizioni personali del ricorrente, relative al rischio di rimpatrio forzato del richiedente (non essendo più autorizzato a rimanervi ai sensi dell’art. 32, d.lgs. 25/08 e 13, co. 2, d.lgs. 286/98) e il fatto che egli, essendo accolto in una struttura di accoglienza in pendenza del procedimento relativo alla richiesta di protezione internazionale, perderebbe l’alloggio ai sensi dell’art. 14, d.lgs. 142/15 e la possibilità di procurarsi lecitamente mezzi di sussistenza in mancanza del permesso di soggiorno per richiesta asilo.
 
LA PROTEZIONE UMANITARIA NEL PROCEDIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Con ordinanza n. 5085/2018 la Corte di cassazione enuncia importanti principi in materia di protezione umanitaria: da un lato, il diniego di questa peculiare tutela non può derivare automaticamente dal mancato riconoscimento delle due forme di protezione internazionale (rifugio politico e protezione sussidiaria), necessitando anche questa residuale domanda di una specifica motivazione; dall’altro, la tutela umanitaria non può essere negata per il difetto di credibilità ritenuto sussistente per dette maggiori protezioni.
Secondo la Corte, infatti, «il difetto di credibilità sul rifugio politico e la protezione sussidiaria non esclude l’obbligo di fornire una motivazione non meramente apparente a tale domanda. Nella specie il rigetto della domanda relativa alla protezione umanitaria (art. 5, co. 6, d.lgs. 286/98) è giustificato soltanto dalla reiezione delle altre due domande, senza alcuna indagine sulle diverse condizioni poste a base del peculiare titolo di soggiorno temporaneo da rilasciarsi quando ricorrano gravi violazioni dei diritti umani ancorché non sufficienti ad integrare né i requisiti per il rifugio politico né per la protezione sussidiaria (Cass. n. 26566/2013, 15466/2014), che il giudice, anche ove genericamente dedotti, deve accertare, con riferimento al luogo o ai luoghi del Paese di origine del cittadino straniero».
Inoltre, la Suprema Corte ritiene che, ai fini della valutazione dei presupposti per la protezione umanitaria, non sia elemento irrilevante l’assenza di legami affettivi del richiedente nel Paese di appartenenza, in quanto quella condizione soggettiva «non elide né le allegazioni relative alla situazione di violazione grave dei diritti umani oggettivamente desumibile dalla narrazione delle vicende umane del richiedente, così come risultante dal provvedimento impugnato, né impedisce di accertarne la fondatezza mediante il potere dovere-istruttorio spettante al giudice in tali controversie (art. 27, co. 1 bis, d.lgs. 25/2008)».

 

Lordinanza n. 11399/2018 della Corte di cassazione merita di essere evidenziata non tanto per pacifici principi affermati, quanto perché cassa la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro che aveva annullato la decisione del Tribunale di quel capoluogo – di riconoscimento della protezione umanitaria ad un cittadino del Mali – , ma motivando esclusivamente con riguardo alla protezione sussidiaria (di cui ha escluso il riconoscimento), nonostante l’appello del Ministero riguardasse la decisione sull’umanitaria.
Trattasi di un esempio significativo di come, talvolta, l’autorità giudiziaria tratti con superficialità i giudizi della protezione internazionale.

 

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 21452/2018, nel solco dei principi delineati dalla sentenza n. 4455/2018, ha cassato la sentenza della Corte d’appello di Napoli che, nel negare al richiedente protezione del Gambia il riconoscimento della protezione internazionale (decisione rispetto alla quale i motivi dedotti in Cassazione sono stati ritenuti inammissibili poiché sottendevano una censura di merito), non aveva esaminato e valutato l’integrazione lavorativa in Italia del richiedente, omettendo di comparare l’attuale sua condizione soggettiva con quella a cui sarebbe esposto in caso di rientro nel Paese di appartenenza.

