Editoriale

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Mentre il numero corrente di Diritto, Immigrazione e Cittadinanza è in chiusura, l’Europa è scossa dalla terribile invasione dell’Ucraina da parte della Russia. È una guerra di cui si pagheranno costi altissimi, non ultimo quello del numero di profughi che provocherà e del rischio che nuove frontiere vengano rafforzate. È invece prioritario che le istituzioni europee e nazionali si attivino per garantire protezione agli sfollati dai territori ucraini.
Questa nuova crisi segue due anni di emergenze sociali, sanitarie e politiche dovute alla pandemia globale da Covid-19, e di cui i migranti continuano a pagare un prezzo altissimo.
Dopo una flessione degli arrivi nel 2020, il 2022 si è infatti aperto confermando la tendenza che nel 2021 ha visto in aumento le partenze sulle rotte via mare verso l’Europa e, con queste, quasi duplicare le morti sui confini che, per i migranti, diventano passaggi sempre più letali. Oltre ai naufragi al largo della Libia, della Tunisia e del Marocco, le cronache degli ultimi mesi danno conto di quasi 30 morti nel più grave naufragio di migranti mai avvenuto nel canale della Manica, il 24 novembre 2021, mentre il Natale del 2021 dovrà essere ricordato anche per due barconi affondati nell’Egeo, a poca distanza dall’isola di Paros, con altri 27 migranti a bordo. Sono morti che avvengono nel cuore dell’Europa anche quando il mare ne restituisce i corpi sulle spiagge di Zuwara, in Libia, o di Tarfaya, tappa della rotta dal Marocco alle Canarie. Perché le rotte dei migranti ridisegnano i confini geografici e geopolitici dell’Europa, e perché europee sono le politiche che, per fermarli, si spingono ben oltre i perimetri istituzionali degli Stati membri. Ma le frontiere marittime non sono state le uniche zone calde durante gli ultimi mesi. La crisi alla frontiera tra Bielorussa e Polonia, che ha avuto il suo picco tra novembre e dicembre del 2021, ha mostrato ancora una volta l’incapacità dell’Unione europea di fornire risposte, sebbene i migranti tenuti in ostaggio dalla geopolitica internazionale fossero solo 7000, un numero irrisorio per la popolazione europea. Si tratta di una crisi che, nonostante la minore copertura mediatica, non può dirsi risolta, sia perché i morti accertati tra i rifugiati provenienti dalla Siria, dalla Turchia, dall’Iraq, dall’Iran, dallo Yemen e dall’Afghanistan sono almeno 21, e sia perché la Polonia ha risposto con l’avvio della costruzione di un muro lungo 186 chilometri e alto 5 metri, che lascia prevedere un’emergenza a lungo termine. Così come è ormai permanente l’emergenza sulla rotta balcanica, causata dai respingimenti a catena dall’Italia, dall’Austria, dalla Slovenia verso la Croazia, la Bosnia, la Serbia.
Non è dunque un caso che le frontiere siano al centro di questo primo e ricco numero del 2022. Sono al centro, per esempio, della produzione normativa di soft law oggetto dell’analisi di Caterina Molinari, policy officer presso la Commissione Europea e affiliated member del KU Leuven Institute for European Law, che osserva come a partire dall’EU-Turkey Statment del 2015, i successivi accordi di riammissione siglati dall’Unione europea non abbiano più seguito la via della stipula di trattati internazionali, pur semplificati. Molinari sottolinea come il ricorso a strumenti di soft law, introdotto secondo una logica sperimentale di new governance, abbia progressivamente acquisito spazio in materie di rilevanza costituzionale, correlate ai diritti fondamentali, anche nel delicato equilibrio istituzionale dell’Unione europea. Ne è un esempio la menzionata dichiarazione congiunta con la Turchia, di fatto un accordo di riammissione e gestione delle frontiere che ha trasformato il campo profughi di Moira in un centro di detenzione a cielo aperto, così come ne sono esempi il Fondo fiduciario UE per l’Africa e il Memorandum of Understanding tra Italia e Libia che assicurano il sostegno economico e logistico alla cosiddetta Guardia Costiera libica. Il giudizio dell’autrice è netto sulla logica che vede prevalere il ricorso agli strumenti di soft law: utilizzati allo scopo di aggirare i vincoli costituzionali, offrono un indubbio vantaggio in termini di deresponsabilizzazione politica, a tutto detrimento delle possibilità di sottoporne l’azione al controllo giurisdizionale.
Il saggio di Molinari offre un quadro di analisi delle trasformazioni e delle tensioni a cui è sottoposto oggi il diritto nel quale può essere incardinato anche il contributo a più mani di Astuti et. al., che si apre sulle violenze alla frontiera tra Croazia e Bosnia, per spostarsi poi sulle frontiere Schengen che i migranti attraversano sulla rotta balcanica. Il fuoco è pertanto, in questo caso, sulle frontiere interne dell’Unione europea, gestite sempre più sulla base di prassi informali e accordi amministrativi bilaterali, come quelli tra la Germania, da un lato, e la Spagna e la Grecia, dall’altro, finalizzati a velocizzare la riammissione dei migranti e aggirare così i vincoli del controllo giurisdizionale legati al Regolamento Dublino. Di nuovo, a venire in primo piano è dunque una logica di governance implementata principalmente attraverso una regolamentazione di soft law, che vanifica, o per lo meno indebolisce, gli strumenti di controllo e tutela. Non tragga tuttavia in inganno l’aggettivo soft utilizzato accanto al termine legge. Come dimostra il saggio, che si chiude sulle recentissime proposte di modifica al codice delle frontiere Schengen, volte a incrementare lo strumento delle intese bilaterali per facilitare la riammissione dei migranti intercettati, l’espressione soft law non vale a mitigare la violenza messa in campo per attuare questa modalità di regolamentazione. Il contributo, ricco e informato, si distingue anche per la scelta di offrire una riflessione corale. Le autrici e gli autori, tutti componenti dell’ASGI, promuovono l’azione strategica MEDEA Frontiere interne e Balcani, che combina ricerca sul campo, advocacy e contenzioso strategico per la difesa dei diritti dei cittadini stranieri in arrivo in Italia attraverso le frontiere interne e la rotta balcanica. Oltre a confermare la pluralità di voci che da sempre contraddistingue la Rivista, il contributo dà conto dell’attivismo legale – legal activism secondo una terminologia che lo riconduce alla tradizione anglosassone dei Critical Legal Studies – che si sta coagulando attorno al tema delle frontiere. È un buon esempio di come la cultura giuridica debba fare i conti con un diritto che non è mai neutro, neppure quando è semplice oggetto di analisi, e di come quelli che chiamano in causa migrazioni e frontiere siano temi sui quali occorre schierarsi, così come fanno le autrice e gli autori del saggio, anche con strategie dirette di intervento e trasformazione.
