Cittadinanza e apolidia

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Nel corso del 2015-2016 risulta preponderante, come di consueto, il numero delle decisioni in materia di cittadinanza rispetto a quelle in materia di apolidia. Nell’ambito delle prime, oltre a quelle che affrontano il tema degli effetti retroattivi delle pronunce costituzionali relative alla l. 13.6.1912 n. 555, si segnalano quelle relative all’acquisto della cittadinanza italiana c.d. per elezione e ancor di più quelle che toccano vari aspetti attinenti all’acquisto della cittadinanza per matrimonio. 

 

Acquisto della cittadinanza per filiazione

Risulta costante il numero delle richieste di accertamento della cittadinanza italiana avanzate da figli o discendenti di ex cittadine le quali avevano perduto, nel vigore della legge n. 555/1912, la cittadinanza di origine a seguito del matrimonio con cittadini stranieri. A tale riguardo, il Trib. Roma, sent. 3.6.2016 n. 11238 (in Banca dati De Jure) ha ribadito che «…per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 1983, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912, nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio da madre cittadina, si deve ritenere che abbiano regolarmente acquisito dalla nascita la cittadinanza italiana anche i figli e i nipoti di Ma. Lu. Ci. Ciò anche in considerazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 87 del 1975, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma terzo, della legge 13 giugno 1912, n. 555 (Disposizioni sulla cittadinanza italiana), nella parte in cui prevedeva la perdita della cittadinanza italiana indipendentemente dalla volontà della donna che si sposava con cittadino straniero». Di conseguenza, «la titolarità della cittadinanza italiana va riconosciuta in sede giudiziaria, indipendentemente dalla dichiarazione resa dall'interessata ai sensi della L. n. 151 del 1975, art. 219, alla donna che l'ha perduta per essere coniugata con cittadino straniero anteriormente al 1° gennaio 1948, in quanto la perdita senza la volontà della titolare della cittadinanza è effetto perdurante, dopo la data indicata, della norma incostituzionale, effetto che contrasta con il principio della parità dei sessi e della eguaglianza giuridica e morale dei coniugi (artt. 3 e 29 Cost.). Per lo stesso principio, riacquista la cittadinanza italiana dal 1° gennaio 1948 anche il figlio di donna nella situazione descritta, nato prima di tale data e nel vigore della L. n. 555 del 1912, determinando il rapporto di filiazione, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, la trasmissione a lui dello stato di cittadino, che gli sarebbe spettato di diritto senza la legge discriminatoria» (Cass. SU, sent. n. 4466 del 2009).

Nel medesimo solco si pone il Trib. Roma, sent. 7.6.2016 n. 11559 (in Banca dati De Jure), il quale ulteriormente specifica: «lo stato di cittadinanza deve essere riconosciuto in via giudiziaria (e anche a prescindere da una esplicita dichiarazione di volontà resa dall'interessata), anche al figlio di madre cittadina nato prima dell'entrata in vigore della Costituzione, attesi i caratteri di assolutezza, originarietà, indisponibilità e imprescrittibilità dello status civitatis, in quanto qualità della persona, rispetto alla quale non può applicarsi la categoria delle "situazioni esaurite", come tali insensibili all'efficacia naturalmente retroattiva delle pronunce di incostituzionalità, se non quando essa sia stata oggetto di un accertamento contenuto in una sentenza passata in giudicato». Ed in termini analoghi si esprimono Trib. Roma, sent. 26.3.2015 n. 6753 (in Banca dati ASGI) ed ancora il Trib. Roma, sent. 21.4.2016 n. 8102 (in Banca dati ASGI).

