Cittadinanza e apolidia

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Nei primi quattro mesi del 2017 non risultano decisioni in tema di apolidia mentre continua il flusso (inarrestabile) dei provvedimenti in materia di cittadinanza, a volte connotati da caratteri di originalità in relazione a talune fattispecie.

 

Acquisto della cittadinanza per filiazione.
Prosegue incessante la giurisprudenza del Tribunale di Roma, investito dalle innumerevoli richieste di accertamento della cittadinanza italiana per filiazione, o meglio per discendenza, da parte appunto dei discendenti di cittadini italiani emigrati all’estero anche in epoche piuttosto remote.
Come si è avuto modo di constatare ripetutamente nelle rassegne di questa Rivista dedicate a tali aspetti, tali richieste coinvolgono per lo più i discendenti da un’ava materna, la quale, avendo contratto matrimonio con un cittadino straniero nel vigore della precedente l. 13.6.1912, n. 555, aveva perso il proprio status civitatis originario a seguito dell’acquisto di quello del marito. E si è avuto altrettanto modo di constatare che, a seguito delle sentenze costituzionali 16.4.1975 n. 87 e 9.2.1983 n. 30 (le quali avevano rispettivamente dichiarato illegittimi l’art. 10, co. 3 e l’art. 1 n.1 della legge suddetta) attualmente quello status viene pacificamente riconosciuto anche ai figli e discendenti di queste – non più – ex cittadine.
A questo consolidato orientamento non possono che continuare ad aderire il Trib. Roma, sent. 7.2.2017 n. 2377 e sent. 3.4.2017 n. 6642 (entrambe in Banca dati De Jure).
Dal canto suo, il Ministero dell’interno, convenuto necessario in queste controversie, una volta accertata la correttezza della documentazione versata in atti dagli attori, non contesta nel merito la domanda, ma si limita a chiedere la compensazione delle spese del giudizio «in considerazione dell'impossibilità per l'Amministrazione di riconoscere in via amministrativa la sussistenza della cittadinanza derivante da discendenza», come traspare da Trib. Roma, sent. 13.4.2017 (in Banca dati Leggiditalia.it).
Questa sentenza presenta inoltre una particolarità (sia pure non isolata), in quanto la catena della discendenza utile al riconoscimento della cittadinanza italiana viene fatta risalire a un avo italiano nato prima della costituzione del Regno d’Italia. Pertanto, alla luce della successione del Regno d’Italia al Regno di Sardegna e degli artt. 19 e 4 rispettivamente dello Statuto albertino e del codice civile del 1865, che non prevedevano la perdita delle rispettive cittadinanze per i sudditi emigrati all’estero – nonché della già ricordata sentenza costituzionale n. 30/1983 nei confronti della figlia del capostipite – è stata dichiarata la cittadinanza italiana di un folto gruppo di discendenti.
Tra essi il Tribunale di Roma ha ritenuto di inserire anche la moglie straniera di uno di loro a causa di un matrimonio contratto nel 1952, ritenendo di poter applicare ratione temporis l’art. 10, co. 2, l. n. 555/1912, secondo il quale «La donna straniera che si marita ad un cittadino acquista la cittadinanza italiana». Anche se i giudici tacciono sul punto, a ben vedere questa norma non è mai stata specificamente dichiarata costituzionalmente illegittima, malgrado fosse stata proprio la Corte costituzionale a sollevare davanti a sé la relativa questione (ord. 31.12.1982 n. 118), poi non coltivata per l’entrata in vigore della l. 21.4.1983 n. 123 (su tale vicenda cfr. Clerici, La cittadinanza nell’ordinamento giuridico italiano, Padova, 1993, p. 117 ss.).
Viceversa, nella già citata sent. 7.2.2017 n. 2377, il Tribunale di Roma, di fronte a una richiesta analoga, ha mostrato un atteggiamento più cauto. Anzitutto, i giudici hanno rilevato che «è nell'attualità che occorre verificare la condizione del soggetto che assume di essere cittadino italiano per matrimonio, in quanto ciò che rileva ai fini dell'individuazione della legge temporalmente applicabile è determinato dal momento della richiesta in tal senso, che, nella fattispecie, è stata per la prima volta avanzata sotto il vigore della legislazione attuale. E non poteva essere diversamente non avendo ancora il marito dell'attrice, conseguito, a sua volta, il riconoscimento dello status, che svolge i suoi effetti con la presente sentenza, specie ai fini della comunicazione della cittadinanza per matrimonio. Si rileva peraltro che le norme sulla cittadinanza, ed in particolare quella che affida la valutazione della richiesta dello straniero coniuge di cittadino all'autorità amministrativa e che esclude ogni forma di automatismo, sono di ordine pubblico sicché occorre verificare, in ogni caso, se la normativa precedente, e sotto la vigenza della quale l'attrice si è coniugata con il cittadino italiano, non sia confliggente nella sostanza con le nuove esigenze dell'ordinamento interno che hanno condotto ad una radicale modifica della disciplina. Nella fattispecie l'incompatibilità sembra emergere proprio con riguardo alla esigenza di natura pubblicistica di verificare le condizioni legittimanti l'acquisizione della cittadinanza per matrimonio, non garantita dalla disciplina previgente e dettata con riferimento a ben altre condizioni sociali. L'attrice pertanto può attivare l'iter per il riconoscimento previsto dalla disciplina ora richiamata solo dopo il passaggio in giudicato del provvedimento che accerta lo stato di cittadino italiano del marito».
 