 

Con sentenza n. 67/2018 la Corte d’appello di Trento , affronta alcune questioni rilevanti nei giudizi di protezione internazionale: a) l’incidenza della comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 legge 241/90, prima della decisione negativa della Commissione territoriale, escludendola in quanto il giudizio non è di impugnazione dell’atto amministrativo ma di riconoscimento del diritto alla protezione, b) la necessità della traduzione in lingua conosciuta dal destinatario, ritenuta dalla Corte non incidente sul diritto di difesa tant’è che il richiedente ha potuto proporre tempestivamente ricorso; c) l’importanza della credibilità per tutte le forme di protezione richieste, compresa quella umanitaria (Cass. 26641/2016) e la necessità che, se pur non contestata né dalla Commissione territoriale né in sede giudiziale dal Ministero dell’interno, sia rivalutata dal giudice, tenendo conto dei principi espressi dalla giurisprudenza nazionale ed europea (Cass. 8282/2013); d) l’inesistenza dell’obbligo per il richiedente di qualificare giuridicamente il fatto allegato a fondamento della richiesta di protezione (Cass. 7333/2015); e) l’onere di cooperazione istruttoria del giudice.
Nel merito dell’appello, la Corte trentina esclude il riconoscimento delle forme maggiori di protezione (confermando la decisione di 1^ grado) con ampi richiami di giurisprudenza ma riconosce al richiedente del Bangladesh la protezione umanitaria in quanto, valutando gli stessi fatti posti a base della richiesta di protezione internazionale, ha ritenuto che il rimpatrio esporrebbe l’interessato a violazioni di diritti umani fondamentali a causa della insicurezza del Paese, in cui potrebbe trovarsi «suo malgrado coinvolto nei disordini che frequentemente pare affliggano la zona».

 

Con sentenza n. 246/2018 la Corte d’appello di Trieste , annullando la decisione di rigetto di 1^ grado, ha riconosciuto ad un giovane richiedente protezione internazionale del Gambia la protezione umanitaria, ritenendo sussistenti i presupposti ex art. 5, co. 6 TU 286/98 in ragione del suo esodo dal Paese durante la minore età, l’essere stato vittima (già orfano) di maltrattamenti familiari e di violenze inenarrabili in Libia (queste ultime certificate da specifica relazione psicologica), nonché valorizzando il positivo inserimento sociale in Italia.

 

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 2285/2018, ha annullato la decisione di 1^ grado, di rigetto del ricorso proposto da un richiedente protezione internazionale del Ghana, ritenendo che il Tribunale abbia disapplicato i principi per l’esame della domanda sanciti dall’art. 3, d.lgs. 251/2007 (dovere di cooperazione istruttoria, verifica dei criteri di valutazione in assenza di documentazione comprovante le dichiarazioni, necessaria verifica della coerenza tra credibilità soggettiva e pertinenti informazioni sul Paese di origine), in quanto ha ritenuto le dichiarazioni del richiedente soggettivamente credibili (coazione alla successione ereditaria ad una carica religiosa tradizionale) ma non plausibili e coerenti con le specifiche informazioni sul Ghana. La Corte d’appello, invece, dopo avere accertato attraverso le fonti allegate che «le ritualità religiose tradizionali sono una realtà anche in Ghana (come nella gran parte dei Paesi africani)» e che «… le tradizioni locali possono incidere fortemente sulla vita delle persone, anche limitando le libertà individuali, pur aggiungendo che le autorità pubbliche spesso intervengono di fronte a violazioni normative e in caso di crimini commessi anche sulla base di superstizioni locali», ha ritenuto coerenti complessivamente le dichiarazioni del giovane secondo l’insieme dei parametri legali di cui sopra. Tuttavia, ha ritenuto insussistente il fondato timore di subire un danno grave ai sensi dell’art. 14 lett. b), d.lgs. 251/2007 perché la paura delle conseguenze del rifiuto di successione alla carica religiosa è elemento prettamente soggettivo, non essendoci riscontri circa azioni della comunità compiute nei suoi confronti.
La Corte felsinea ha riconosciuto, però, la protezione umanitaria proprio in ragione di quel timore soggettivo (che trova, come detto, oggettivi riscontri in Ghana) ed in quanto «il rientro in Ghana lo esporrebbe al rischio di essere costretto ad assumere la carica e in caso di persistente rifiuto a conseguenze sociali quali l’ostracismo da parte della comunità e dunque l’espulsione dalla stessa». Il giudice d’appello ha, inoltre, valorizzato la risalenza nel tempo della migrazione ed il fatto che all’epoca il richiedente era ancora minorenne, evidenziando il rischio di emarginazione in caso di rientro nel Paese.