Merita attenzione la motivazione della Cass., ord. 5.11.2015 n. 22608 (in Riv. dir. int. priv. proc., 2016, p. 806), in quanto affronta da una peculiare prospettiva il problema della perdita della cittadinanza da parte di una cittadina italiana coniugata con un cittadino egiziano nel 1950 e dell’eventuale trasmissione di tale status civitatis al figlio, il quale ne chiedeva appunto l’accertamento in senso positivo, che gli era stato negato nei precedenti gradi di giudizio. In questo caso, tuttavia, la moglie non aveva perso la cittadinanza italiana a causa del matrimonio ex art. 10 della legge n. 555/1912, bensì come effetto dell’acquisto volontario della cittadinanza egiziana (unitamente alla residenza all’estero) ex art. 8 n. 1 della stessa legge. A tale riguardo, secondo la Corte, «deve osservarsi che, come evidenziato di recente da questa Corte, in occasione dell'esame di fattispecie analoga a quella che qui ci occupa (Sez. 6-1, n. 6205/2014), ricondurre tout court l'acquisto della cittadinanza straniera al paradigma dell'art. 8, 1. 555/1912, mostrerebbe un atteggiamento dei giudici di merito poco attento al quadro normativo entro cui si inserisce tale norma, fortemente ispirato al principio della supremazia del genere maschile. L'affermazione, non corroborata da adeguati approfondimenti, per cui l'opzione della madre del ricorrente per la cittadinanza egiziana sia senz'altro spontanea, sembra trascurare la circostanza che all'epoca del matrimonio, nella piena vigenza del divieto per la donna maritata di acquisire una cittadinanza diversa da quella del marito (art. 10, co. 1, 1. 555/1912), la scelta per la cittadinanza straniera ben poteva essere dettata dalla necessità di acquisire la cittadinanza del coniuge ai sensi del terzo comma dell'art. 10 (la donna cittadina che si marita ad uno straniero perde la cittadinanza italiana, sempreché il marito possieda una cittadinanza che per il fatto del matrimonio le si comunichi) e dunque non essere propriamente "libera", e questo a prescindere dal, provato o meno, timore della donna di essere espulsa dal territorio egiziano a causa della situazione politica antecedente allo scoppio della guerra di Suez».
La Corte ha perciò concluso che la reiezione della richiesta di riconoscimento dello status di cittadino iure sanguinis della parte ricorrente «non è stata preceduta da un adeguato approfondimento in fatto che potesse giustificare il convincimento del Collegio».

Di tale orientamento non sembra tener conto il Trib. Roma, sent. 10.3.2016 n. 5032 (in Banca dati ASGI), il quale ha invece respinto la analoga domanda del figlio di una cittadina italiana coniugata con un cittadino libanese. I giudici hanno così tra l’altro motivato: «Gli effetti del volontario acquisto della cittadinanza libanese sono regolati all’art 8 comma 1 della L. n. 555 del 1912 in vigore all’epoca nella quale la stessa ha effettuato la dichiarazione (1961), il quale stabiliva che perdeva la cittadinanza italiana chi spontaneamente acquistava una cittadinanza straniera e stabiliva all’estero la propria residenza. Non può condividersi la tesi di parte attrice, secondo la quale l’acquisto della cittadinanza libanese da parte della madre non fosse stata una libera scelta con la conseguenza che dovrebbe ritenersi che la stessa non avesse mai perso la cittadinanza italiana. Posto che tale circostanza non è stata documentata, si tratta, comunque, di una situazione diversa da quella prevista dall’art 10 della legge n. 555 del 1912 che stabiliva che la donna italiana che sposava uno straniero perdeva la cittadinanza italiana… L’art. 8 della legge n. 555 del 1912, norma in base alla quale la madre dell’attore ha perso la cittadinanza italiana ed alla quale ha fatto riferimento al momento del riacquisto della cittadinanza italiana in base all’art 17 della L. n. 91/1992, non è mai stata dichiarata incostituzionale… La cittadinanza riacquistata in base alla dichiarazione effettuata ai sensi della norma di cui all’art. 17 della L. n. 91/92, che in armonia con una diversa sensibilità dei tempi ha abbandonato lo sfavore per la plurima cittadinanza ed ha conferito maggiore rilevanza alla volontà del soggetto, non può automaticamente comunicarsi dalla madre al figlio, odierno attore, posto che all’epoca della sua nascita e fino alla maggiore età di esso (v. art 14 L. cit.), la madre era ancora solamente cittadina libanese e non è previsto dalla legge che l’acquisto della cittadinanza in base all’art 17 cit. abbia efficacia retroattiva».

