Rassegna di giurisprudenza europea

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Corte europea dei diritti umani (a cura di Marco Balboni e Carmelo Danisi) 1

Corte di giustizia dell'Unione europea (a cura di Marco Borraccetti e Federico Ferri)  
 

Corte europea dei diritti umani

Artt. 2 e 3: Diritto alla vita e divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti

Con il caso S.K. c. Russia (Corte EDU, sentenza del 14.02.2017), la Corte esamina la compatibilità del rinvio di un richiedente asilo originario della città di Aleppo con il diritto alla vita e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, protetti rispettivamente agli artt. 2 e 3 Cedu.

Corte europea dei diritti umani (a cura di Marco Balboni e Carmelo Danisi) 1

Corte di giustizia dell'Unione europea (a cura di Marco Borraccetti e Federico Ferri)  
 

Corte europea dei diritti umani 

  Artt. 2 e 3: Diritto alla vita e divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti

Con il caso S.K. c. Russia (Corte EDU, sentenza del 14.02.2017), la Corte esamina la compatibilità del rinvio di un richiedente asilo originario della città di Aleppo con il diritto alla vita e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, protetti rispettivamente agli artt. 2 e 3 Cedu.
Giunto con un permesso di lavoro nel 2011, il sig. S.K. si tratteneva in Russia oltre i termini previsti. Nel 2015 ne veniva ordinato l’allontanamento con contestuale trattenimento in un centro per stranieri in attesa di espulsione. Poco prima dell’esecuzione della misura, il ricorrente presentava domanda di asilo temporaneo che veniva tuttavia respinta. Secondo lo Stato convenuto, le possibili sofferenze cui poteva incorrere il sig. S.K. in Siria non erano sostanzialmente diverse da quelle cui è esposta la generalità della popolazione siriana e, in ogni caso, era possibile rinviare il ricorrente in una città diversa da Aleppo. La Corte ricorda che, in talune circostanze, una situazione generale di violenza può raggiungere un livello di pericolosità tale per cui ogni individuo rinviato nel Paese sarebbe esposto a seri pericoli per la propria vita e/o al rischio di subire torture e trattamenti inumani e degradanti (Corte EDU, 27.06.2013, S.A. c. Svezia, in questa Rivista, XV, n. 2, 2013, p. 89). Poiché la situazione in Siria è molto deteriorata da quando il ricorrente è giunto in Russia dato l’utilizzo di armi e metodi di guerra che causano attacchi indiscriminati contro i civili (cfr. Home Office del Regno Unito, Country Information and Guidance - Syria: the Syrian Civil War, 19 agosto 2016; UNHCR, International Protection Considerations with Regard to People Fleeing the Syrian Arab Republic. Update IV, HCR/PC/SYR/01, novembre 2015), non è nemmeno possibile ritenere che, una volta rinviato a Damasco, il sig. S.K possa raggiungere in sicurezza un’area del Paese sufficientemente sicura (Corte EDU, 28.06.11, Sufi e Elmi c. Regno Unito, in questa Rivista, XIII, n. 4, 2011, p. 89), con la conseguenza che il rinvio darebbe origine a una violazione degli artt. 2 e 3 della Convenzione. La Corte ravvisa altresì una violazione dell’art. 13, relativo al diritto a un ricorso effettivo, letto in combinato, e dell’art. 5, parr. 1 e 4, Cedu, relativi rispettivamente ai casi in cui è ammessa la privazione della libertà e al diritto di ricorso contro la legittimità di tali misure di privazione. Infatti, nessuna delle autorità interne ha preso in esame i timori del ricorrente circa il rinvio in Siria. Tale esame avrebbe dato modo a tali autorità di accertare l’impossibilità di procedere in tempi rapidi all’allontanamento del ricorrente e, quindi, di constatare che il trattenimento non poteva dirsi giustificato (Corte EDU, 18.04.2013, Azimov c. Russia).

Art. 3: Divieto di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti

Alcuni casi riguardano allontanamenti attuati dalle autorità e le relative modalità di esecuzione.

Il caso X c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 26 gennaio 2017) riguarda un cittadino dello Sri Lanka di origine Tamil che, giunto in Svizzera insieme alla moglie, presentava una domanda congiunta di protezione internazionale per motivi politici rigettata dalle autorità competenti per mancanza di prove. Il richiedente era quindi rinviato in Sri Lanka ma, all’arrivo, era arrestato, interrogato e maltrattato seriamente dalle autorità locali. Avendo continuato a monitorare il caso, una volta liberato, le autorità svizzere decidevano di riconoscere al richiedente dapprima un permesso umanitario e, in seguito, lo status di rifugiato. La Corte ritiene che, nonostante le autorità svizzere abbiano alla fine riconosciuto il diritto alla protezione e la violazione subita dal ricorrente, quest’ultimo possa nondimeno continuare a essere considerato vittima di una violazione della Convenzione ai sensi dell’art. 34 della stessa dato che le medesime autorità non hanno provveduto a corrispondere un adeguato risarcimento. Nel merito, la Corte ricorda che un individuo che asserisce di fare parte di un gruppo oggetto di torture e/o trattamenti inumani e degradanti sistematici nel Paese di destinazione beneficia di un regime di prova attenuato in quanto è sufficiente in tale caso dimostrare l’appartenenza al gruppo (Corte EDU, GC, 23.08.2016, J.K. e altri c. Svezia, in questa Rivista, XIX, 2017, n. 1). Tenuto conto degli sforzi del sig. X per dimostrare la sua origine Tamil e le informazioni disponibili sulle violenze cui è soggetto tale gruppo in Sri Lanka, la procedura d’asilo non è stata condotta in modo adeguato con conseguente violazione dell’art. 3 Cedu.

Il caso Khamidkariyev c. Russia (Corte EDU, sentenza del 26 gennaio 2017) riguarda il trasferimento da parte della Russia di un cittadino uzbeko verso il Paese di origine. I fatti sono controversi. Il ricorrente si sarebbe trasferito in Russia dopo essere stato minacciato in Uzbekistan da membri della famiglia al potere dove sarebbe stato poi accusato e condannato per attività legate all’estremismo religioso. Nonostante in un primo tempo la Russia avesse riconosciuto lo status di rifugiato, successivamente il richiedente veniva sequestrato in tale Paese e trasferito nel Paese di origine, doveva veniva imprigionato e sottoposto a maltrattamenti. In considerazione dei gravi indizi sul coinvolgimento, quantomeno passivo, delle autorità russe nel trasferimento del ricorrente in Uzbekistan, la Corte considera applicabile l’art. 3 sotto il profilo sia sostanziale sia procedurale. Sotto il primo profilo, la Corte identifica il ricorrente come appartenente al gruppo dei cittadini uzbechi condannati per motivi religiosi e politici e, quindi, particolarmente a rischio di trattamenti vietati dall’art. 3. Se è vero che la Russia non è obbligata ad adottare misure individuali per evitare il trasferimento involontario del ricorrente, è altrettamento vero che la Russia non ha dimostrato che tale allontanamento non sia avvenuto senza il coinvolgimento, attivo o passivo, di suoi agenti. Sotto il profilo procedurale, la Corte ricorda come la notizia di un sequestro o allontanamento involontario comporta l’obbligo per le autorità interne di avviare indagini e adottare ogni azione volta a identificare i responsabili. Nel caso del ricorrente, le indagini sono state avviate in ritardo, sono state lacunose e infine abbandonate. Vi è pertanto violazione dell’art. 3 sotto entrambi i profili considerati.