 

Con ordinanza 28.7.2018 il Tribunale di Bologna (RG. 14618/2016)  ha riconosciuto ad un richiedente protezione internazionale del Senegal - Casamance la protezione umanitaria, ritenendo sussistenti i seri motivi di carattere umanitario e gli obblighi costituzionali ed internazionali, di cui all’art. 5, co. 6 TU 286/98, tenuto conto della condizione di grave povertà e privazione culturale del suo vissuto in quel Paese, delle gravi violenze subite in Libia (Paese di transito) e dell’impossibilità di un positivo reinserimento in Senegal. Elementi che escludono egli possa vivere dignitosamente, ovverosia esercitando effettivamente i diritti umani fondamentali.
Il Tribunale ha, anche, valorizzato il positivo percorso di integrazione in Italia (apprendimento della lingua, partecipazione a vari progetti di volontariato e assunzione del ruolo di mediatore culturale con altri ospiti della struttura pubblica di accoglienza).

 

Con ordinanza 10.7.2018 il Tribunale di Firenze (RG. 12206/2016)  ha riconosciuto ad un richiedente protezione internazionale del Senegal la protezione umanitaria, dopo avere escluso sia il rifugio politico che la protezione sussidiaria per l’irrilevanza delle sue dichiarazioni ai fini dell’istituto in questione. Richiamando le COI della Commissione nazionale asilo, il Tribunale fiorentino ha riconosciuto la tutela residuale in quanto «Non vi è dubbio, infatti, che anche il Senegal sia coinvolto da un apprezzabile grado di violenza terroristica idoneo a costituire un pericolo per l’incolumità del richiedente», nel contempo valorizzando il positivo percorso di integrazione sociale svolto in Italia (apprendimento lingua e attività lavorativa).

 

Con ordinanza 12.4.2018 il Tribunale di Bologna  ha riconosciuto ad un richiedente protezione internazionale della Nigeria la protezione umanitaria, nonostante abbia ritenuto che egli abbia reso dichiarazioni totalmente discordanti davanti alla Commissione territoriale rispetto a quella riferite in giudizio, queste ultime ritenute del tutto inverosimili. Pur in difetto di credibilità soggettiva il Tribunale ha ritenuto sussistenti i presupposti per la tutela umanitaria in ragione della condizione di grave povertà e grave emarginazione sociale in cui viveva in Nigeria, senza sostegni familiari. Effettuando una comparazione tra il vissuto in Italia e quello nel Paese di appartenenza ed il rischio di ulteriore grave esclusione sociale in caso di rimpatrio, il giudice bolognese ha ritenuto sussistenti le serie ragioni umanitarie di cui all’art. 5, co. 6, TU 286/98.

 