Riguardo ad una diversa fattispecie, lo stesso Trib. Roma, sent. 10 ottobre 2016 n. 18710 (in Banca dati ASGI), ha dichiarato inammissibile una domanda diretta all’accertamento della cittadinanza italiana, formulata da una discendente di due coniugi italiani emigrati negli Stati Uniti d’America, dopo aver constatato che il padre, pur avendo acquistato la cittadinanza statunitense, non aveva mai perduto quella italiana che aveva quindi potuto “trasmettere” alla figlia. Secondo i giudici, «Se è pur vero che in materia la giurisprudenza di legittimità ha confermato che il diritto di cittadinanza costituisce uno “status” permanente ed imprescrittibile, salva l’estinzione per effetto di rinuncia da parte del richiedente, ed è perciò giustiziabile in ogni tempo, anche in caso di pregressa morte dell’ascendente o del genitore dai quali deriva il riconoscimento (Cass. n. 6205/2014; n. 20870/2011; n. 18089/2009), non può contestarsi, tuttavia, che la scelta di iniziare un processo di cognizione deve pur sempre riscontrare i presupposti che lo legittimano, con particolare riferimento alla disposizione di cui all’art. 100 c.p.c. …Nel caso in esame, invece, difettano tali presupposti poiché l’attrice è, dal momento della sua nascita, titolare, sia della cittadinanza americana, che di quella italiana (ius sanguinis). L’attrice, pertanto, anziché adire direttamente l’autorità giudiziaria, doveva limitarsi a chiedere un documento di identità della Repubblica italiana alla competente autorità consolare sulla scorta della documentazione attestante la sua discendenza, e solo in caso di diniego, aveva azione diretta dinanzi all’AGO nei confronti del Ministero dell’interno, come riconosciuto dalla costante giurisprudenza di legittimità».

Acquisto della cittadinanza “per elezione”.
Si tratta dell’acquisto volontario della cittadinanza italiana a favore dei cittadini stranieri o apolidi nati e residenti “legalmente” e ininterrottamente in Italia sino al compimento della maggiore età, previsto dall’art. 4, co. 2., l. n. 91/92.
Sull’interpretazione di questa norma e sulla recente modifica legislativa si è soffermato il   Tribunale Firenze, decr. 28.7.2015 n. 8374,  ricordando anzitutto che «con il decreto legge n. 69/2013 è stato previsto, al primo comma dell’art. 33, la non imputabilità agli interessati degli inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della P.A., ciò ai fini dell’integrazione del requisito di residenza legale ininterrotta per tutta la durata della minore età, dando possibilità ai richiedenti di dimostrare il possesso del requisito, con ogni possibile documentazione idonea». Di fronte all’atteggiamento della P.A., secondo la quale la possibilità di esercitare il diritto di opzione sarebbe riservato, anche dopo il compimento del diciannovesimo anno di età, solo a coloro che nei sei mesi antecedenti il raggiungimento della maggiore età non fossero stati avvisti dall’ufficiale di stato civile della facoltà di avvalersene, il Tribunale, ribadendo che l’art. 33 amplia la portata del suddetto art. 4 e favorisce l’acquisto della cittadinanza italiana, ha dichiarato tale rifiuto illegittimo. Dal canto suo, il    Trib. Roma, sent. 6.2.2015 ,  al termine di una articolata motivazione sulla nozione di residenza legale del minore condotta sulla base di norme e giurisprudenza nazionali e sovranazionali, ha concluso considerando che «la fonte primaria (art. 4, co. 2, l. n. 91/92) richiede la residenza legale e che la residenza legale non coincide con la residenza anagrafica né con la regolare residenza in Italia dei genitori. Le fonti secondarie, ossia il d.p.r. n. 572/93 (che, in quanto regolamento di esecuzione ai sensi dell’art. 25 della l. 91/92, non può introdurre nuovi obblighi o restrizioni all’esercizio dei diritti previsti nella legge e nemmeno integrare la legge, che dispone già in dettaglio) e le circolari ministeriali, richiedono residenza anagrafica e permesso di soggiorno dei genitori in contrasto con i suindicati principi di normazione primaria e sovranazionale ed, in applicazione dell’art.4 delle disposizioni preliminari al codice civile, possono essere disapplicate dal giudice». Assai opportuno risulta il rilievo finale dei giudici i quali confermano, per questo tipo di attribuzione della cittadinanza italiana, l’assenza di qualsiasi potere discrezionale della P.A.
Acquisto della cittadinanza per matrimonio.
La disciplina relativa alle pertinenti norme (artt. 5-8) della l. n. 91/1992 è stata interpretata ed applicata sotto diversi profili.
Anzitutto, sono state fatte salve le condizioni previste dal precedente (e più liberale) testo dell’art. 5 in due casi nei quali si trattava di coppie residenti all’estero ed il marito italiano era già deceduto al momento della presentazione, da parte della moglie, dell’istanza per l’acquisto della cittadinanza italiana.
Così, il Trib. Roma, sent. 3.6.2016, n. 11279 (in Banca dati ASGI) ha affermato che: «prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 94/2009, in caso di morte del coniuge italiano, il coniuge straniero vedovo poteva comunque ottenere la cittadinanza ai sensi dell’art. 5 della legge n. 91/1992 (acquisto della cittadinanza per iuris communicatio) anche se, al momento dell'istanza, non possedeva più la qualità di coniuge, purché fossero trascorsi tre anni di matrimonio (Consiglio di Stato, parere del 30.11.1992 n. 2482). Dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 94/2009, non è più consentito l’acquisto della cittadinanza allo straniero che sia rimasto vedovo del coniuge italiano dopo la presentazione della domanda: poiché, come detto, la morte comporta lo scioglimento del matrimonio, viene meno il requisito della costanza del matrimonio con il cittadino italiano al momento dell’adozione del decreto di conferimento della cittadinanza». L’istanza è stata comunque respinta per il mancato decorso del triennio al momento della presentazione della medesima.

