Cittadinanza e apolidia

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Nel periodo qui considerato – gennaio-aprile 2018 – accanto a pronunce ormai consuete in materia di acquisto della cittadinanza per matrimonio e per naturalizzazione (non ne emergono invece in materia di acquisto per elezione, ed è un buon segno) nonché di apolidia, deve essere segnalata una inconsueta pronuncia in tema di riconoscimento giudiziale della cittadinanza, la quale potrebbe aprire la via ad una serie di decisioni di eguale contenuto.
 
Accertamento del possesso della cittadinanza.
Come risulta dalle Rassegne in materia di cittadinanza pubblicate in questa Rivista nel corso degli anni, i giudici italiani sono statti spesso chiamati a decidere controversie sul riconoscimento della cittadinanza stessa nei confronti di discendenti di ex cittadine italiane, le quali – nel vigore della precedente legge organica del 1912 – avevano perduto il loro status civitatis di origine a causa del matrimonio con un cittadino straniero, salvo poi “recuperare” tale status grazie alle sentenze di illegittimità costituzionale delle relative norme.
Ben differente appare invece il contenuto delle domande presentate recentemente e accolte dal   Trib. Roma, ord. 17.4.2018 . Gli attori chiedevano infatti il riconoscimento del possesso della cittadinanza italiana iure sanguinis semplicemente sulla base della discendenza da un avo paterno emigrato in Brasile, Paese del quale non aveva mai voluto acquistare la relativa cittadinanza. In questa prospettiva, il Ministero dell’interno aveva chiesto a sua volta una declaratoria di inammissibilità di tali domande per difetto dell’interesse ad agire.
Quest’ultimo assunto viene condiviso, ma solo in linea di principio, dai giudici romani, in quanto dalla documentazione prodotta dai ricorrenti risulta pacificamente provata la loro cittadinanza italiana. Sarebbe stato dunque sufficiente la richiesta da parte loro del rilascio di una certificazione in tal senso da parte del Consolato italiano in Brasile, territorialmente competente in virtù della loro residenza in quello Stato. Tuttavia, malgrado tale richiesta fosse stata debitamente presentata sin dal 2014, essa non aveva ricevuto il minimo riscontro. A fronte di tale situazione, il Tribunale, evocando l’art. 2 della l. 7.8.1990 n. 241 sui tempi di conclusione degli dei procedimenti di competenza della Pubblica Amministrazione e l’art. 3 del d.p.r. 362/1994 (ovvero, di uno dei due regolamenti di esecuzione della legge sulla cittadinanza) che prescrive il termine di 730 giorni, e constatando il decorso di un lasso di tempo “irragionevole”, giustifica così l’interesse ad agire dei ricorrenti e dichiara in via giudiziale il possesso da parte loro dello status civitatis italiano, corredato dall’ordine all’ufficiale di stato civile competente di procedere ai relativi adempimenti documentali.
Ora, i “tempi biblici” dei procedimenti per l’acquisto della cittadinanza sono assai noti e sono stati già esplorati, sinora peraltro solo dalla giurisprudenza amministrativa. Si può ricordare, in tema di acquisto della cittadinanza per naturalizzazione, la class action intentata contro il Ministero dell’interno e accolta dal Tar Lazio, sez. II, sent. 26.2.2014 n. 2257(in questa Rivista, 2014, n. 3/4, p. 234) con un invito a porre rimedio a tali ritardi «mediante l’adozione di opportuni provvedimenti». Con particolare riguardo alla fattispecie qui esaminata, la situazione di estremo disagio dei Consolati italiani in Brasile, sommersi di richieste del suddetto contenuto – e ancor prima la situazione di estremo disagio dei soggetti interessati – era stata censurata dal Tar Lazio, sez. I, sent. 30.5.2011 n. 4826 (in questa Rivista, 2011, n. 3, p. 121), ma era sfociata in un ordine al Consolato generale italiano in Brasile competente di dar corso al procedimento per la legalizzazione dei documenti comprovanti la cittadinanza italiana della ricorrente.
L’ordinanza del Trib. Roma sopra riportata apre (o già percorre) una nuova via. Anche se un simile rimedio non sarà percorribile da tutti, considerata la difficoltà di radicare una causa in Italia, non resta che attenderne i prossimi risultati in termini numerici.
 