Il caso Thuo c. Cipro (Corte EDU, sentenza del 4 aprile 2017) riguarda un cittadino del Kenya trattenuto e poi allontanato dopo alcuni tenativi infruttuosi e che, una volta rientrato nel Paese di origine, intentava un’azione contro le autorità del Paese di rinvio per maltrattamenti subiti durante il trasferimento. Dopo avere avviato apposita indagine con la raccolta di numerose testimonianze, le competenti autorità cipriote concludevano tuttavia che l’eventuale uso della forza da parte degli agenti si doveva ritenere giustificato dalla resistenza opposta dal ricorrente. La Corte constata innanzitutto una violazione dell’art. 3 sotto il profilo sostanziale, essendo stato il richiedente trattenuto in uno spazio ristretto (circa 2.73 mq) per un periodo di sedici mesi. Per quanto riguarda il trasferimento, in assenza di prove sul trattamento subito, la Corte si concentra sul profilo procedurale dell’art. 3. La Corte rileva ritardi e lacune significative nella conduzione delle indagini, come ad esempio il fatto che le testimonianze degli agenti siano state raccolte dopo tre anni dall’accaduto e che sia stata loro accordata una credibilità maggiore rispetto a quanto dichiarato dal ricorrente, nonostante le chiare omissioni e contraddizioni emerse dai loro resoconti. Considerato che i responsabili non sono stati puniti nemmeno con sanzioni disciplinari, la Corte rileva altresì una violazione dell’art. 3 sotto il profilo procedurale.

Altri casi riguardano il pericolo di violazione dell’art. 3 in seguito al rischio di allontanamento.

Il caso Allanazarova c. Russia (Corte EDU, sentenza del 14 febbraio 2017) riguarda una cittadina turkmena che, dopo essere stata condannata per frode dalle autorità del Paese di origine, si era trasferita in Russia con la famiglia, cui tuttavia le autorità russe rifiutano la richiesta di protezione sulla base, tra l’altro, delle assicurazioni fornite dalle autorità del Paese di origine circa il trattamento assicurato alla ricorrente in caso di incarcerazione. La Corte ricorda come il rispetto dei diritti umani in Turkmenistan risulti preoccupante (tra gli altri, cfr. i rilievi del Groupe de travail sur la détention arbitraire del Consiglio dei diritti umani, 2014, i rapporti di Amnesty International, Report sul Turkmenistan, 2015/2016, e Human Rights Whatch, Report mondiale 2015). Tali informazioni dimostrano che coloro che sono incarcerati rischiano effettivamente di subire torture e/o trattamenti inumani e degradanti, situazione aggravata dall’assenza di ogni mezzo di ricorso effettivo per denunciare simili trattamenti e dall’impunità dei responsabili. La condanna penale pone la ricorrente in una situazione ad alto rischio rispetto alla quale le assicurazioni fornite dalle autorità turkemene non costituiscono una garanzia sufficiente, anche per l’inesistenza di adeguati strumenti di controllo. Al rischio di violazione dell’art. 3 si aggiunge una violazione del diritto a un ricorso effettivo, letto in combinato, a causa della superficialità con cui le autorità russe hanno condotto l’esame del rischio di refoulement.

Art. 4: Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato

La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla violazione dell’art. 4, par. 2, Cedu, relativo al divieto di lavoro forzato, in due circostanze, entrambe relative alla tratta di esseri umani.

Il caso Chowdury e altri c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 30 marzo 2017) è relativo a un ricorso per violazione dell’art. 4, par. 2 in quanto lo Stato non avrebbe adempiuto agli obblighi positivi derivanti da tale disposizione, non avendo adottato né misure preventive volte a eliminare il rischio di sfruttamento da lavoro né sanzioni efficaci contro i datori di lavoro. I riccorrenti sono quarantadue cittadini del Bangladesh entrati irregolarmente in Grecia che venivano reclutati per lavorare in piantagioni di fragole situate nel Peloponneso occidentale. Le condizioni descritte dai ricorrenti sono particolarmente dure: 12 ore di lavoro quotidiano, controllo continuo di guardie armate, nessun riposo settimanale, condizioni di vita precarie, senza letti, acqua corrente o bagni. In occasione di uno sciopero organizzato per ottenere il salario promesso di 22 euro al giorno, alcuni lavoratori erano oggetto di alcuni colpi d’arma da fuoco. Accusati inizialmente di traffico di esseri umani, i datori di lavoro venivano tuttavia prosciolti sia in quanto non vi era certezza che avessero approfittato della situazione di irregolarità dei ricorrenti, sia in quanto non si poteva ritenere che i ricorrenti si trovassero in una condizione di particolare vulnerabilità o schiavitù, avendo essi accettato liberamente le condizioni di lavoro. Dopo avere precisato che lo sfruttamento lavorativo costituisce un aspetto della tratta di essere umani, in linea con la definizione contenuta nella Convenzione contro la tratta del Consiglio d’Europa, e che l’art. 4 Cedu impone agli Stati parte di attivarsi con un approccio globale per prevenire e reprimere la tratta e proteggere le vittime, anche potenziali, dai trafficanti (cfr. Corte EDU, 21.01.2016, L.E. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, 2017 n. 1), la Corte considera che il consenso dei ricorrenti a essere impiegati alle condizioni sopra viste non può di per sé escludere lo sfruttamento lavorativo e che la situazione di irregolarità senza risorse in cui essi si trovavano unitamente al costante rischio di essere arrestati e rinviati nel Paese di origine poneva questi ultimi in una situazione di oggettiva vulnerabilità di cui i datori di lavoro avevano approfittato. Pur avendo introdotto un quadro normativo volto a contrastare efficacemente la tratta di essere umani e nonostante fossero a conoscenza della grave situazione presente nelle campagne, anche tenuto conto delle denunce internazionali, le autorità greche non hanno adottato misure preventive volte a evitare tale sfruttamento. Inoltre, né le denunce dei ricorrenti erano state adeguatamente approfondite, come dimostra l’esclusione della situazione di sfruttamento lavorativo sulla base di una definizione restrittiva di tratta, né i datori di lavoro erano stati perseguiti adeguatamente con la conseguenza che la Grecia ha violato gli obblighi positivi imposti dall’art. 4, par. 2, Cedu.

Al contrario, nel caso J. e altri v. Austria (Corte EDU, sentenza del 17 gennaio 2017), relativo a tre donne lavoratrici domestiche che riuscivano a fuggire dai rispettivi sfruttatori durante un soggiorno in Austria, la Corte esclude una violazione dell’art. 4 Cedu. Da una parte, infatti, l’art. 4 non impone alcun obbligo di indagare situazioni di sfruttamento o tratta di cui si possa essere vittima all’estero; dall’altra, con riferimento ai pochi giorni trascorsi in Austria con le famiglie datrici di lavoro, le autorità competenti avevano fatto tutto quanto era possibile sia per chiarire quanto accaduto, prendendo seriamente in considerazione le denunce delle ricorrenti e procedendo alla loro identificazione, sia per assicurare ad esse protezione, considerando le stesse come potenziali vittime di tratta e, quindi, rilasciando loro un permesso di soggiorno, oltre a provvedere all’adozione delle necessarie misure di sostegno per l’integrazione e l’assistenza legale.

Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza

Il caso Ilias e Ahmed c. Ungheria (Corte EDU, sentenza del 14.03.2017) riguarda due cittadini del Bangladesh che, dopo essere transitati attraverso la c.d. rotta balancanica, giungevano in Ungheria dove venivano trattenuti all’interno della zona di transito al confine con la Serbia e la cui domanda di protezione internazionale veniva infine rifiutata in base alla qualificazione della Serbia come Stato terzo sicuro. La Corte respinge le argomentazioni del governo ungherese secondo cui i ricorrenti non erano stati sottoposti a alcuna forma di trattenimento sulla base della considerazione che erano liberi di rientrare in qualunque momento in Serbia dal momento che, anche a prescindere dal fatto che la Serbia li avesse effettivamente accolti, un tale allontanamento avrebbe comportato automaticamente il rigetto della domanda di protezione internazionale con la conseguenza che essi non erano affatto liberi di scegliere se allontanarsi o meno dalla zona di transito. Ora, il trattenimento in questione non soddisfa i requisiti richiesti dall’art. 5, parr. 1 e 4 dal momento che non è previsto dalla legge, non è stato autorizzato dall’autorità competente e non poteva essere oggetto di riesame su richiesta dei ricorrenti. A tale violazione, si aggiunge una violazione dell’art. 3, seppure soltanto sotto il profilo procedurale. Infatti, il rinvio in Serbia non è stato basato su un esame delle circostanze individuali o accompagnato da sufficienti garanzie procedurali atte a far valere il rischio di refoulement. Peraltro, qualificando la Serbia come Stato terzo sicuro nonostante le informazioni internazionali disponibili sul Paese, ai ricorrenti è stato imposto un onere eccessivo determinato dalla necessità di dimostrare che il rinvio verso tale Paese avrebbe potuto esporli a un pericolo di respingimento indiretto verso il Paese di origine o i Paesi di transito. Inoltre, se è vero che le condizioni di trattenimento non danno luogo a alcuna violazione della Convenzione in quanto, ancorché precarie e basiche, non appaiono tali da raggiungere il livello di severità richiesto dall’art. 3, anche in considerazione delle difficoltà poste dal fenomeno immigratorio all’Ungheria e dell’assenza di particolari vulnerabilità nei ricorrenti (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 2017, n. 1, 2017), è anche vero che, non avendo provveduto a fornire alcun mezzo di ricorso per denunciare tali condizioni, vi è stata una violazione dell’art. 13, letto in combinato all’art. 3.

In Z.A. e altri c. Russia (Corte EDU, sentenza del 28.03.2017), la Corte è chiamata a pronunciarsi su un caso di trattenimento di lungo periodo presso la zona di transito dell’aeroporto russo di Sheremetyevo, subito da quattro stranieri provenienti da Iraq, Palestina, Siria e Somalia. Dopo essere stati oggetto di un divieto di ingresso, i ricorrenti erano stati costretti a dormire su letti improvvisati, senza accesso a servizi igienici, supportati unicamente dall’UNHCR e infine rimpatriati o ricollocati dallo stesso UNHCR. Dopo avere escluso che l’area internazionale di transito possa essere considerata come territorio non russo, la Corte accerta che i ricorrenti sono stati oggetto di una misura di privazione de facto della libertà personale dato che si trovavano nell’impossibilità sia di entrare in Russia, dove vedere esaminata la richiesta di protezione internazionale proprio a causa della decisione delle autorità di tale Paese, sia nell’impossibilità di tornare al Paese di origine. Una tale privazione di libertà non è compatible con la Cedu. Infatti, se è vero che può integrare l’eccezione di cui all’art. 5, par. 1, lett. f) in quanto finalizzata a evitare l’ingresso non autorizzato di stranieri sul territorio di uno Stato parte, essa non risulta prevista dall’ordinamento interno, né, nel caso di specie, può dirsi basata su trattati internazionali, come preteso invece dalla Russia. Vi è stata quindi violazione dell’art. 5, oltre che dell’art. 3, in ragione dell’estrema precarietà delle condizioni di trattenimento.

Il caso Thimothawes c. Belgio (Corte EDU, sentenza del 4.04.2017) riguarda un cittadino egiziano che, trovato in situazione irregolare all’aeroporto di Bruxelles, si vedeva respinta la domanda di protezione internazionale e, nell’impossibilità di procedere all’allontanamento, veniva trattenuto in un centro per stranieri sino alla scadenza del periodo massimo consentito dalla legge, senza alcuna possibilità di far valere l’illegittimità del trattenimento anche sulla base delle condizioni di salute. Dopo avere ricordato che il trattenimento in esame rientra nell’ipotesi di cui all’art. 5, par. 1, lett. f), in quanto finalizzato all’esecuzione dell’allontanamento o a impedire l’ingresso irregolare nel territorio belga, la Corte ricorda che la Cedu impone comunque una valutazione delle circostanze individuali del trattenimento automatico delle persone in posizione irregolare e che, in ogni caso, gli Stati parte sono tenuti a osservare l’obbligo di ricercare soluzioni meno restrittive alla privazione della libertà personale nei confronti di coloro che presentano qualche tipo di vulnerabilità, come quella derivante dalle condizioni di salute (cfr. Corte EDU, 22.11.2016, Abdullahi Elmi e Aweys Abubakar c. Malta, e 3.05.2016, Abdi Mahamud c. Malta, entrambe in questa Rivista, XIX, 2017, n. 1). Nel caso di specie, le autorità competenti sono venute a conoscenza dei problemi di salute del ricorrente solo in un momento successivo all’inizio della detenzione, provvedendo in seguito a assicurare cure adeguate e un riesame periodico dell’appropriatezza della misura detentiva. Tenuto anche conto della relativa brevità del trattenimento, pari a 5 mesi, e del ruolo attivo assunto dalle autorità nel preparare l’allontanamento, non vi è stata violazione dell’art. 5.

Infine, il caso Ahmed c. Regno Unito (Corte EDU, sentenza del 2.03.2017) riguarda un cittadino somalo che, dopo essere stato trattenuto, aveva chiesto e ottenuto dalla Corte la sospensione dell’esecuzione dell’allontanamento alla luce della difficile situazione in Somalia rimanendo, tuttavia, in stato di detenzione fino all’emanazione della sentenza sul caso Sufi e Elmi c. Regno Unito (Corte EDU, 28.06.2011, in questa Rivista, XIII, n. 4, 2013), con cui la Corte ha constatato che i rinvii verso la Somalia possono comportare per se una violazione del divieto di refoulement. Avendo già chiarito nel caso J.M. c. Regno Unito (Corte EDU, 19.05.2016, in questa Rivista, XIX, 2017, n. 1) che il sistema inglese non è incompatibile con la Cedu nonostante non preveda tempi massimi di trattenimento e non preveda un meccanismo di revisione automatica della decisione di mantenere un individuo in stato di detenzione, la Corte ritiene che, nel caso di specie, il ricorrente non ha subito una detenzione arbitraria poichè, a causa del suo passato criminale e del pericolo di fuga, le autorità interne hanno escluso la possibilità di ricorrere a misure meno restrittive della detenzione e hanno continuato a prepararne l’allontanamento nell’ipotesi in cui le misure provvisorie richieste dalla Corte fossero revocate. Per quanto il ricorrente sia stato trattenuto per oltre due anni, il suo caso era riconsiderato mensilmente e mezzi di ricorso effettivi con cui far valere l’illeggittimità del trattenimento erano disponibili. Pertanto, tenuto anche conto delle buone condizioni di detenzione e dei tempi necessari per esperire i ricorsi intentati dal ricorrente, non vi è stata violazione dell’art. 5, par. 1, lett. f), Cedu.

Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare

Una prima serie di casi riguarda il rischio di violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare in seguito a una decisione di allontamento eventualmente accompagnata da un divieto di reingresso.