Nello stesso senso si era pronunciato il   Trib. L’Aquila, sent. 15.12.2015 n. 1053 , nei confronti di una identica fattispecie nella quale invece tale requisito era presente, accogliendo la relativa domanda.

Per quanto attiene alla assenza di cause ostative a questo peculiare modo di acquisto della cittadinanza, il Trib.Roma, sent. 29.3.2016 n. 6391 (in Banca dati ASGI) ha dapprima rilevato che «le cause ostative all’acquisto della cittadinanza sono indicate nell’art. 6 della legge n. 91/92, che prevede che l’acquisto della cittadinanza da parte del coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano, è precluso per: a) la condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del codice penale; b) la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero la condanna per un reato non politico ad una pena detentiva superiore ad un anno da parte di un’autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza sia stata riconosciuta in Italia; c) la sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica». Il Collegio ha ravvisato sussistere «la causa ostativa prevista dall’art.6 lett. b) della legge cit. avendo il ricorrente riportato una condanna per un delitto non colposo per il quale la legge prevede una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione: tale condanna preclude l’acquisto della cittadinanza ex art. 5. Né può ritenersi rilevante l’intervenuta pronuncia di estinzione del reato in data 13.2.2009 (vedi provvedimento agli atti), atteso che la riabilitazione costituisce l'unico rimedio previsto dalla legge (art. 6, l. 5 febbraio 1992 n. 91) per elidere l'effetto preclusivo dei precedenti penali ai fini dell'acquisto della cittadinanza italiana; la riabilitazione, infatti, non può essere considerata fungibile, ai detti fini, con altre cause di estinzione del reato…dalle quali differisce, secondo la giurisprudenza penale di legittimità, per la peculiarità di presupporre - essa soltanto - l'accertamento di un completo ravvedimento del reo (da ultimo, cfr. Cassazione civile, sez. VI, 26/09/2014, n. 20399 e T.A.R. Lazio, sez. II, 02/02/2015, n. 1833)».
In quest’ultima sentenza è stata inoltre delineata la differente posizione del richiedente a seconda del contenuto dei provvedimenti di diniego della cittadinanza adottati dalla P.A. nei suoi confronti. In particolare, essa può essere connotata come diritto soggettivo di fronte ai provvedimenti aventi ad oggetto l’accertamento dei requisiti relativi all’esistenza di condanne penali di cui alle lett. a) e b) dell’art. 6. «Ne consegue che, a fronte di tali provvedimenti, la posizione del richiedente si connota come diritto soggettivo, in quanto tale sindacabile dal giudice ordinario. Al contrario, i provvedimenti di acquisto o di diniego della cittadinanza fondati su motivi inerenti alla sicurezza dello Stato si inquadrano nell’attività discrezionale della pubblica amministrazione e, conseguentemente, a fronte degli stessi, la posizione sindacabile del richiedente si connota come interesse legittimo, in quanto tale sindacabile dal giudice amministrativo (cfr. Cass. civile, Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24312) ».

Nella stessa scia si è mosso il Cons. St., sez. III, sent. 25.8.2016 n. 3696, nel decidere l’infondatezza di un ricorso presentato ex art. 6, co. 1 lett. c) da un cittadino indiano coniugato con una cittadina italiana, nel quale ha ribadito che il provvedimento di rigetto «con cui si esercita un tale potere discrezionale è sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità per i suoi eventuali profili di eccesso di potere (ad es. per travisamento dei fatti o inadeguata motivazione), ferma restando l’insindacabilità del merito della valutazione dell’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 11 marzo 2016, n. 1874; Sez. VI, 20 maggio 2011, n. 3006; Sez. VI, 3 ottobre 2007, n. 5103) », peraltro ritenendo sufficiente che i fatti imputabili al richiedente risultassero alla data di emanazione del provvedimento, a nulla valendo i successivi provvedimenti di archiviazione.