Acquisto della cittadinanza per matrimonio.
Le norme della l. n. 91/1992 relative a questo particolare modo di acquisto della cittadinanza (artt. 5-8) sono state interpretate ed applicate sotto il profilo dell’assenza di cause ostative attinenti a condanne penali di cui all’art. 6 della l. n. 91/92, in particolare nella parte relativa alla preclusione all’acquisto derivante dalla condanna per un delitto non colposo per il quale sia prevista una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione.
Accogliendo il ricorso presentato da un cittadino straniero coniugato da quindici anni con una cittadina italiana, il Trib. Roma, sent. 20.3.2018 (in Banca dati Leggiditalia.it) – davanti al quale era stata riassunta la causa dapprima erroneamente radicata di fronte al Tribunale di Milano, territorialmente incompetente – ha escluso anzitutto la legittimazione passiva del Prefettura di Milano, in quanto mera articolazione del Ministero dell'interno e priva perciò di un'autonoma soggettività processuale. Riguardo al merito, il giudice ha successivamente evocato la differente natura delle cause ostative all’acquisto previste dall’art. 6 della legge, distinguendo i casi in cui il diritto soggettivo del richiedente può essere affievolito ad interesse legittimo (in particolare, ove si tratti di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica), fermo restando il termine di un biennio dalla data di presentazione dell'istanza assegnato alla p.a. per respingere la domanda.
Dopo aver constatato che il decreto di rigetto dell’istanza stessa era stato emesso due giorni dopo l’avvenuto trascorso del termine indicato ed aver altresì preso atto dell’intervenuta riabilitazione del coniuge straniero, i giudici di Roma hanno perciò dichiarato la cittadinanza italiana del ricorrente. Occorre tuttavia sottolineare al riguardo che essi si sono mostrati pienamente consapevoli dell’inerzia (non giustificabile) di quest’ultimo di fronte alla espressa richiesta di esibizione del provvedimento di riabilitazione, formulata dalla Prefettura di Milano in base ad un’iniziativa del tutto corretta.
È stato invece dichiarato palesemente infondato un ricorso, sempre attinente alla preclusione derivante da condanna penale, fondato tra l’altro sulla carenza di motivazione del provvedimento negativo del Ministero dell’interno (Tar Liguria, sez. II, sent. 10.4.2018 n. 326). Secondo i giudici infatti, il preteso vizio di difetto di motivazione, concretando un vizio della forma dell'atto, non potrebbe mai condurre all'annullamento del decreto ministeriale impugnato, giacché, per la natura vincolata del provvedimento, è palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
 
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione.
Va anzitutto segnalata la pronuncia del Trib. Modena, sent. 13.2.2018 (solo m., in Banca dati Leggiditalia.it), la quale dà seguito alla sentenza di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 10 della l. n. 91/92 (nonché di altre norme collegate), nella parte in cui non prevede apposite disposizioni sul giuramento di fedeltà alla Repubblica da parte dei soggetti disabili (Corte cost., sent. 7.12.2017 n. 258, in questa Rassegna, n. 4/2017).
Le altre decisioni provengono dai giudici amministrativi e presentano diversi aspetti comuni riguardo sia alle rispettive fattispecie sia soprattutto alle motivazioni. Inoltre, non si può fare a meno di premettere che i difensori dei ricorrenti mostrano ancora troppo spesso di addurre la violazione dell’art. 6 della l. n. 91/92, relativo al diverso caso dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio, malgrado tale prospettazione venga – com’è ovvio – puntualmente respinta. Ben diversa risulta infatti l’ampiezza della valutazione discrezionale riservata alla p.a. nei due procedimenti.
In ogni caso, quasi tutte le sentenze qui reperite muovono dall’impugnazione di provvedimenti di rigetto delle istanze di concessione della cittadinanza ex art. 9, co. 1, lett. f) da parte del Ministero dell’interno, fondati su precedenti condanne penali (in genere, di modesta entità e di sovente relative a reati ormai estinti) in capo ai richiedenti (Tar Lazio, sez. I, sent. 30.3.2018 n. 3575 e n. 3576); una sola impugnazione riguardava invece la contiguità del richiedente a “movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica” (Tar Lazio, sez. I, sent. 5.5.2018 n. 5025).
Uguali e per certi versi granitiche risultano comunque le motivazioni addotte dai giudici amministrativi regionali, corroborate da una identica presa di posizione di quelli di Palazzo Spada (Cons. St., sez. III, sent. 19.3.2018 n. 1736). In sintesi, secondo tale orientamento prevalente, l'amplissima discrezionalità dell'Amministrazione nel procedimento di concessione della cittadinanza italiana per naturalizzazione si esplica in un potere valutativo che si traduce in un apprezzamento di opportunità circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l'integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta. Per di più, trattandosi di esercizio di potere discrezionale da parte dell'Amministrazione, il sindacato sulla valutazione da essa compiuta non può che essere di natura estrinseca e formale: non può spingersi, quindi, al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole.
Non possono dunque assumere rilievo, in un simile contesto argomentativo, né l’intervenuta estinzione di reati commessi decenni prima né il successivo comportamento, ovviamente corretto, dei richiedenti.
 