Il caso Kamenov v. Russia (Corte EDU, sentenza del 7.03.2017) riguarda un cittadino del Kazakistan soggiornante regolare con la famiglia in Russia al quale, al rientro da un viaggio nel Paese di origine, veniva notificato un divieto di reingresso per sedici anni per ragioni di sicurezza nazionale coperte da segreto di Stato. Dopo avere considerato che il divieto è stato imposto in conformità alla legge interna al fine di tutelare un obiettivo legittimo quale quello della sicurezza nazionale, la Corte si sofferma sulla proporzionalità della misura. A questo proposito, la Corte rileva che il giudice interno non ha proceduto a un bilanciamento tra i diversi interessi in gioco e che non è stata comunicata al ricorrente nessuna informazione sui presunti motivi di sicurezza nazionale. Se è vero che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento in materia e che alcune informazioni possano essere secretate, è anche vero che l’appartenenza al sistema Cedu impone l’introduzione di meccanismi indipendenti e imparziali che consentano di valutare le circostanze individuali attinenti a ciascun caso. Poiché il ricorrente non ha avuto accesso a tali mezzi e tenuto conto dei solidi legami sociali e familiari dello stesso con la Russia oltre alle difficoltà oggettive per la moglie e i figli di trasferirsi in Kazakistan, la Corte conclude per la mancanza di proporzionalità della misura adottata e, quindi, per la violazione dell’art. 8.

Nel caso Krasniqi c. Austria (Corte EDU, sentenza del 25.04.2017), relativo a un cittadino del Kosovo che aveva ottenuto protezione sussidiaria in Austria ma che veniva allontanato successivamente a causa di serie condanne con un divieto di reingresso per 5 anni, la Corte giunge a una conclusione opposta. Dopo avere considerato che l’allontanamento e il contestuale divieto di reingresso è previsto dalla legge al fine di prevenire la criminalità, la Corte considera la misura proporzionata alla luce della gravità delle condanne subite, della facile ricollocazione del richiedente nel Paese di origine anche per la famiglia e della relativa breve durata del divieto.

La Corte giunge a una conclusione analoga nel caso relativo a Salija c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 10.01.2017), riguardante un cittadino macedone al quale è stato revocato il titolo di soggiorno per rincongiungimento familiare e, infine, allontanato verso il Paese di origine con un divieto di reingresso di 7 anni. La Corte, infatti, attribuisce rilevanza al rischio concreto che il ricorrente commetta nuovamente gravi reati, alla mancata integrazione sociale e professionale nel Paese ospite, alla giovane età dei figli che ha permesso la loro ricollocazione in Macedonia senza particolari traumi e alla relativa breve durata del divieto di reingresso.

Il caso Király e Dömötör c. Ungheria (Corte EDU, sentenza del 17.01.2017) riguarda invece le misure che gli Stati sono tenuti ad adottare per contrastare abusi e discorsi d’odio. Nel caso di specie, due cittadini ungheresi di origine Rom lamentavano una violazione del rispetto al diritto alla vita privata e familiare in quanto durante una manifestazione anti-Rom organizzata da partiti di destra la polizia era rimasta sostanzialmente passiva nei confronti di alcuni manifestanti violenti, nemmeno identificati, mentre l’incitamento all’odio da parte di alcuni politici era considerato dai giudici interni moralmente condannabile, ma tale da non costituire reato. La Corte ricorda che l’identità etnica costituisce un aspetto importante della vita privata e che stereotipi negativi su determinati gruppi etnici possono minare l’autostima e la sicurezza delle persone che sentono di appartenervi. Se è vero che certi trattamenti non raggiungono la severità richiesta per costituire una violazione dell’art. 3, è anche vero che possono avere un impatto significativo sul diritto al rispetto della vita privata (Corte EDU, 12.04.2016, R.B. c. Ungheria, in questa Rivista, XIX, 2017, n. 1). Nel caso di specie, non vi è dubbio che i ricorrenti abbiano provato sentimenti di paura e umiliazione derivanti sia dai discorsi anti-Rom, sia dall’essere costretti dalla polizia a rimanere nelle proprie case. Se non si può sindacare la scelta delle autorità interne di non aver impedito la manifestazione limitando la libertà di riunione degli organizzatori e dei partecipanti, nondimeno era evidente l’intento dei leader e dei manifestanti di attaccare e umiliare i Rom in un contesto generale d’odio già molto difficile. Soprattutto, le autorità interne si sono mostrate propense sin dal principio a limitare l’azione investigativa, non rinvenendo nella manifestazione forme di incitamento all’odio etnico. Agendo come nel caso di specie, non solo lo Stato non tutela adeguatamente le vittime, ma rischia altresì di legittimare, o quantomeno tollerare, comportamenti d’odio. Non avendo osservato gli obblighi positivi posti dall’art. 8 a tutela dell’integrità fisica e psicologica dei ricorrenti, pertanto, lo Stato ha violato la disposizione in esame.

Art. 9: Libertà di religione

Il caso Osmanoglu e Kogabas c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 10.01.2017) è relativo a una doglianza per violazione dell’art. 9, relativo alla libertà di religione, determinata dal rifiuto delle autorità svizzere di dispensare le figlie dei ricorrenti dalle lezioni miste di nuoto in ragione delle loro convinzioni religiose. Originari della Turchia e praticanti musulmani, i ricorrenti si opponevano alla partecipazione delle figlie a classi miste di nuoto poichè, nonostante ciò non fosse vietato dalla religione, intendevano abituarle sin dalla più giovane età al comportamento che avrebbero dovuto tenere a partire dalla pubertà. Dopo aver tentato invano di convincere i ricorrenti, le autorità interne notificavano loro una serie di ammende, confermate dai giudici interni sulla base dell’interesse generale a favorire l’integrazione sociale dei minori e l’adozione di misure di accomodamento (doccie e spogliatoi separati o la possibilità di indossare il burkini). Innanzitutto, la Corte si pone il problema dell’applicabilità dell’art. 9. Trattandosi di richieste che presentano uno stretto legame con i precetti della religione, il comportamento dei ricorrenti costituisce effettivamente una forma di manifestazione del proprio credo. Dal momento che l’art. 9 trova applicazione, si tratta di vedere se l’interferenza dell’autorità pubblica sia giustificata ai sensi del par. 2 della medesima disposizione, ai sensi del quale la misura adottata deve essere prevista dalla legge, perseguire un obiettivo legittimo e essere necessaria in una società democratica (Corte EDU, 26.11.2015, Ebrahimian c. Francia, in questa Rivista, XVII, n. 3-4, 2015, p. 178). A giudizio della Corte tutti e tre i presupposti risultano soddisfatti. Infatti, non solo erano chiare ai ricorrenti le conseguenze dell’eventuale violazione degli obblighi scolastici ma l’integrazione dei minori, soprattutto di altre culture e religioni, e l’uguaglianza tra i sessi tutelata in Svizzera sono espressione della necessità di proteggere i diritti e le libertà altrui, obiettivo specificamente previsto all’art. 9, par. 2. Quanto alla necessità della misura, tenuto anche conto dell’ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati in materia religiosa, occorre considerare che, nell’organizzazione del programma scolastico, la Svizzera non ha inteso limitare il pluralismo religioso ma ha riconosciuto alla scuola e allo sport una funzione di integrazione sociale secondo gli usi e i costumi locali che prevale sul desiderio dei genitori di veder dispensati i propri figli da corsi scolastici obbligatori. Peraltro, prima di dare prevalenza all’interesse generale, le autorità scolastiche hanno tentato di giungere a soluzioni di compromesso mentre i ricorrenti hanno sempre avuto a disposizione procedure effettive per far valere le proprie ragioni. Non vi è quindi violazione del diritto protetto all’art. 9.