Riguardo poi alla preclusione temporale di due anni per il decreto di rigetto, prevista dall’art. 8, co. 2, l. n. 91/92, il Trib. Roma, sent. 12.4.2016, n. 7306 (in Banca dati ASGI) ha ribadito alcuni punti fermi. «Occorre premettere che “in tema di acquisto della cittadinanza italiana iuris communicatione, il diritto soggettivo del coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano affievolisce ad interesse legittimo solo in presenza dell'esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere discrezionale di valutare l'esistenza di motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica che ostino a detto acquisto, con la conseguenza che, una volta precluso l'esercizio di tale potere - a seguito dell'inutile decorso del termine previsto… -, in caso di mancata emissione del decreto di acquisto della cittadinanza, come di rigetto della relativa istanza, ove si contesti la ricorrenza degli altri presupposti tassativamente indicati dalla legge, sussiste il diritto soggettivo, all'emanazione dello stesso, per il richiedente, che può adire il giudice ordinario per far dichiarare, previa verifica dei requisiti di legge, che egli è cittadino” (SU, sent. n. 7441 del 7 luglio 1993; SU, sent. n. 1000 del 27 gennaio 1995; ecc.). Con tali pronunce si è quindi precisato che il diritto sorge all’atto del verificarsi delle condizioni previste dalla legge; può essere affievolito ad interesse legittimo in caso di esercizio, nell’ambito di un biennio dalla data della domanda, del potere discrezionale di valutare eventuali situazioni di pregiudizio; l’inutile decorso di tale termine o il rigetto della domanda amministrativa per motivi diversi da quelli inerenti al predetto sindacato attribuito all’amministrazione determinano l’azionabilità del diritto dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria».

Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione.
Chiamato ad interpretare ed applicare l’art. 9, l. n. 91/92, il Cons. St., sez. III, sent. 11.5.2016 n. 1874, ha ricordato anzitutto che «trattandosi di richiesta di cittadinanza collegata al dato strettamente oggettivo della residenza dello straniero in Italia da almeno dieci anni, all’Amministrazione va riconosciuto un potere ampiamente discrezionale nella determinazione conclusiva del procedimento, non sindacabile nei profili dell’opportunità della scelta, stante la natura concessoria del provvedimento, cui non corrisponde la sussistenza di un diritto soggettivo in capo al richiedente». Nel caso di specie, al cittadino iraniano richiedente, al quale era stato riconosciuto lo status di rifugiato politico, era imputata la partecipazione ad una associazione considerata vicina ad una organizzazione ritenuta terroristica. Il Consiglio di Stato ha giustificato il giudizio negativo del Ministero dell’interno affermando che «tale giudizio di per sé stesso risulta sufficiente per negare il riconoscimento della cittadinanza italiana all’interessato, a prescindere da ogni ulteriore considerazione sia sulla sua condotta personale sia sulla eventualità che l’associazione in questione possa svolgere in concreto attività associative, che sfocino in vicende illecite penalmente rilevanti». Tuttavia, a seguito della constatazione di una sentenza del Tribunale di Roma che aveva archiviato il procedimento di indagine aperto nei confronti dei componenti della associazione suddetta e della cancellazione di quest’ultima a livello europeo dalla lista delle associazioni terroristiche, il Collegio ha aggiunto che «(come ha rilevato la stessa Amministrazione in giudizio) le invocate favorevoli circostanze sopravvenute potevano essere adeguatamente esposte dall’interessato, già nelle more del giudizio, a sostegno di una richiesta di riesame del diniego da parte dell’Amministrazione, così come, per il futuro, potrà fare l’interessato, ove ritenga di presentare una nuova domanda volta ad ottenere il beneficio cui aspira».

Di segno diverso appare l’orientamento del Cons. di Stato, sez. III, sent. 26.10.2016 n. 4498, di fronte a un cittadino turco, anch’esso rifugiato politico in quanto di etnia curda, che si dichiarava «idealisticamente vicino a tutti quei movimenti che si battono per la causa curda»; in questo caso, dopo aver ribadito l’insindacabile discrezionalità del Ministero, è stato avallato il provvedimento di rifiuto della concessione della cittadinanza.