Acquisto della cittadinanza per matrimonio
Occorre preliminarmente ricordare sia l’applicazione retroattiva, da parte del Trib. Roma, sent. 13.4.2017 cit., dell’art. 10, co. 2, della l. n. 555/1912 sia il diverso atteggiamento del Trib. Roma, sent. 7.2.2017 n. 2377 cit. sugli effetti del matrimonio contratto da una cittadina straniera con un individuo anche al quale viene giudizialmente riconosciuto l’acquisto della cittadinanza italiana per filiazione (v. supra).

Per quanto riguarda lo specifico ambito qui considerato, il Tar. Roma, sez. I, sent. 3.2.2017 n. 1766 ha preliminarmente ricordato che la preclusione biennale all’emanazione del decreto di rigetto dell’istanza per l’acquisto della cittadinanza per matrimonio, previsto dall’art. 8, co. 2, della l. n. 91/92, riguarda solo i motivi ostativi previsti dall’art. 6, ma non il difetto dei presupposti di cui all’art. 5. Il Tribunale amministrativo ha poi affrontato il ricorrente problema di diritto transitorio, relativo all’applicabilità della nuova e più restrittiva disciplina introdotta dall’art. 1, co. 11, della l. 15.7.2009, n. 94, che prescrive il pieno mantenimento dello status di coniuge sino all’adozione del decreto di attribuzione della cittadinanza italiana. A differenza di talune pronunce più favorevoli emesse dai giudici di merito (e via via riportate nelle Rassegne pubblicate in questa Rivista), i giudici amministrativi tengono a precisare che «secondo il principio tempus regit actum, in presenza di sequenza procedimentale di atti, si applica la norma vigente al momento dell'adozione di ciascuno di essi». Dunque, «la novella del 2009, che ha imposto l'assenza di separazione nel matrimonio col soggetto cittadino italiano fino all'emanazione del provvedimento finale di concessione della cittadinanza, si applica anche al caso in esame, essendo entrata in vigore nelle more della pendenza del procedimento de quo», negando così alla ricorrente la cittadinanza italiana.

Merita di essere soprattutto segnalata Cass., sent. 17.1.2017 n. 969, la quale interviene, auspicabilmente in via definitiva, sull’annosa questione concernente la rilevanza della separazione di fatto nell’ambito dei suddetti presupposti individuati dall’art. 5 ai fini dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio. In linea con gli orientamenti più aperti già manifestati dai giudici di merito, il Supremo Collegio esamina il «chiaro ed univoco tenore testuale della norma in questione sia nella formulazione originaria sia in quella novellata per effetto della legge n. 94 del 2009, art. 1, co. 11. Nel testo originario la locuzione utilizzata dal legislatore era «separazione legale», con la novella tale locuzione è stata modificata con «separazione personale». La correzione è stata del tutto opportuna dal momento che l'espressione «separazione legale» risulta atecnica rispetto all'altra «separazione personale» utilizzata dal legislatore nel titolo dell'art. 150, nel corpus dell'art. 154 relativo alla riconciliazione e nel testo del previgente art. 155 (oggi abrogato in virtù dell'omologazione del regime giuridico relativo ai figli nati nel matrimonio e fuori di esso e sostituito dalla disciplina normativa contenuta nel capo 2 del titolo 9). Peraltro, come espressamente affermato nel citato art. 5, deve essere applicato il regime giuridico vigente al momento dell'adozione del provvedimento e non della domanda, in quanto la norma stabilisce che «al momento dell'adozione del decreto» non devono essere intervenute condizioni ostative quali la separazione personale. La differenza tra le due fattispecie astratte «separazione personale» e «separazione di fatto» può cogliersi anche nel regime giuridico delle adozioni. La l. n. 184/1983, art. 6, prescrive che tra i coniugi che intendono procedere all'adozione non deve essere intervenuta negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto, a conferma della diversità delle due tipologie di allontanamento dei coniugi, confermata anche da un regime giuridico nettamente distinto». In conclusione, «le condizioni ostative previste nel citato art. 5 non possono essere fondate su clausole elastiche, ma su requisiti di natura esclusivamente giuridica, predeterminati e non rimessi ad un accertamento di fatto dell'autorità amministrativa, come desumibile anche dall'esame delle altre specifiche condizioni interdittive, l'annullamento, lo scioglimento, la cessazione degli effetti civili del matrimonio».

Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione.
Il margine di discrezionalità riservato da questo modo di acquisto della cittadinanza, previsto dall’art. 9, co.,1 lett. f) della l. n. 91/92, alla valutazione della Pubblica Amministrazione è stato oggetto di numerose decisioni dei giudici amministrativi, in massima parte rese dal Tribunale regionale amministrativo del Lazio.
In molte occasioni i giudici ribadiscono i criteri che guidano il loro operato e che si ritiene opportuno qui riportare. Così, ad esempio, per il Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 28.2.2017 n. 2932, deve ritenersi anzitutto che «l'amplissima discrezionalità dell'Amministrazione in questo procedimento si esplica in un potere valutativo che si traduce in un apprezzamento di opportunità circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l'integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta» (Cons. Stato, Sez. VI, 9.11.2011 n. 5913; Cons. Stato, Sez. VI, n. 52 del 10.1.2011; Cons. Stato, Sez. VI, n. 282 del 26.1.2010; Tar Lazio, Sez. II-quater n. 3547 del 18.4.2012). Ed ancora, «l'interesse pubblico sotteso al provvedimento di concessione della particolare capacità giuridica, connessa allo status di cittadino, impone, infatti, che si valutino, anche sotto il profilo indiziario, le prospettive di ottimale inserimento del soggetto interessato nel contesto sociale del Paese ospitante (Tar Lazio, Sez. II-quater n. 5565 del 4.6.2013)». Infine, «trattandosi di esercizio di potere discrezionale da parte dell'Amministrazione, il sindacato sulla valutazione compiuta dall'Amministrazione, non può che essere di natura estrinseca e formale; non può spingersi, quindi, al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole (Cons. di Stato, Sez. VI, 9.11.2011, n. 5913; Tar Lazio, Sez. II-quater, n. 5665 del 19.6.2012)».

Di identico tenore risultano le considerazioni svolte da Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 16.3.2017 n. 3555 e da Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 20.3.2017 n. 3691. Nella decisione n. 2932 citata all’inizio, il Tar, nel respingere il ricorso contro il decreto di rigetto della domanda di naturalizzazione, non accoglie nemmeno la censura di tardività relativa a quest’ultimo. Secondo i giudici, «ai fini della richiesta di cittadinanza di cui all'art. 9 della l. n. 91/92 (residenza decennale in Italia) non sussiste alcun limite temporale che impedisca l'adozione di un provvedimento negativo (cfr. Tar Lazio, Sez. II-quater, n. 9800 del 2013), salvi i rimedi previsti dall'ordinamento per l'inerzia dell'Amministrazione successiva al termine di conclusione del procedimento, ovvero l'azione per il silenzio. Il mancato rispetto del termine di settecentotrenta giorni per la conclusione del procedimento, infatti, legittima solo il ricorso al giudice amministrativo per la dichiarazione dell'obbligo di provvedere dell'Amministrazione con un provvedimento espresso, non determinando, ex se, alcuna illegittimità dell'atto (Tar Lazio, Sez. II-quater, n. 1171 del 2012; n. 4021 del 2012; n. 4369 del 2013)».

Viceversa, pur ribadendo sinteticamente i criteri sopra enunciati, lo stesso Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 20.3.2017 n. 3691 ha censurato il decreto di rigetto emesso dal Ministero dell’interno in quanto esclusivamente fondato sull'esistenza di una risalente condanna «per una fattispecie meramente contravvenzionale in materia doganale (violazione dell'art. 282, d.p.r. 23.1.1973, n. 43) che non può essere ritenuta, per la sua tenuità, a tale fine rilevante (in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 18.2.2011 n. 1037)»; i giudici hanno criticato nel contempo anche il parere prefettizio, contrario all’acquisto della cittadinanza sulla base del mancato raggiungimento, da parte del ricorrente, di un livello sufficiente di integrazione, in quanto «fondato su un'asserzione sfornita di adeguata motivazione e che appare contraddetta dal contesto lavorativo e familiare del ricorrente, come risultante dalla documentazione versata in atti».

