Ammissione e soggiorno

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Ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi
Con sentenza n. 6446/2018 il Consiglio di Stato ha accolto l’appello di un lavoratore straniero per il quale il datore di lavoro aveva presentato domanda di emersione dal lavoro illegale, di cui all’art. 5, co. 5, d.lgs. n. 109/2012, annullando la decisione del Tar Lombardia di rigetto del ricorso.
 
 La vicenda riguardava una domanda di emersione, rigettata dalla prefettura di Milano in quanto il datore di lavoro non avrebbe versato i contributi previdenziali per almeno sei mesi; nel corso del giudizio erano emerse varie anomalie del procedimento ed anche un’insufficienza dei versamenti contributi, tale da convincere il Tar Milano a rigettare il ricorso. Tuttavia, il Consiglio di Stato ha annullato quella decisione ed il provvedimento prefettizio in quanto, dopo avere valutato giustificate alcune delle anomalie, ha ritenuto comprovato il rapporto di lavoro protrattosi ben oltre i sei mesi successivi alla domanda di regolarizzazione (dimostrato dal lavoratore sia con documentazione attestante la presenza in Italia entro il termine indicato dalla legge di regolarizzazione, sia attraverso l’estratto conto INPS). Pertanto, pur affermando l’impossibilità di procedere alla stipula del contratto di soggiorno, stanti le irregolarità procedurali del datore di lavoro, il giudice d’appello ha fatto applicazione dell’art. 5, co. 11-ter d.lgs. 109/2012, ovverosia ritenendo conclusa la procedura di regolarizzazione, con rilascio del permesso di soggiorno per attesa occupazione, se il rapporto di lavoro sia cessato prima della definizione della procedura di emersione per fatto incolpevole del lavoratore.
Il Consiglio di Stato ha richiamato i precedenti giurisprudenziali secondo i quali il pagamento dei contributi previdenziali indicati dalla legge rappresenta elemento presuntivo dell’esistenza del rapporto di lavoro ai fini dell’emersione, mancando il quale deve comunque essere consentito al lavoratore dimostrare l’esistenza del rapporto di lavoro, in conformità a quanto previsto dalla Direttiva 2009/52/CE, potendosi così completarsi la procedura di regolarizzazione con il rilascio a suo favore di un titolo di soggiorno.
 
Con ordinanza cautelare n. 6360/2018 il Consiglio di Stato ha accolto l’appello cautelare relativamente all’impugnazione di una sentenza del Tar Lombardia con cui era stato rigettato il ricorso avverso di un provvedimento del questore di Bergamo, di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, motivato in quanto le aziende presso le quali il lavoratore aveva dichiarato svolgere attività lavorativa «sono risultate prive di struttura di impresa, con conseguente annullamento di tutte le posizioni contributive dei lavoratori».
In fase cautelare il Consiglio di Stato ha concesso la sospensiva, ritenendo sussistente il fumus boni juris, poiché il Tar non ha adeguatamente valorizzato la sopravvenienza di un nuovo rapporto di lavoro antecedente il provvedimento di diniego di rinnovo, non valutato dalla questura per violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento (ndr: comunicazione di avvio del procedimento o preavviso di rigetto, ex artt. 7 e 10-bis, legge 241/90 e s.m.).
Inoltre, secondo il Consiglio di Stato la valutazione del requisito reddituale non va effettuata in maniera rigida ma in riferimento alla capacità futura. Infatti, «la valutazione del requisito reddituale non va rigidamente ancorata al conseguimento, nel pregresso periodo di validità del permesso di soggiorno, di redditi non inferiori alla soglia prevista dall’art. 29 del d.lgs. 286/1998, bensì ad una prognosi comprensiva della capacità reddituale futura, desumibile anche da nuove opportunità di lavoro, se formalmente e tempestivamente documentate (cfr., tra le tante, Cons. St., sez. III, nn. 2585/2017; 2335/2018; 1971/2017; 843/2017)».
 