Con decreto 26.9.2018 (RG. 2453/2018) il Tribunale di Bari, sezione specializzata , ha rigettato il ricorso di richiedente protezione internazionale della Nigeria (Edo State), proposto per il solo riconoscimento della protezione umanitaria, ex art. 5, co. 6, TU. Il giudice affronta, in primo luogo, il rito applicabile in queste ipotesi (se ex art. 737 c.p.c. o ex art. 702-bis c.p.c.), da cui dipende la sorte processuale della controversia, cioè se soggetta ai tre gradi di giudizio (ex art. 702-bis c.p.c.) o al solo ricorso per Cassazione (ex art. 737 c.p.c.) come previsto dall’art. 35-bis, d.lgs. 25/2008 riformato dal d.l. n. 13/2017.
Il Tribunale giunge a concludere nel senso della ricomprensione all’interno del modello del rito camerale ex art. 737 c.p.c. anche dei ricorsi nei quali si chieda solo il riconoscimento della protezione umanitaria, in quanto: la decisione della Commissione territoriale è unica ed unitaria (art. 32, d.lgs. 25/2008); la domanda di protezione è solo parzialmente soggetta al principio dispositivo e dunque sia in sede amministrativa che giudiziale l’autorità preposta all’esame esamina d’ufficio tutte le tre forme di protezione; dunque, anche senza espressa richiesta, il giudice potrebbe riconoscere una forma superiore a quella richiesta, senza che questo comporti lesione dei diritti di cittadinanza del richiedente il quale potrebbe evitare tale lesione solo con espressa rinuncia ad una specifica forma di protezione; differenziare processualmente i due giudizi a seconda della forma di protezione richiesta risulterebbe discriminatorio ai danni di colui che, richiedendo le forme maggiori di protezione, avrebbe a disposizione un solo grado di giudizio di merito, mentre colui che chiede solo la tutela umanitaria ne avrebbe due.
Decisione che, tuttavia, lascia perplessi perché, pur condividendo la valutazione sull’unitarietà della domanda in sede amministrativa e sull’assenza di onere per il richiedente protezione di qualificare la forma di protezione richiesta (Cass. 14998/2015), contrasta con le regole processuali ordinarie applicabili, se non diversamente previsto dal legislatore, tra le quali il principio dispositivo, per il quale la parte sceglie quale diritto richiedere all’autorità giudiziaria, cui consegue l’applicazione del principio, ad esempio, del legittimo contraddittorio ex art. 101 c.p.c. Se fosse condivisibile il potere dell’autorità giudiziaria di valutare ex officio tutte le forme di protezione internazionale ed umanitaria (oggi di protezione speciale, ex d.l. n. 113/2018), a prescindere dalla espressa domanda proposta, non avrebbe senso giuridico l’indicazione di un termine perentorio di impugnazione e soprattutto il dovere di allegazione, pur attenuata, che grava in capo al ricorrente (ex art. 3, d.lgs. 251/2007), potendo l’autorità giudiziaria d’ufficio acquisire tutte le informazioni a supporto delle dichiarazioni del richiedente. E infatti, in maniera contraddittoria, il Tribunale di Bari, entrando nel merito del ricorso, esclude il riconoscimento del rifugio politico ex art. 7, d.lgs. 251/2007 «atteso che non sono state neppure dedotte, ai sensi di tale disposizione, situazioni di persecuzione intesa quale vessazione o repressione violenta implacabile» e analogamente afferma con riguardo alla protezione sussidiaria (esclusa anche perché l’Edo State sarebbe area nigeriana priva di violenza indiscriminata).
Il Tribunale di Bari, infine, affronta preliminarmente anche la questione dell’udienza, escludendola ma senza effettiva motivazione.
Decisione, anche questa, criticabile in quanto motiva il diniego di riconoscimento della protezione umanitaria, formulata nel ricorso anche con riguardo alle violenze subite durante la permanenza in Libia, perché di queste non vi era traccia nelle dichiarazioni rese davanti alla Commissione territoriale e la circostanza sarebbe stata dedotta solo nel ricorso. Invero, già questa “difformità” doveva essere valutata come «elementi di fatto non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado», di cui all’art. 35-bis, co. 11, d.lgs. 25/2008, che rende necessaria l’udienza con comparizione della parte.
Per il resto, la protezione umanitaria viene negata per ritenuta mancata dimostrazione di condizione di vulnerabilità e di lesione di diritti fondamentali in caso di rientro in Nigeria.
Infine, il giudice barese, rigettando il ricorso e qualificandolo “manifestamente infondato” rigetta la richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato (già negato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bari e riproposto al giudice).
Decisione, quest’ultima, priva di effettiva motivazione e che, non riguardando la nuova ipotesi di cui all’art. 35-bis, co. 17, d.lgs. 25/2008, si pone in contrasto con l’ormai prevalente giurisprudenza della Cassazione che esclude ogni automatismo tra rigetto della domanda giudiziale e revoca del patrocinio a spese dello Stato (analogo principio deve valere per la non ammissione in sede giudiziale).
 
DIRITTO INTERTEMPORALE POST DECRETO LEGGE N. 113/2018

 