Con la sentenza Tsartsidze e altri c. Georgia (Corte EDU, sentenza del 17.01.2017), invece, la Corte giunge a una conclusione diversa in un caso in cui erano lamentati abusi commessi ai danni di testimoni di Geova in occasione di alcuni incontri da loro organizzati quali distruzione di proprietà e incendi pubblici di materiale religioso. Tenuto conto del generale clima d’odio nei confronti dei testimoni di Geova presente nello Stato convenuto, la Corte ravvisa nella passività della polizia di fronte agli attacchi e nell’impunità garantita ai responsabili il segnale di una tolleranza istituzionale tale da violare l’obbligo dello Stato di attivarsi al fine di tutelare il pluralismo religioso e garantire a ogni individuo o gruppo la possibilità di professare il proprio credo, in conformità a quanto richiesto dall’art. 9, preso isolatamente o in combinato all’art. 14, relativo al divieto di discriminazione.

Art. 13: Diritto a un ricorso effettivo

In seguito a radiazione dal ruolo per alcuni ricorrenti, il caso Kebe e altri c. Ucraina (Corte EDU, sentenza del 12.01.2017) riguarda essenzialmente un cittadino eritreo che si era rifiutato di svolgere servizio militare in Eritrea per motivi religiosi. Dopo aver vissuto per molti anni a Gibuti, il ricorrente si era imbarcato clandestinamente su una nave maltese. Scoperto durante una sosta in Turchia, era costretto a rimanere a bordo fino all’arrivo al porto di Mykolayiv in Ucraina. Qui, alcuni agenti ucraini ne avrebbero rifiutato lo sbarco sostenendo che il ricorrente avrebbe dovuto presentare domanda di protezione internazionale allo Stato di bandiera della nave. Ai sensi dell’art. 39 del regolamento interno, la Corte richiedeva quindi all’Ucraina di sospendere il diniego di sbarco al fine di evitare il refoulement del ricorrente verso l’Arabia Saudita, dove sarebbe potuto essere respinto indirettamente verso l’Eritrea. Al fine di decidere il merito, la Corte si pone innanzitutto il problema dello Stato di giurisdizione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione. A giudizio della Corte, il ricorrente rientra nella sfera di giurisdizione dell’Ucraina dal momento che agenti di quest’ultima erano saliti a bordo della nave, ritrovandosi quindi nella posizione di decidere se accordare o meno al ricorrente il permesso di ingresso sul territorio del Paese (Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, n. 1, 2012, p. 104; Corte Edu, 21.10.2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154). Quanto al merito, tenuto conto che le circostanze del caso di specie sollevavano prima facie un rischio di violazione dell’art. 3, la Corte osserva che l’Ucraina aveva l’obbligo di esaminare la situazione in modo rigoroso e imparziale, sospendendo l’allontanamento. Al contrario, gli agenti ucraini si sono astenuti dal fornire ogni informazione al ricorrente sulla possibilità e sulle procedure per richiedere protezione internazionale, scoraggiando anzi quest’ultimo dal presentare domanda. Tenuto anche conto che qualsiasi ipotetico ricorso contro la decisione degli agenti non avrebbe avuto effetto sospensivo, il ricorrente non ha avuto a disposizione mezzi effettivi di ricorso con conseguente violazione dell’art. 13, in combinato con l’art. 3.

Il caso Abuhmaid c. Ucraina (Corte EDU, sentenza del 12.01.2017) riguarda un palestinese in soggiorno regolare in Ucraina fino al 2009, ma poi soggetto a un ordine di allontanamento in seguito a un breve periodo di soggiorno irregolare durante il quale aveva sviluppato legami familiari. Se i giudici interni ritenevano inizialmente che il ricorrente non potesse essere rinviato in Palestina per ragioni legate al conflitto in corso e all’esistenza di legami familiari in Ucraina, la successiva domanda di protezione internazionale per motivi politici veniva rigettata. Considerato il lungo periodo di permanenza in Ucraina, la Corte considera se il ricorrente abbia avuto o meno a disposizione una procedura mediante la quale far valere le conseguenze derivanti dall’impossibilità di regolarizzare il soggiorno sul rispetto della vita privata, con esclusione quindi della vita familiare dato il momento in cui i legami familiari erano sorti (Corte EDU, 16.04.2013, Udeh c. Svizzera, in questa Rivista, XV, n. 2, 2013, p. 89). A giudizio della Corte, tale verifica può dirsi positiva in considerazione del fatto che le valutazioni del giudice e delle altre autorità interne incaricate di esaminare la domanda di protezione sono state condotte in modo adeguato, ancorché conclusesi a sfavore dell’interessato. Tra l’altro, l’esecuzione dell’allontanamento è stata sospesa a seguito della presentazione di una nuova domanda di protezione. Non vi è pertanto violazione dell’art. 13, in combinato con l’art. 8.

Art. 14: Divieto di discriminazione (e discriminazione per associazione)

Il caso Škorjanec c. Croazia (Corte EDU, sentenza del 28.03.2017) riguarda una cittadina croata che, pur avendo denunciato alle autorità interne di essere stata attaccata fisicamente e verbalmente insieme al suo partner di origine Rom, in seguito alle indagini condotte dalla polizia, non veniva riconosciuta come vittima di crimini d’odio, essendo stato riconosciuto come tale solo il partner. Nel corso del processo, infatti, la ricorrente veniva ascoltata solo come testimone e i successivi tentativi di veder puniti gli abusi commessi nei suoi confronti come motivati dall’odio etnico risultavano vani. La Corte considera che il caso in esame pone diverse questioni rilevanti sotto il profilo dell’art. 3, colto sia sotto il profilo procedurale, sia sotto il profilo degli obblighi positivi derivanti dal combinato disposto di tale disposizione con l’art. 14 relativo al divieto di discriminazione (Corte Edu, 24.07.2012, B.S. c. Spagna, in questa Rivista, XIV, n. 4, 2012, p. 122, e 27.01.2015, Ciorcan e altri c. Romania, in questa Rivista, XVII, n. 2, 2015, p. 125), in particolare sotto il profilo della c.d. discriminazione per associazione, considerata per la prima volta dalla Corte nel presente caso, della discriminazione cioè di cui si può essere vittima in ragione del legame con una persona appartenente a un gruppo a rischio. La Corte precisa che le vittime d’odio per motivi razzisti non sono soltanto coloro che appartengono al gruppo minoritario accomunato da una particolare caratteristica, ma anche coloro che subiscono abusi perchè sono percepiti come tali o perché sono ad essi associati. Per quanto nell’ordinamento croato sia in vigore un sistema volto a combattere efficacemente i crimini generati dall’odio etnico, come dimostra il modo in cui è stato gestito il caso del partner della ricorrente, quest’ultima non ha beneficiato di tale sistema di tutela sulla base di una interpretazione restrittiva della nozione di vittima. Nonostante la denuncia, infatti, le autorità interne hanno ritenuto di non essere dinanzi a episodi di violenza motivati dall’odio etnico per il semplice fatto che la ricorrente non era essa stessa di origine Rom. Vi è stata pertanto violazione del divieto di tortura, letto sotto il profilo procedurale, in combinato con l’art. 14 Cedu.