Con ordinanza n. 6359/2018 il Consiglio di Stato ha respinto un appello cautelare proposto da un lavoratore straniero cui la questura di Milano aveva negato il rinnovo del permesso di soggiorno per insufficienza reddituale. Rispetto alla decisione sopra in rassegna, questa decisione si differenzia in quanto l’elemento nuovo sopravvenuto (proposta di lavoro) era intervenuto successivamente all’adozione del provvedimento da parte del questore e pertanto non poteva essere valutato in sede di sindacato di legittimità. Secondo la pronuncia, infatti, «la decisione di primo grado si rivela coerente con l’orientamento della sezione, di recente ribadito con decisione n. 612/2018, e da tempo consolidato nel senso che l’art. 5, co. 5, d.lgs. 286/1998, nell’imporre all’Amministrazione di prendere in considerazione i “nuovi sopraggiunti elementi” favorevoli allo straniero, si riferisce a quelli esistenti e formalmente rappresentati o comunque conosciuti dall’Amministrazione al momento dell’adozione del provvedimento (anche se successivamente alla presentazione della domanda), mentre nessuna rilevanza può essere attribuita ai fatti sopravvenuti alla adozione dell’atto di diniego (cfr., in ultimo, sez. III, n. 1714/2016; n. 2645/2015; n. 2735/2015; con riferimento alla intervenuta riabilitazione, cfr. sez. III, n. 4685/2013; n. 4935/2014; n. 23/2016 e n. 2053/2015)».
Inoltre, il Consiglio di Stato ribadisce l’orientamento secondo cui il reddito parametrato all’importo dell’assegno sociale costituisce «un ragionevole parametro di riferimento per la stima della sufficienza dei mezzi di sussistenza allegati».
 