Viceversa, il Tar. Lazio, sez. II-quater, sent. 31.5.2016 n. 6321, ha censurato, sotto il profilo procedurale, l’operato della P.A., la quale si era rifiutata di depositare in istruttoria la documentazione relativa al diniego della cittadinanza, sia pure richiesta con «le cautele ritenute necessarie dalla stessa Amministrazione in ragione della sua natura “riservata”, vale a dire in originale – con tutti gli opportuni stralci ed “omissis” ritenuti opportuni al fine di non disvelare notizie riservate e non pregiudicare eventuale attività di intelligence – ovvero con relazione o rapporto sintetico». I giudici infatti hanno dichiarato l’illegittimità di un simile rifiuto, alla luce di rilevanti precedenti giurisprudenziali, tra l’altro ricordando che, secondo la Corte costituzionale, «il diritto alla tutela giurisdizionale va annoverato “tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia un giudice e un giudizio” (così, Corte cost. sent. n. 18/1982), ulteriormente escludendo che vincoli derivanti da valutazioni compiute da organi amministrativi possano condizionare la libertà di apprezzamento del giudice sul punto centrale della controversia e, quindi, compromettere la possibilità per le parti di far valere i propri diritti dinnanzi all’Autorità giudiziaria con i mezzi offerti in generale dall’ordinamento giuridico (Corte cost. n. 70/1961)».

 

Accertamento dell’apolidia.

Due pronunce risolvono i problemi relativi alla dichiarazione dell’apolidia da parte dell’autorità giudiziaria nei confronti di cittadine cubane.

Anzitutto il Trib. Roma, sent. 15.12.2015, n. 24999 (in Banca dati ASGI), affrontando il caso (piuttosto ricorrente) della sorte dei cittadini cubani emigrati all’estero, ha dapprima ricordato che, secondo la legge sull’emigrazione cubana (Ley de Migration del 20.9.1976 n.1312), «il cittadino cubano che si rechi all'estero, dopo undici mesi consecutivi di assenza da Cuba è considerato emigrante con conseguente contrazione dei diritti, attinenti alla sfera privata e pubblica, all'interno del territorio cubano. Anche a voler considerare l’intervenuta modifica di recente operata dal legislatore cubano con il decreto legge 302 in vigore dal 14.1.2013 in punto di emigrazione che a modifica della pregressa normativa estende a 24 mesi il periodo di legittima assenza del cittadino cubano dallo Stato ed elimina il potere di confisca da parte dello Stato dei beni dell’emigrato, in ogni caso trattasi di modifica che non incide sulla condizione dell’istante sia perché costei risulta essersi allontanata da Cuba almeno 8 anni or sono, sia perché deve ritenersi accertato che decorso il periodo di massimo due anni dall’allontanamento del cittadino dal territorio cubano il medesimo viene privato comunque del diritto di residenza, tanto da dover richiedere un visto d'ingresso per il rientro rimesso alla discrezionalità dell'autorità cubana». I giudici hanno perciò concluso che, «pur in assenza di una revoca formale ed esplicita della cittadinanza, all’attrice debba essere riconosciuto lo status di apolide in quanto l’impossibilità della stessa di soggiornare nel proprio paese di origine a tempo indeterminato e, comunque, solo se in possesso di uno specifico permesso di soggiorno rilasciato dalle autorità locali - equiparandola, così, sostanzialmente ad un cittadino straniero - dimostra il venir meno di quel legame effettivo con lo Stato che rappresenta l’elemento costitutivo della cittadinanza»; è stato perciò riconosciuto lo status di apolide ai sensi dell’art. 1 della convenzione di New York del 28.9.1954, relativa allo statuto degli apolidi,

Motivazioni simili sono state adottate dal Trib. Roma, sent. 29.7.2016 n. 15397 (in Banca dati ASGI), in relazione ad una identica fattispecie, all’inizio delle quali è stato opportunamente così puntualizzato: «Conformemente all’indirizzo maggioritario, si ritiene che il giudice ordinario abbia la giurisdizione in tale materia, trattandosi di procedimento contenzioso volto all'accertamento di uno stato personale, relativo a posizioni soggettive con natura di diritti; nel relativo procedimento, inoltre, sussiste la legittimazione passiva del Ministero dell'Interno, in quanto lo straniero fa valere in giudizio un diritto che gli può essere riconosciuto anche in via amministrativa da detto Ministero, pur non sussistendo alcuna pregiudiziale in ordine alla preventiva proposizione della domanda amministrativa di riconoscimento dello stato di apolidia (cfr. Cass. SU n. 28873/08)».