Al centro del saggio di Lorenzo Bernardini c’è, invece, la detenzione amministrativa dei migranti, una misura che ha ormai assunto carattere sistematico in tutti i paesi europei, con la giustificazione ufficiale di essere finalizzata ad assicurare l’effettivo controllo delle frontiere. Bernardini la analizza dal punto di vista specifico della giurisprudenza CEDU e dei criteri utilizzati per distinguere tra «privazione» e «restrizione» della libertà. A essere sotto scrutinio è, in particolare, la detenzione nelle aree aeroportuali e nelle stazioni di polizia di frontiera. L’autore mostra come gli orientamenti più recenti della Corte di Strasburgo indichino, di fatto, un “approccio speciale” alla nozione di «restrizione della libertà personale» quando in ballo ci sono i diritti dei migranti nelle procedure di frontiera. In linea con i contributi di Molinari e Astuti et.al., il quadro generale che ne emerge è, insomma, quello di una gestione delle frontiere attraverso norme che derogano ai criteri ordinari di legittimazione. Un diritto “speciale” rivolto agli stranieri, come sottolineano ormai da anni le critiche; ma che forse è diventato anche qualche cosa d’altro. Se è infatti una contraddizione evidente perseguire una “gestione ordinata” delle migrazioni attraverso frontiere governate secondo criteri extra-ordinamentali, bisogna dare atto che il “diritto speciale”, “non-ordinato” che si esprime attraverso l’eccezione alla regola, l’autoritarismo e l’arbitro dei confini riflette processi che, ormai da tempo, caratterizzano la stessa costituzione materiale dell’Europa. Si tratta di processi che, peraltro, investono sia il livello dell’ordinamento giuridico statuale che quello europeo, come mostrano i diversi esempi riportati nei tre contributi, i quali spaziano dalle relazioni esterne dell’Unione europea, agli accordi di riammissione siglati tra singoli stati membri, ai molteplici livelli dell’aquis Schengen, fino alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Da questo punto di vista, quello che viene spesso rappresentato come un braccio di ferro tra l’Europa e gli Stati membri per il governo delle frontiere appare, in realtà, un processo molto più complesso, dove le spinte in un senso o nell’altro non sono unidirezionali, e dove le logiche tendenziali si integrano a vicenda piuttosto che confliggere apertamente.
Completano la sezione dei saggi un intervento di Giuseppe Tropea, sull’annosa questione del riparto di giurisdizione, uno di Marco Benvenuti sulle modalità di accertamento dell’età dei minori non accompagnati e un contributo di Giacomo Travaglino, Presidente presso la III sezione civile della Corte di cassazione. Quest’ultimo, in particolare, torna sul tema della protezione umanitaria che diventa occasione per commentare alcuni aspetti della recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 13 del 20 gennaio 2022, con cui la Consulta ha rigettato le questioni di legittimità sollevate dalla Corte di cassazione su alcune modifiche processuali introdotte in materia di procedimenti giurisdizionali per il riconoscimento della protezione internazionale. A colpire è soprattutto uno degli argomenti utilizzati in motivazione dalla Corte, la quale indica il settore della protezione internazionale come «peculiare» perché caratterizzato da un «esorbitante numero dei ricorsi, di solito seriali». Come osserva Travaglino, a essere legittimato è ancora una volta il ricorso a “norme speciali” – di infausta memoria, secondo il giudizio dell’autore – che rischiano sempre di travalicare in discriminazioni.
È potente il verso di Fabrizio De André che il saggio a più mani di Astuti et al. utilizza come titolo: «Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti». Se ne possono ricordare altri, sempre tratti da Storia di un impiegato, come quelli che ammoniscono il giudice che giudicò chi gli aveva dettato la legge: «Prima cambiarono il giudice e, subito dopo, la legge» - prosegue la canzone. A leggere le parole della Corte costituzionale viene da chiedersi se non siano già cambiati sia il giudice sia la legge. Non ne consegue un giudizio nichilistico sul diritto, ma piuttosto un monito che richiama alla mente come, per Santi Romano, il concetto di diritto dovesse contenere l’idea di ordine sociale al fine di escludere l’arbitrio, da intendersi, quest’ultimo, come esercizio della forza materiale “non ordinata”. È un’affermazione che può essere letta anche nel senso per cui l’arbitrio, il “non ordinato”, segnala che un diverso ordine sociale si sta imponendo attraverso l’esercizio della forza; così come sembra accadere alle frontiere esterne e interne dell’Europa.