Con ordinanza 8.10.2018 (RG. 599/2016) il Tribunale di Palermo  ha riconosciuto ad un richiedente protezione della Nigeria la protezione umanitaria, ex art. 5, co. 6 TU 286/98, dopo avere ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento di entrambe le forme di protezione internazionale, innanzitutto per difetto di credibilità, oltre che dei requisiti legali oggettivi.
Tutela umanitaria dichiarata in relazione alla situazione di estrema insicurezza dell’area del Delta del Niger, da cui il richiedente proveniva.
Il Tribunale ha affrontato la questione della disciplina normativa applicabile alla controversia, instaurata nel 2016, tenuto conto dell’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 che ha modificato l’art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008, prevedendo che la tutela residuale sia riconoscibile solo in relazione all’art. 19, co. 1 e 1.1. TU e non più ai sensi dell’art. 5, co. 6, TU.
Il giudice siciliano ha ritenuto inapplicabile la nuova disciplina, stante la natura non impugnatoria del giudizio, oltre che per non determinare una discriminazione ingiustificata tra la disposizione transitoria prevista per i procedimenti amministrativi ex art. 1, co. 9, d.l. n. 113/2018 ed i procedimenti giurisdizionali ed infine ritenendo applicabile l’art. 11 preleggi al codice civile, secondo cui la legge dispone per l’avvenire.

 

Con ordinanza 15.10.2018 (RG. 7398/2017) il Tribunale di Bologna ha riconosciuto a richiedente protezione internazionale del Senegal la protezione umanitaria in considerazione della condizione di vulnerabilità connessa alla vicenda posta a fondamento della richiesta di protezione (gravi maltrattamenti familiari) e stante l’assenza, in caso di rimpatrio, di significativi legami affettivi e familiari, in una situazione sociale instabile tale da precludergli un’esistenza dignitosa, a fronte, invece, di una positiva integrazione sociale e lavorativa in Italia.
Pur non affrontando espressamente la questione del regime giuridico applicabile alla protezione umanitaria in un giudizio iniziato prima della riforma operata con il d.l. n. 113/2018, nel dispositivo il Tribunale rinvia al questore per il rilascio del permesso di soggiorno umanitario «o come riqualificato ex d.l. 113/2018».
Implicitamente il giudice bolognese ha ritenuto applicabili al giudizio i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria previgenti alla riforma attuata con il d.l. 113, ovverosia quelli indicate dall’art. 5, co. 6 TU nel testo originario del 1998.

 

Con ordinanza 15.10.2018 (RG. 5658/2016) il Tribunale di Firenze , con riguardo al ricorso proposto da un richiedente protezione internazionale della Nigeria (Edo State) – che aveva indicato a motivo della richiesta il rischio di essere costretto ad entrare in una setta religiosa tradizionale (Ogboni) di cui il padre era stato capo a Benin City –, dopo avere escluso il riconoscimento delle due forme di protezione internazionale per insussistenza dei presupposti normativi, ha riconosciuto la protezione umanitaria per il rischio di violazione, in caso di rientro nel Paese, del diritto fondamentale alla libertà religiosa, protetto dalla Costituzione italiana e dalle Carte internazionali sui diritti fondamentali e pertanto obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato (art. 10 Cost.).
Tutela umanitaria che il Tribunale ha collegato anche alla generale situazione di insicurezza sociale di tutta la Nigeria, anche se non assurge a violenza indiscriminata in tutti gli Stati del Paese, con conseguente applicazione del divieto di refoulement di cui all’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sul rifugio politico.
Violazioni dei diritti fondamentali accertate mediante fonti di informazione specifiche, indicate nella pronuncia.
Oltre alla puntuale ricostruzione dell’istituto giuridico della protezione umanitaria, l’ordinanza fiorentina è di particolare interesse perché affronta espressamente il regime giuridico applicabile ad una domanda di protezione internazionale ed umanitaria e ad un giudizio iniziati prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018.
Secondo il Tribunale di Firenze i nuovi criteri di cui al riformato art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008 non possono applicarsi ai procedimenti in corso stante il divieto di retroattività ex art. 11 preleggi al codice civile e la natura sostanziale e non processuale delle nuove previsioni. Inoltre, come la protezione internazionale anche quella umanitaria è una condizione che preesiste al suo riconoscimento (Cass. n. 4455/2018) e la pronuncia che la riguarda ha natura dichiarativa e non costitutiva (Cass. SU n. 907/99).
Infine, nell’ordinanza in esame si ritiene rilevante non creare un’illegittima discriminazione tra coloro che hanno presentato la domanda di protezione prima del 5 ottobre 2018 (data di entrata in vigore del d.l. n. 113/2018) e hanno avuto una decisione nel rispetto dei termini indicati dalla legge per la definizione del procedimento amministrativo e/o giudiziale, e coloro che, invece, hanno conseguito la decisione oltre detti termini.
Conclude il Tribunale affermando che «Con l’arrivo sul territorio nazionale e con la presentazione del modello C/3 si è acquisito il diritto a presentare la domanda di protezione (ovvero di tutte le forme di protezione ex art. 10 Costituzione) e a quel momento si aggancia la normativa applicabile al caso concreto».