Il quadro sin qui delineato presuppone ovviamente la possibilità per i giudici, e prima ancora per l’interessato, di conoscere le motivazioni poste a fondamento delle conclusioni negative della Pubblica Amministrazione. Non poteva perciò non essere accolto un ricorso che lamentava l’assenza di queste. Così, il Tar Roma, sez. II, sent. 31.3.2017 n. 4109, dopo aver inutilmente reiterato nei confronti del Ministero diversi ordini istruttori nel corso del giudizio, ha annullato l’atto impugnato. È stata comunque fatta salva «ogni ulteriore determinazione che l'Amministrazione assumerà rispetto al procedimento che dovrà essere riavviato d'ufficio in esecuzione della presente sentenza». Di fronte a questo ulteriore allungamento dei tempi, non appare troppo condivisibile la decisione di compensare le spese di giudizio tra le parti, «considerata la particolarità del caso e la perdurante necessità di valutare, in modo approfondito e in un rinnovato giudizio discrezionale da parte dell'Amministrazione, l'effettivo inserimento del richiedente nel tessuto sociale italiano».

Dal canto suo, il Cons. St., sez. III, sent. 14.2.2017 n. 657, dopo aver riaffermato il proprio costante orientamento giurisprudenziale secondo cui, «ai sensi dell'art. 9 della l. n. 91/92 la cittadinanza italiana "può" essere concessa, sicché la valutazione di merito effettuata dalla Amministrazione ai fini della concessione o del diniego è insindacabile dal giudice amministrativo», ha aggiunto che il provvedimento di diniego «è, invece, sindacabile per i profili di eccesso di potere eventualmente rilevati (cfr. da ultimo Cons. di Stato, Sez. III, 25.8.2016, n. 3696; Sez. III, 6.9.2016, n. 3819)».

Degna di attenzione, a causa della peculiarità del provvedimento, risulta infine Trib. Modena, sent. 7.2.2017 (in Banca dati De Jure), riguardo alla richiesta di un cittadino italiano di poter prestare giuramento ex art. 10 della l. n. 91/92, nella propria qualità di amministratore di sostegno, per conto della moglie gravemente invalida ed incapace di parlare, la quale aveva ottenuto la cittadinanza italiana per naturalizzazione.
Il giudice ha compiuto dapprima una ricognizione delle varie norme che disciplinano la materia, rispettivamente contenute nel suddetto art. 10 (secondo il quale la concessione della cittadinanza non ha effetto se tale atto non viene compiuto entro sei mesi dalla notifica del decreto) e nell’art. 23, co. 1, della medesima legge; nell’art. 7, co. 2, d.p.r. 12.10.1993, n. 572; e negli artt. 25, co. 1, e 27 d.p.r. 3.11.2000, n. 396 (ord. stato civile), individuandone la natura di «adempimento determinante per l'acquisizione della cittadinanza italiana». Il Tribunale mostra di conoscere due precedenti provvedimenti nei quali l’interdetto era stato esentato dal compimento di un simile atto (Trib. Bologna, 9.1.2009; Trib. Mantova, 2.12.2010). Tuttavia, poiché, ad onta della sua natura ancillare e secondaria rispetto al conseguimento della cittadinanza e della mancanza di efficacia costitutiva, non sono ammesse deroghe alla prestazione del giuramento, il Tribunale giunge a ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni normative sopra richiamate. Vengono così evocati quali parametri di costituzionalità gli artt. 2 e 3, co. 2, Cost. Inoltre, per quanto attiene al principio di eguaglianza vengono altresì individuati quali ulteriori parametri l'art. 18 della convenzione delle Nazioni Unite per i diritti delle persone disabili, resa esecutiva dall'Italia con la l. 3.3.2009, n. 18; gli artt. 21 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea di Nizza, resa vincolante dal trattato di Lisbona del 2009 (relativi al divieto di discriminazione e all’inserimento dei disabili).
Si dubita quindi «della legittimità costituzionale della trama normativa costituita dalle disposizioni che impongono al disabile, impossibilitato per effetto della patologia mentale che l'affligge, di prestare giuramento, quale presupposto di acquisto della cittadinanza. Pare trasparente che l'attuale normativa, che impone il giuramento a chi non è in grado di pronunziarlo e di coglierne il significato, si ponga in termini discriminatori per il disabile nell'accesso allo status di cittadino dello Stato. Senza dire, infine, che, a questo riguardo, la normativa in oggetto pare pure contrastare con un'ulteriore previsione della convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, e, in particolare, con l'art. 4, par. 1, lett. b, della stessa, la quale obbliga gli Stati membri ad adottare tutte le misure, incluse quelle legislative, idonee a modificare o abrogare qualsiasi legge o regolamento, consuetudine e pratica vigente che costituisca discriminazione nei confronti di persone con disabilità».
Non resta che attendere la pronuncia della Corte costituzionale.