Accertamento dell’apolidia.
Ancora una volta si è presentata in questo settore la peculiare situazione dei cittadini cubani emigrati all’estero, rispetto ai quali un’apposita legge del 1976, pur senza revocare formalmente la cittadinanza di origine, subordina il rientro in patria al possesso del permesso di soggiorno rilasciato da uno Stato straniero e non consente di ivi ristabilire la propria residenza in modo permanente, limitandola ad un periodo di tre mesi.
La controversia decisa dal Trib. Brescia, sent. 17.2.2018 n. 508 (in Banca dati De Jure) scaturiva appunto da un’azione intentata da una cittadina cubana, titolare di un permesso di soggiorno per lavoro in Italia, in seguito ad essa ritirato in quanto disoccupata, contro il Ministero dell’interno al fine di ottenere una dichiarazione giudiziale di apolidia.
Il Tribunale respinge preliminarmente l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dal convenuto affermando che il procedimento, per la materia del contendere, appare maggiormente compatibile con quello camerale. Infatti, l'accertamento degli status avviene, di regola, nelle forme del rito camerale, secondo il quale la competenza è individuata nella residenza ovvero nel domicilio dell'attore, ove si esplica la posizione giuridica oggetto di tutela. D’altro canto, sebbene l'art. 17 del d.p.r. 12.10.1993, n. 572 (ovvero, di uno dei due regolamenti di esecuzione della legge sulla cittadinanza) attribuisca al Ministero dell’interno il potere di certificare lo status di apolide e tale certificazione si ponga in termini alternativi all'accertamento giudiziale (Cass. S.U., 9.12.2008, n. 28873), il Tribunale riconosce ad esso la legittimazione passiva, non in qualità di controinteressato in senso stretto, bensì per espletare una funzione di controllo, a tutela della certezza dei rapporti giuridici.
Nel merito, i giudici richiamano l’interpretazione fornita dal Supremo Collegio all’art. 1 della Convenzione relativa allo stato degli apolidi, adottata a New York il 28.9.1954 e resa esecutiva in Italia con la l. 1.2.1962, n. 306, il quale ne ha esteso l’ambito alla “perdita sostanziale” (dunque, non solo formale) della cittadinanza (S.U., n. 28873 del 2008, cit. e Cass., 8.11.2013, n. 25212).
Il Tribunale successivamente constata che l’attrice, per potere fare ingresso a nello Stato di cui è cittadina, necessita di una autorizzazione di ingresso per un soggiorno fino a tre mesi, rilasciata da quest’ultimo sul presupposto del possesso di regolare permesso di soggiorno a sua volta rilasciato dalle autorità italiane e che la medesima non può ristabilire la propria residenza in territorio cubano, ma risiedervi per solo tre mesi. Tutto ciò porta i giudici bresciani a dichiarare, da un lato, che il diritto di espatriare e quello di rientrare nello Stato di appartenenza sono ascrivibili al nucleo essenziale delle posizioni giuridiche del cittadino di cui all’art. 16, co. 2, Cost. Dall’altro, una tale, significativa compressione del diritto di rimpatrio comporta che la condizione di migrante del cittadino cubano, secondo le relative norme, sia assimilabile a quella dello straniero privato della propria cittadinanza. Da qui, una volta confermato che riguardo all’attrice è stata emessa da parte delle autorità cubane la certificazione di migrante e una volta accertato che la medesima non è cittadina di altri Stati, viene dichiarato nei suoi confronti lo status di apolide.