 

Con decreto 19.10.2018 (RG. 1086/2018) il Tribunale di Trento,  sezione specializzata, ha riconosciuto la protezione umanitaria a richiedente della Nigeria (Edo State) – la cui domanda traeva origine dal rischio di coazione in una setta religiosa tradizionale –, pur negando la credibilità delle sue dichiarazioni (motivo per cui è stato escluso il riconoscimento della protezione internazionale).
La tutela umanitaria è stata riconosciuta sia in considerazione del suo positivo inserimento sociale e lavorativo, sia in relazione all’accertata situazione di generale insicurezza della Nigeria, pur se non integrante i presupposti di cui all’art. 14, lett. c), d.lgs. 251/2007.
Anche il Tribunale di Trento prende posizione sul diritto intertemporale applicabile al giudizio, affermando che le previsioni del d.l. n. 113/2018 riguardano il diritto sostanziale e pertanto non applicabile retroattivamente ai sensi dell’art. 11 preleggi al codice civile, mentre si applicheranno «alle sole domande di protezione internazionale presentate in epoca successiva alla sua entrata in vigore».
Il giudice trentino, riconoscendo la protezione umanitaria, ha rinviato al questore per il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali, secondo le nuove previsioni di cui all’art. 1, co. 9, d.l. n. 113/2018 [Permesso di soggiorno di durata biennale e convertibile in lavoro].
 
LA PROTEZIONE UMANITARIA DIRETTA
Con sentenza n. 2088/2018 la Corte d’appello di Firenze  ha rigettato l’appello del Ministero dell’interno proposto contro l’ordinanza del Tribunale di Firenze che aveva riconosciuto il diritto di due cittadini albanesi (madre e figlio) al permesso di soggiorno umanitario richiesto direttamente al questore e da questi negato. Il giudice di 1^ grado aveva ritenuto sussistenti i presupposti di cui all’art. 5, co. 6 TU in considerazione del fatto che il nucleo familiare viveva in Italia dal 2005, erano sempre stati titolari di permesso per «assistenza minori» (art. 31, co. 3 TU), i figli avevano frequentato le scuole dell’obbligo ed erano tutti inseriti positivamente nella società italiana anche sotto il profilo lavorativo, per cui «il rientro nella terra di origine risultava essere inumano e crudele secondo il comune sentire ed il generale rispetto della persona umana». Il Ministero dell’interno ha proposto appello affermando l’insussistenza dei seri motivi umanitari che sarebbero rinvenibili solo in esigenze di salute o di nuclei familiari con madri sole.
La Corte d’appello di Firenze ha rigettato l’impugnazione ministeriale, confermando la natura di norma di chiusura del sistema dell’art. 5, co. 6 TU ed affermando che l’integrazione da sola non è sufficiente a riconoscere il diritto soggettivo al permesso di soggiorno umanitario ma va valutata in relazione alla lesione di diritti fondamentali della persona, al rispetto dei quali lo Stato è tenuto per obblighi costituzionali ed internazionali. Nel caso specifico, la Corte ha qualificato diritti fondamentali dei ricorrenti sia il diritto al lavoro che il diritto allo studio, oltre al diritto all’unità del nucleo familiare, valorizzando anche la risalente presenza sul territorio italiano. Conclude la Corte affermando che «Si tratta non di una mera integrazione ambientale, ma di una vera e fattiva integrazione nello Stato per cui sussistono a tutti gli effetti le condizioni per sostenere che lo sradicamento da esso, attraverso il diniego dell’invocato permesso di soggiorno per fini umanitari, rappresenta una condizione di oggettiva vulnerabilità per gli appellati, compromettendosi così i loro diritti fondamentali, e non già una semplice sofferenza per il cambiamento di condizioni di vita in dipendenza dal rientro nel Paese di origine».
La pronuncia assume un particolare significato, sia perché rappresenta uno dei casi, invero meno frequenti nel mondo giudiziario, di applicazione diretta dell’art. 5, co. 6, TU al di fuori della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, ma soprattutto perché non richiede una comparazione tra l’attuale condizione della persona straniera in Italia e quella a cui andrebbe incontro in caso di rimpatrio nel Paese di origine, ove potrebbero essere violati i diritti fondamentali, come affermato anche di recente dalla giurisprudenza nell’ambito della protezione internazionale (Cass. n. 4455/2018). La Corte fiorentina, infatti, effettua una valutazione sulle conseguenze del rimpatrio ma in riferimento alla lesione dei diritti fondamentali acquisiti in Italia, quali il lavoro, lo studio, l’unità familiare.
Decisione che sembra più conforme alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani con riguardo al diritto al rispetto alla vita privata ex art. 8 CEDU, che valorizza di per sé l’integrazione ed il radicamento sul territorio nazionale ove vive la persona straniera.