1 La rassegna relativa agli artt. 2-4 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 8-14 è di C. Danisi.

 

Corte di giustizia dell’Unione europea

Protezione internazionale, diritti del richiedente e trasferimento allo Stato competente

Nel caso M. (CGUE, 9.2.2017, causa C-560/14), la Corte di giustizia dell’Unione europea è stata interpellata con rinvio pregiudiziale circa il diritto, per il richiedente protezione internazionale, ad essere ascoltato nel corso del procedimento che porta a una decisione di status. Poiché il ricorrente aveva subito un diniego riguardo alla sua domanda di protezione sussidiaria sulla base di elementi resi al colloquio che aveva determinato il rigetto di una precedente richiesta di asilo, il caso di specie ruota attorno all’essenza del diritto in questione: viene dunque in rilievo l’art. 4 della direttiva 2004/83/CE. Con il suo unico quesito, il giudice del rinvio (la Corte suprema irlandese), riferendosi anche alla sentenza M. M. del 2012 (CGUE, 22.11.2012, causa C-277/11), interrogava la CGUE su due aspetti: da un lato, il quesito aveva ad oggetto l’esigenza o meno di garantire al richiedente protezione sussidiaria un apposito colloquio, nonostante già se ne fosse tenuto uno in un procedimento precedente e distinto, in quanto finalizzato ad una pronuncia sull’attribuzione dello status di rifugiato; dall’altro, il giudice del rinvio chiedeva delucidazioni su ciò che le autorità nazionali devono consentire affinché il diritto del richiedente protezione internazionale ad essere ascoltato possa dirsi pienamente rispettato. La CGUE dapprima chiarisce che ciascuno Stato membro, sebbene dotato di un certo margine di manovra nell’istituzione delle regole procedurali prodromiche alle decisioni di status, è tenuto a rispettare i diritti fondamentali ogniqualvolta applichi il diritto dell’Unione europea: con ciò, le autorità irlandesi hanno l’obbligo di garantire all’interessato il diritto ad essere ascoltato. Entro questa cornice normativa, però, il diritto ad essere ascoltato non impone in via automatica che il richiedente debba ottenere un nuovo colloquio per l’esame dei requisiti relativi alla protezione sussidiaria, se ha già sostenuto un previo colloquio organizzato in sede di valutazione dei requisiti previsti dal diritto UE per la concessione dello status di rifugiato. Per la Corte, questa considerazione può essere dedotta anche dal ragionamento reso nella sentenza M. M. Insomma, l’importante è che al richiedente sia concessa la possibilità di esprimersi compiutamente, anche solo per iscritto, prima che sia presa una decisione definitiva sul suo status. Ciò significa che in situazioni come quella che ha dato origine al presente rinvio pregiudiziale un ulteriore colloquio sarà necessario solo se si verificano due ipotesi: la prima, avente carattere oggettivo, si ha laddove l’autorità competente, dopo il primo colloquio, non abbia avuto modo di raccogliere tutti gli elementi che le consentirebbero di pronunciarsi con certezza sulla qualifica del richiedente; la seconda, al contrario, dipende dalle caratteristiche soggettive del richiedente, nel senso che un secondo colloquio potrebbe apparire indispensabile in considerazione del grado di vulnerabilità della persona. Spetta, comunque, al giudice interno di valutare se nel caso concreto sussistono i presupposti che rendono doverosa l’instaurazione di un colloquio aggiuntivo. Meno conciliante è l’approccio seguito dalla CGUE sulla seconda parte del quesito. In particolare, la Corte nega che il colloquio debba per forza di cose prevedere l’audizione e l’esame di testimoni, in quanto non solo il diritto UE applicabile non riconosce questa facoltà al richiedente protezione internazionale, ma norme come l’art. 4 dir. 2004/83/CE sembrano attribuire alle testimonianze un’importanza a dir poco esigua.

Di particolare interesse è anche il caso C. K. e a. (CGUE, 16.2.2017, causa C-578/16 PPU), che si connota per l’interpretazione che la Corte ha fornito riguardo al concetto di trattamenti inumani e degradanti, in relazione alla situazione di richiedenti asilo soggetti all’esercizio apparentemente legittimo del potere di trasferimento da parte di uno Stato membro. In C. K. e a. era in gioco l’art. 3, par. 2, del regolamento 604/2013/UE (il regolamento Dublino III), letto alla luce dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali. La CGUE è stata destinataria di un rinvio pregiudiziale operato dalla Corte suprema slovena, a seguito di un susseguirsi di alterne vicende giudiziarie che avevano avuto come protagonista la sig.ra C. K. La donna, cittadina siriana, aveva varcato legalmente le frontiere esterne dell’Unione entrando in territorio croato; poi si era recata con documenti falsi in Slovenia, dove aveva dato alla luce un figlio e presentato, a stretto giro, domanda di asilo per entrambi. Le autorità slovene disponevano il trasferimento della sig.ra C. K. e del neonato in Croazia, ovvero nello Stato competente a esaminare la richiesta di asilo in ossequio al regolamento 604/2013/UE; tuttavia, nonostante l’assenso della Croazia, la ricorrente attestava la sussistenza di un quadro psicofisico altamente compromesso, che si sarebbe irrimediabilmente aggravato in caso di trasferimento. Da qui, la richiesta del giudice interno alla CGUE di condurre un’approfondita esegesi soprattutto dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali, anche in connessione con la “clausola discrezionale” fissata dall’art. 17, par. 1, del regolamento Dublino III, norma che consente allo Stato membro privo di competenza di esaminare una richiesta di asilo in deroga alle regole generali. La Corte, dopo avere confermato che la clausola discrezionale testé menzionata costituisce una questione di interpretazione del diritto UE, concentra l’attenzione sull’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali. Stante la coincidenza tra l’art. 4 della Carta e l’art. 3 CEDU a proposito del divieto di trattamenti inumani e degradanti, la CGUE guarda alla propria giurisprudenza più pertinente e a quella di Strasburgo, prima di sancire il punto chiave della sentenza. Tenendo a mente che l’art. 4 della Carta ha carattere generale e assoluto, la CGUE conclude che il trasferimento di un richiedente asilo affetto da uno stato di salute particolarmente grave e oggettivamente dimostrabile può, a seconda delle circostanze, integrare un trattamento inumano e degradante anche se nello Stato di presa in carico la persona possa ricevere le cure e le attenzioni necessarie: ciò si verifica se vi è il rischio «reale e acclarato» di un «deterioramento significativo e irrimediabile» delle condizioni di salute dell’individuo. Così facendo, la Corte al tempo stesso apre espressamente a un’intensa serie di poteri e obblighi per le autorità nazionali competenti, tra cui i giudici: esse potranno sì prendere decisioni in base al loro apprezzamento, ma per altro verso avranno l’incombenza di compiere accertamenti obbligatori, qualora il richiedente da trasferire versi in gravi condizioni di salute. All’atto pratico, siffatto trasferimento ben potrebbe dover essere vietato ab originem o eventualmente sospeso, se autorizzato in un primo momento. Giunta a questo punto, la Corte si sofferma sul rapporto tra i suesposti limiti al trasferimento del richiedente asilo seriamente malato e la clausola discrezionale ex art. 17, par. 1, del regolamento Dublino III. L’esito del ragionamento è che lo Stato ove il richiedente ha presentato la domanda può procedere all’esame della medesima anche in mancanza di competenza ai sensi del regolamento 604/2013/UE se la salute dell’interessato non possa migliorare in tempi celeri (in caso di trasferimento) o rischi di peggiorare (in caso di sospensione di lunga durata della procedura): ancora una volta, la valutazione degli elementi fattuali dovrà essere realizzata dall’autorità competente, se del caso il giudice interno.