Nota di Nazzarena Zorzella
Le due ordinanze del Consiglio di Stato, dianzi indicate, pongono la questione, che da tempo invero si dibatte, della ragionevolezza di affidare al giudice amministrativo la sindacabilità dei provvedimenti che riguardano il permesso di soggiorno, senza peraltro attribuirgli la giurisdizione esclusiva di merito. Solo in quest’ultima ipotesi, infatti, il giudice amministrativo potrebbe entrare nel merito del rapporto e non limitarsi, come invece ora, alla mera legittimità del provvedimento impugnato.
Le due ordinanze affermano entrambe la rilevanza degli elementi nuovi sopravvenuti (art. 5, co. 5 TU) solo se intervenuti precedentemente al provvedimento del questore sul rinnovo del titolo di soggiorno, irrilevanti, dunque, se successivi. Anche la decisione che concede la sospensiva muove dai medesimi presupposti, evidenziando che il nuovo rapporto di lavoro era intervenuto prima del provvedimento questorile, di cui la PA doveva tenere conto applicando correttamente le regole della partecipazione al procedimento (artt. 7 e/o 10-bis legge 241/90 e s.m.), l’omissione delle quali rende illegittimo il provvedimento. Principio importante, quest’ultimo, perché afferisce all’esercizio del diritto di difesa del destinatario dell’atto, nel contempo garantendo l’esercizio corretto dell’azione amministrativa in cooperazione con il primo.
Tuttavia, la questione che si ritiene utile segnalare (non potendo esaurirla in poche righe) è quella dei limiti alla sindacabilità dell’atto amministrativo che incide sulla condizione giuridica del cittadino straniero e l’irrazionalità dell’odierno riparto di giurisdizione. Avendo il legislatore del 1998 attribuito la giurisdizione in materia di permesso di soggiorno al giudice amministrativo (art. 6, co. 10 TU), mai modificata nel corso del ventennio nonostante il TU immigrazione abbia subito svariate riforme, detti limiti appaiono oggi ancora più ingiustificati, poiché in quasi tutti gli altri “settori” di disciplina della condizione giuridica del cittadino straniero la giurisdizione è, via via, transitata al giudice ordinario. Così è stato, ad esempio, per quasi l’intera materia relativa alla protezione internazionale, fino al 2007 assegnata alla giurisdizione amministrativa ed oggi a quella ordinaria, compresi i provvedimenti cd. Dublino (d.l. 13/2017 – art. 3, d.lgs. 25/2008), con l’unica eccezione dei provvedimenti di revoca delle misure di accoglienza, attribuite alla giurisdizione amministrativa ma nelle sole ipotesi nelle quali sia esercitata una discrezionalità amministrativa (art. 23, d.lgs. 142/2015; eccezione invero poco comprensibile, se si considera che anche le misure di accoglienza possono incidere sul diritto alla protezione internazionale, diritto soggettivo a natura fondamentale). Così è stato per il diritto al ricongiungimento o la coesione familiare (art. 5, co. 5 – artt. 28, 29 e 30 TU) e per la materia delle espulsioni (art. 13 TU 286/98), fatta eccezione per quelle disposte dal Ministro per ragioni di ordine pubblico o sicurezza dello Stato o per minaccia terrorista (art. 13, co. 1 TU). Così è stato in materia di cittadinanza in quanto l’ultima riforma di cui al d.l. 13/2017 pare assegnare al giudice ordinario tutte le fattispecie di acquisto dello status (art. 3, co. 2 d.l. 13/2017), prima distinte a seconda del loro presupposto.
Così è stato, infine, per i provvedimenti che riguardano il diritto al soggiorno o l’allontanamento dei cittadini dei Paesi membri dell’Unione europea e dei loro familiari (d.lgs. 30/2007).
Così è stato, grazie all’intervento della magistratura, per i permessi di soggiorno per particolare sfruttamento lavorativo, per i quali, afferendo ad un diritto fondamentale quale quello a non subire un ingiusto ed illecito trattamento lavorativo, è stata nel 2018 affermata la giurisdizione ordinaria (cfr. la rassegna in questo numero della Rivista su Asilo e Protezione internazionale – sotto rubrica Protezione umanitaria).
Situazioni, tutte, nelle quali il provvedimento amministrativo, che su di esse incide, esprime una mera discrezionalità tecnica, cioè la rispondenza ai criteri indicati dal legislatore (cui solo appartiene il potere di determinare la condizione giuridica del cittadino straniero, ex art. 10, co. 2 Cost.), rispetto alla quale il giudice ordinario ha il potere di valutare il rapporto e di accertare il diritto, con conseguente obbligo per il questore di rilasciare un titolo di soggiorno.
Situazione, però, che è identica anche per il permesso di soggiorno “ordinario”, cioè per lavoro (permesso unico) e lo stesso vale anche in riferimento al permesso UE di lungo periodo, per entrambi i quali è il legislatore (TU immigrazione) ad indicare i presupposti per il loro rilascio, peraltro oramai di derivazione europea. Anche in questi casi il questore esercita una mera discrezionalità tecnica e allora non si comprende la ragione per cui si tenga ancorata alla giurisdizione amministrativa di legittimità la sindacabilità dei provvedimenti che incidono sulla condizione giuridica dei cittadini stranieri che già soggiornano, spesso da tempo, sul territorio nazionale, limitando la verifica ai soli aspetti formali. La giustificazione del riparto non può essere rinvenuta neppure nella natura fondamentale dei diritti affidati alla giurisdizione ordinaria, non solo perché non tutti condividono la stessa (si pensi, ad esempio, alla cittadinanza), ma perché il soggiorno del cittadino straniero non può non essere considerato un diritto soggettivo, in quanto tale tradizionalmente di pertinenza della giurisdizione ordinaria o quantomeno della giurisdizione amministrativa esclusiva, con potere cioè di accertamento del rapporto e non solo di verifica di legittimità.
Non sono tempi, quelli odierni, per pensare che il legislatore intervenga ad uniformare la giurisdizione in materia devolvendola interamente al giudice ordinario, ma non per questo non può non segnalarsi l’irrazionalità del sistema.