 

L’ordinanza 11.9.2018 del Tribunale di Trento riguarda un procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., proposto da un cittadino straniero da anni soggiornante in Italia ma che da tempo non aveva avuto il rinnovo del titolo di soggiorno a causa della perdita di lavoro conseguente a problemi di salute. Richiesto al questore di Trento il rilascio di un permesso umanitario ex art. 5, co. 6 TU, detta autorità di p.s. aveva preavvisato il rigetto della domanda, avverso il quale il cittadino straniero ha proposto ricorso cautelare d’urgenza, chiedendo la sospensione della sua efficacia per evitare l’emanazione di un provvedimento espulsivo che riteneva gravemente pregiudizievole.
Il Tribunale di Trento ha accolto la richiesta sospensiva inaudita altera parte e in corso di procedimento ha accolto nel merito il ricorso cautelare, riconoscendo il diritto del ricorrente al permesso umanitario, in quanto l’art. 5, co. 6 TU rappresenta una «norma di chiusura e di garanzia del sistema di accoglimento degli stranieri», che consente di riconoscere una protezione, in presenza di determinati presupposti (nel caso di specie rinvenibili nelle ragioni di tutela della salute), al di fuori del sistema della protezione internazionale.

 

Con ordinanza n. 10291/2018 la Corte di cassazione affronta la peculiare questione del permesso umanitario, rilasciabile dal questore, ex art. 5, co. 6, TU 286/98, alla persona straniera vittima di grave sfruttamento lavorativo, di cui all’art. 22, co. 12-quater TU (introdotto dal d.lgs. 109/2012, di attuazione della direttiva europea n. 52/2009) ed in particolare la valenza giuridica del parere rilasciabile dal pubblico ministero, l’ambito di esercizio del questore ed infine i poteri del giudice ordinario adito in opposizione al diniego di rilascio del permesso umanitario a seguito di parere negativo del PM.
I fatti traevano origine dal diniego di rilascio di questo specifico permesso umanitario in conseguenza del parere negativo del P.M. titolare dell’inchiesta sullo sfruttamento lavorativo (che aveva, invece, rilasciato nulla osta per il rilascio di un permesso per motivi di giustizia, ex art. 11, co. 1 lett. c-bis) d.p.r. 394/99), ritenuto vincolante per il questore al quale, dunque, non era consentita alcuna diversa valutazione discrezionale. Diniego confermato dalla Corte d’appello di Lecce proprio in ragione di tale vincolatività.
La Corte di cassazione esamina, innanzitutto, la fattispecie, collocandola nell’ambito del generale istituto della protezione umanitaria ex art. 5, co. 6 TU, avendo pertanto natura di diritto soggettivo e diritto umano fondamentale, alla pari della tutela riconosciuta nel sistema della protezione internazionale dall’art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008 e definendo il rapporto tra la norma generale e quella speciale di specie a genere.
Secondo il Giudice di legittimità, come per la tutela umanitaria afferente la protezione internazionale, anche quella sottesa all’art. 22, co. 12-quater ha una fase amministrativa ed una giudiziale, nella prima intervenendo autorità (Commissione e P.M.) la cui decisione o parere sono richiesti dalla legge per il rilascio del titolo di soggiorno da parte del questore (il quale può solo opporre condizioni ostative previste da altre disposizioni di legge), mentre nell’opposizione alla determinazione finale amministrativa al giudice è devoluta interamente la questione, senza il vincolo del parere propedeutico avendo il P.M. esaurito il proprio potere discrezionale tecnico nel procedimento amministrativo. La Cassazione, infatti, afferma che «La peculiare articolazione bifasica del procedimento tuttavia non incide sull’ambito della cognizione del giudice ordinario, il quale è tenuto alla verifica, integrale e senza subordinazione alcuna alla valutazione svolta in sede amministrativa, dell’esistenza dei requisiti per il riconoscimento del titolo di soggiorno, dal momento che la valutazione dell’autorità giudiziaria inquirente ha esaurito la propria efficacia deliberativa all’interno del procedimento amministrativo che ha condotto al provvedimento impugnato».
 