Le garanzie del soggetto in procinto di essere trasferito allo Stato membro competente per l’esame della domanda di asilo hanno costituito l’essenza anche del caso Al Chodor (CGUE, 15.3.2017, causa C-528/15). In esso la CGUE, su richiesta della Corte suprema amministrativa della Repubblica ceca, ha statuito sui limiti al trattenimento degli interessati in presenza di un notevole rischio di fuga. Gli interessati erano proprio i sig.ri Al Chodor, che dall’Iraq si erano presentati in Ungheria, proponendo domanda di asilo, salvo poi fuggire verso la Germania ed essere fermati in Repubblica ceca per un controllo; ne derivava la decisione dell’autorità nazionale competente di disporre il trattenimento dei sig.ri Al Chodor, in attesa che fosse eseguito il loro trasferimento in Ungheria. Nell’ambito di un procedimento nazionale instaurato dai sig.ri Al Chodor, la controversia sfociava dinnanzi alla Corte suprema amministrativa, che indirizzava alla CGUE un rinvio pregiudiziale di interpretazione degli artt. 28, par. 2, e 2, lett. n), del regolamento Dublino III: questi articoli, letti in combinato disposto, stabiliscono che il rischio di fuga del richiedente asilo può giustificare il trasferimento, sebbene previa osservanza di accorgimenti aggiuntivi. L’obiettivo del giudice interno era sapere se i predetti articoli potevano essere applicati alla fattispecie, nonostante nel diritto interno ceco manchi tuttora una previsione normativa che contenga i criteri obiettivi ai fini della valutazione di un rischio di fuga di cui all’art. 2, lett. n), del regolamento 604/2013/UE; parallelamente, il giudice del rinvio chiedeva se al riguardo potessero essere sufficienti orientamenti giurisprudenziali nazionali o prassi amministrative. La CGUE fornisce un’interpretazione restrittiva delle norme di diritto derivato indicate dal giudice a quo. Partendo dal presupposto che l’art. 2, lett. n), del regolamento ha natura eccezionale, perché necessita di attuazione con apposito atto di diritto interno, la Corte rileva altresì che il trattenimento di un individuo suppone forti restrizioni delle libertà riconosciute e garantite dall’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali: significa che occorre tenere conto dell’art. 52, par. 1, della Carta, il quale dispone che eventuali limitazioni all’esercizio di tale diritto devono, tra le altre cose, essere previste dalla legge. Ora, atteso che il regolamento Dublino III prevede garanzie più ampie per i richiedenti asilo, se paragonato all’atto di cui costituisce rifusione, è evidente che qualsiasi compressione dei diritti del richiedente asilo debba sottostare al rispetto di requisiti precisi. Sicché, i criteri obiettivi per la valutazione del rischio di fuga, essendo strumentali a una decisione di trattenimento, non possono che essere fissati in un atto che soddisfi esigenze di chiarezza, prevedibilità, accessibilità e protezione contro l’arbitrarietà: e l’opinione della Corte è che solo una norma cogente di portata generale possa conformarsi a tali esigenze. Pertanto, la Corte subordina l’applicazione del combinato disposto degli artt. 28, par. 2, e 2, lett. n), del regolamento Dublino III alla presenza di criteri obiettivi sulla valutazione del rischio di fuga del richiedente asilo che siano stabiliti dal diritto interno (in attuazione del diritto UE) e unicamente tramite una norma che abbia carattere vincolante e portata generale; tali criteri non possono scaturire da prassi o sentenze.

 

Visti per ragioni umanitarie

Con la sentenza X e Y (CGUE, 7.3.2017, causa C-638/16 PPU), la giurisprudenza dell’Unione si è arricchita di riferimenti ulteriori sul riparto di poteri tra livelli in punto di rilascio dei visti a cittadini di Stati terzi. Le peculiarità del caso X e Y erano tre: la richiesta era stata presentata da due coniugi siriani con minori a carico presso l’Ambasciata belga in Libano; i richiedenti miravano a ottenere un visto di durata superiore a 90 giorni per motivi umanitari allo scopo di entrare in Belgio e presentare domanda di asilo; la domanda era stata fatta in base all’art. 25 del codice dei visti, che, in determinate fattispecie, prevede la possibilità per uno Stato membro di rilasciare un visto con validità territoriale limitata per ragioni umanitarie, anche se per al massimo 90 giorni su un periodo di 180. In questo contesto, i richiedenti ritenevano che l’art. 25 del codice dei visti obbligasse il Belgio ad accogliere le loro pretese, mentre le autorità nazionali ribattevano che la decisione sul rilascio del visto non era affatto vincolata, bensì soggetta a poteri discrezionali. Il giudice del rinvio si rivolgeva allora alla CGUE, sollevando questioni interpretative sull’art. 25 del codice dei visti: segnatamente, chiedeva se la norma dovesse essere attuata sulla scorta della Carta dei diritti fondamentali e della CEDU, e se ciò, a sua volta, postulasse un obbligo di concessione dei visti per motivi umanitari ai richiedenti. La Corte risponde negativamente, sottolineando che la domanda formulata da X e Y non può essere coperta dalle disposizioni del codice dei visti e che, anzi, il legislatore dell’Unione non ha ancora adottato alcun atto, sul fondamento dell’art. 79, par. 2, lett. a), TFUE, che vincoli gli Stati membri a rispettare talune condizioni per il rilascio di visti o di titoli di soggiorno di lunga durata a cittadini di Paesi terzi per motivi umanitari: non va dimenticato che la richiesta dei cittadini siriani verteva su un arco temporale superiore a 90 giorni. Poiché la situazione originata da X e Y fuoriesce dall’ambito di applicazione del diritto UE, non potranno essere invocate nemmeno le previsioni della Carta dei diritti fondamentali. La conclusione è che in questo caso non vi è spazio per porsi il problema di interpretare l’art. 25 del codice dei visti, né tantomeno di farlo sotto la lente di articoli della Carta. La CGUE si premura poi di aggiungere che tale conclusione, muovendo dal complesso di norme relative alla politica di immigrazione, non subirebbe variazioni anche se ci si riferisse alla disciplina UE sull’asilo: d’altronde, né l’art. 78 TFUE né la direttiva 2013/32/UE contemplano la possibilità per il cittadino di uno Stato terzo di depositare una domanda di asilo al di fuori dei limiti spaziali stabiliti, che non si estendono anche alle rappresentanze dello Stato di (auspicata) destinazione in un Paese terzo.

 

Diniego dello status di rifugiato per terrorismo

Nella sentenza (CGUE, 31.1.2017, causa C-573/14) pronunciata all’esito del caso Lounani, la Corte di giustizia ha acclarato il legame tra i poteri che le autorità nazionali competenti possiedono allorché si trovino a decidere sulla concessione dello status di rifugiato a un richiedente asilo e gli obblighi che l’Unione deve assumere nella lotta al terrorismo internazionale. Il ricorrente era il sig. Lounani, marocchino, soggiornante irregolare in Belgio, che aveva presentato una domanda di asilo alle autorità nazionali in seguito a condanna penale. Il fatto è che il sig. Lounani era stato condannato in quanto membro dirigente di un gruppo terroristico di dimensioni internazionali iscritto, il 10 ottobre 2002, nell’elenco delle Nazioni Unite che identifica determinate persone ed entità oggetto di sanzioni: era stato giudizialmente accertato che, nell’ambito di quel gruppo terroristico, il sig. Lounani aveva avuto un ruolo di dirigente e svolto attività di supporto logistico, esemplificato da attività di contraffazione di passaporti e di aiuto a volontari affiliati all’organizzazione terroristica intenzionati a recarsi in Iraq. L’iniziale rigetto della richiesta di asilo del sig. Lounani a causa della condanna comminatagli aveva alimentato una concatenazione di procedimenti di varia natura con esiti a tratti divergenti, finché la controversia approdava al Consiglio di Stato belga. Questi, decideva di sospendere il giudizio interno e di rivolgere alla CGUE un rinvio pregiudiziale di interpretazione degli artt. 12, par. 2, lett. c), e 12, par. 3, della direttiva 2004/83/CE. Dal testo di tali disposizioni si ricava che lo status di rifugiato è da escludersi ove sussistano fondati motivi per ritenere che il richiedente si sia reso colpevole della commissione di, dell’istigazione di o del concorso in atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni unite (quali stabiliti nel preambolo e negli artt. 1 e 2 della carta delle Nazioni Unite).