LA REVOCA DELLE MISURE DI ACCOGLIENZA
Con sentenza 1307/2018 il Tar per la Toscana ha riunito ed accolto due ricorsi presentati da richiedenti protezione internazionale ai quali erano state revocate le misure di accoglienza con provvedimenti recanti la medesima motivazione, ovverosia per essersi, ognuno dei ricorrenti, «rifiutato di partecipare alle lezioni di italiano e di firmare il regolamento della struttura, oltre ad aver tenuto un comportamento aggressivo nei confronti del responsabile del Centro».
In corso di giudizio è stata dimostrata l’infondatezza oggettiva di due dei tre presupposti motivazionali, cioè la mancata partecipazione ai corsi di lingua (comprovata, invece, dalla dirigente scolastica) e la mancata sottoscrizione del regolamento dell’accoglienza, essendo emerso che i due richiedenti avevano sottoscritto quello della prefettura (l’unico obbligatorio ex art. 23 d.lgs. 142/2015) e non, invece, quello interno della struttura che il primo intendeva modificare soprattutto con riguardo ad elementi economici. Regolamento di cui, secondo il Tar, «si sconosce il valore giuridico, indebitamente utilizzato quale parametro di adeguatezza dei comportamenti tenuti dagli ospiti del CAS».
Per quanto riguarda il ritenuto comportamento aggressivo, il Tar ha accertato che in realtà i due ricorrenti erano tra coloro che protestavano per la gestione irregolare del CAS, in un contesto nel quale già da tempo si erano evidenziati gravi disservizi della cooperativa, per i quali era dovuta intervenire la prefettura stessa.
I provvedimenti di revoca delle misure di accoglienza sono stati, dunque, annullati, in parte per infondatezza dei presupposti, in parte perché la prefettura di Lucca ha omesso di operare un «necessario bilanciamento imposto dalla complessità della situazione descritta e dalle specifiche circostanze sopra evidenziate […] anche alla luce della gravità della misura prevista dall’art. 23 d.lgs. n. 142/2015 (in disparte la questione della conformità della normativa interna di recepimento alla direttiva UE invocata), la cui applicazione va riservata ai casi di accertata incompatibilità della condotta, univocamente accertata a carico degli ospiti del Centro di accoglienza, con una ordinata ed efficiente gestione della struttura».

 

Con sentenza n. 1400/2018 il Tar per la Campania, sede di Salerno, affronta la questione della permanenza del diritto all’accoglienza di un richiedente asilo a cui la Commissione territoriale ha negato il riconoscimento della protezione internazionale ed il Tribunale rigettato il ricorso avverso detta decisione. Conseguentemente al rigetto giudiziale, la prefettura ha revocato le misure di accoglienza, nonostante la pendenza.
Il Tar campano esamina il regime transitorio derivante dalla riforma del giudizio di protezione internazionale di cui al d.l. n. 13/2017, il cui art. 21 stabilisce che le nuove disposizioni si applicano «alle cause e ai procedimenti giudiziari sorti dopo il centottantesimo giorno dalla data di entrata in vigore del presente decreto», mentre ai procedimenti introdotti precedentemente si applicano le previgenti disposizioni.
Poiché le nuove disposizioni del d.l. 13/2017 attribuiscono efficacia definitiva al provvedimento della Commissione territoriale, una volta respinto il ricorso dal Tribunale, non potevano essere revocate le misure di accoglienza del ricorrente, il cui contenzioso rientrava nel regime precedente l’entrata in vigore del d.l. 13/2017 (cfr. Tar Lombardia, BS, n. 374/2018; Tar Toscana, n. 565/2018).

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