Le due questioni affrontate dalla Corte concernono la relazione che intercorre tra terrorismo e atti penalmente rilevanti: il quesito di fondo è se sono da considerarsi idonei a determinare il diniego dello status di rifugiato solo gli atti terroristici veri e propri per i quali il richiedente sia stato condannato o anche altri atti, per così dire, accessori ai precedenti. Ebbene, la Corte, valutando il diritto derivato dell’Unione europea nell’ottica del diritto internazionale applicabile, in ispecie la Convenzione di Ginevra del 1951 e la Carta delle Nazioni Unite, risponde anzitutto che l’art. 12, par. 2, lett. c), della direttiva 2004/83 deve essere interpretato in senso ampio. Quest’ultima norma non va appiattita esclusivamente sulle condotte penalmente rilevanti elencate all’art. 1, par. 1, della decisione quadro 2002/475/CE sulla lotta contro il terrorismo, che si riferisce a fattispecie di particolare gravità e sintomatiche di una partecipazione attiva e diretta del reo ad azioni terroristiche. Al riguardo, vengono in soccorso varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che stabiliscono la contrarietà ai fini e ai principi della Carta ONU non soltanto degli atti di terrorismo in senso stretto, ma, contrariamente a quanto sostenuto dal sig. Lounani, anche di tutte le altre forme di sostegno a tali atti. Avvalendosi dei contenuti di queste risoluzioni, la Corte trova la chiave di lettura che le consente di appurare cosa debba intendersi per «atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite» ai sensi dell’art. 12, par. 2, lett. c), della direttiva 2004/83/CE e del corrispondente art. 1, sez. F, lett. c), della Convenzione di Ginevra. Procedendo nella sua argomentazione, la CGUE fa presente che l’applicazione dell’esclusione dallo status di rifugiato data dal combinato disposto degli artt. 12, par. 2, lett. c), e 12, par. 3, della direttiva 2004/83, non può essere limitata agli autori effettivi di atti di terrorismo; di converso, potrà abbattersi anche su chi abbia partecipato aliunde agli atti di terrorismo. Inoltre, la Corte alleggerisce i presupposti per l’applicazione dell’esclusione prevista dalle precitate disposizioni, ammettendola anche qualora queste forme di partecipazione non siano concretamente provate; sarà sufficiente che la relativa sussistenza possa essere ritenuta verosimile in virtù di fondati motivi. Ciò, ad ogni buon conto, presuppone che l’autorità competente compia una precisa valutazione di tutte le circostanze e dei fatti del caso. Tuttavia, condotte come quelle attribuite al sig. Lounani ad avviso della Corte giustificano il rigetto della sua domanda di asilo a tenore degli artt. 12, par. 2, lett. c) e 12, par. 3, della direttiva 2004/83. Pertanto, nel caso Lounani la CGUE orienta il giudice del rinvio sia in relazione ai criteri procedurali, sia con riguardo agli aspetti sostanziali sottesi alla controversia.

 

Gestione dei flussi migratori

La CGUE ha pronunciato un’importante sentenza in materia di gestione dei flussi migratori. La causa che ha dato origine al procedimento per rinvio pregiudiziale in commento è Tekdemir (CGUE, 29.3.2017, causa C-652/15) e riguarda la decisione n. 1/80 del Consiglio di Associazione, del 19 settembre 1980, relativa all’Accordo di associazione tra CEE e Turchia del 1963. I profili giuridici più controversi del procedimento risiedono nell’obbligo successivo, imposto dal diritto tedesco ai cittadini di Stati terzi di età inferiore a 16 anni, di possedere un permesso di soggiorno: detto obbligo mira a conseguire un’efficace gestione dei flussi migratori. Al centro della vicenda si poneva la situazione di un bambino turco, figlio di genitori turchi, nato in Germania da madre richiedente asilo e padre titolare di un permesso di soggiorno temporaneo. I genitori avevano chiesto un permesso di soggiorno per il piccolo, ma l’autorità competente aveva rigettato la domanda, poiché il diritto tedesco applicabile conferisce all’autorità competente margine di discrezionalità sufficiente in merito a tale decisione. La motivazione si fondava nell’esistenza di due alternative praticabili per la famiglia: il figlio si sarebbe dovuto allontanare con la madre, facendo ingresso a posteriori mediante procedura di visto, in seguito a una richiesta di ricongiungimento familiare avanzata dal padre; oppure tutti i componenti del nucleo familiare avrebbero potuto continuare la vita familiare in Turchia, dal momento che il padre, non essendo beneficiario di uno status di protezione internazionale, non avrebbe corso rischi nel Paese d’origine. Adito dai ricorrenti, il giudice interno del rinvio si è posto il problema della conformità dell’obbligo di cui sopra con l’art. 13 della decisione 1/80, che recita: «(g)li Stati membri della Comunità e la Turchia non possono introdurre nuove restrizioni sulle condizioni d’accesso all’occupazione dei lavoratori e dei loro familiari che si trovino sui loro rispettivi territori in situazione regolare quanto al soggiorno e all’occupazione». Più precisamente, il giudice interno ha chiesto alla CGUE se l’art. 13 della decisione 1/80 debba essere interpretato nel senso che l’obiettivo di conseguire un’efficace gestione dei flussi migratori costituisce un motivo imperativo di interesse generale tale da giustificare una nuova misura nazionale come il predetto obbligo per i minori di 16 anni di possedere un permesso di soggiorno e, in caso affermativo, se ciò possa dirsi sia proporzionato rispetto all’obiettivo perseguito. Rilevato che la misura interna di cui trattasi è una nuova restrizione e che quindi in linea di principio è contrastante con il diritto UE che funge da parametro nel caso di specie, la CGUE rinviene in essa una deroga alla regola vigente: la Corte individua nell’obiettivo di contrastare l’ingresso e il soggiorno illegali un motivo imperativo di interesse generale, con la conseguenza che l’obbligo controverso riacquista, almeno in astratto, legittimità sul piano giuridico. In altre parole, la Germania può imporre limiti di ingresso e di circolazione originariamente non previsti per soddisfare esigenze rientranti in una categoria di derivazione giurisprudenziale. Anzi, secondo l’opinione della Corte tale misura è pure idonea a raggiungere l’obiettivo individuato. Sennonché, l’obbligo di possesso di un permesso di soggiorno con cui la norma tedesca sottesa al presente giudizio grava i minori stranieri di 16 anni, a detta della CGUE non è proporzionato all’obiettivo da perseguire. A dire il vero, la misura in discorso viola il principio di proporzionalità non tanto in generale, quanto, piuttosto, in concreto. Riallacciandosi alle motivazioni con le quali l’autorità nazionale aveva negato il permesso di soggiorno al minore interessato, la Corte nota come l’allontanamento del bambino (soggiornante regolare dalla nascita), a fronte della possibilità di successivo ricongiungimento familiare e rientro in Germania a mezzo di procedura di visto, ecceda quanto necessario per il raggiungimento dell’obiettivo previsto: l’autorità competente sarebbe già adesso nelle condizioni per pronunciarsi sul diritto di soggiorno del minore a titolo di ricongiungimento familiare.